Le piccole storie delle grandi montagne

Fotografare le Alpi #13. Intervista a Luca Matassoni

Le piccole storie delle grandi montagne

©Luca Matassoni

C'è qualcosa di magico nel modo in cui la montagna rivela le sue storie a chi sa ascoltare. Luca Matassoni ha imparato quest'arte sin da ragazzo, quando un'indimenticabile notte in bivacco gli ha aperto gli occhi su un mondo di possibilità nascoste tra le rocce e i silenzi delle Alpi. Il fotografo 26enne è cresciuto a Rovereto, circondato dalle montagne che hanno plasmato il suo sguardo e la sua sensibilità; quella notte in campeggio a Folgaria, da adolescente, ha segnato l'inizio di un'esplorazione che non si è mai interrotta. Da quella prima avventura documentata con una macchina fotografica recuperata per caso, ha intrapreso un doppio percorso che l'ha portato ad approfondire anche l’immagine in movimento e a studiare all'Accademia di Belle Arti di Brera e poi Cinema a Bologna.

Il suo approccio alla montagna è evoluto insieme al suo sguardo. Dal documentare le scalate con gli amici è passato a esplorare le storie nascoste nelle pieghe delle Alpi, come nel pluripremiato documentario "Altavia 4000" che racconta l'impresa di due alpinisti sugli 82 quattromila delle Alpi, dal Monte Rosa al Monte Bianco. Oggi il suo nuovo progetto –  il cui titolo ancora provvisorio è "Il campo del possibile" – si concentra su una dimensione più intima: la vita quotidiana del rifugio Carè Alto, a 2.459 metri sull'Adamello, e del suo gestore Gianni, ex custode del Masetto in Valle di Terragnolo.

©Luca Matassoni

Luca, come nasce questo progetto fotografico?
Nasce grazie a Instagram, da un post del Carè Alto. Erano i primi di giugno e ci colpì l'attenzione con cui veniva evidenziata la nuova esperienza che sarebbe partita con Gianni, il nuovo rifugista che conoscevamo per la sua lunga gestione al Masetto caratterizzata da grande sensibilità nei confronti delle terre alte, dalla volontà di interrogarsi, di invitare ospiti, di parlare e confrontarsi su diverse tematiche. Dopo il progetto "Altavia 4000", più legato all'aspetto sportivo, ci interessava esplorare la dimensione della media montagna: quella dei rifugi, quella più frequentata. Abbiamo contattato Gianni, ci siamo trovati subito in sintonia e abbiamo deciso di seguirlo durante la stagione, con telecamera e macchina fotografica, inizialmente in maniera molto libera e disordinata. Durante l'estate siamo stati su diverse volte, abbiamo dormito lì e abbiamo deciso di strutturare il racconto attorno al suo diario quotidiano di un rifugio "della vecchia scuola", ancora alpinistico, sfruttato per dormire e, il giorno successivo, salire la cima.

Come si declina il tuo progetto alpino?
Si declina in una serie di riprese che Marco, il mio socio, e io stiamo montando per arrivare a un documentario breve, tra i 15 e i 20 minuti, che racconti con semplicità e lentezza l'esperienza di Gianni e quella delle persone che lo raggiungono al rifugio. Vogliamo un lasciare un ritmo disteso per apprezzare meglio le immagini, i luoghi, il paesaggio. Le riprese sono affiancate da fotografie di documentazione realizzate in analogico su pellicola, più come reportage e ricordo. Mi piace molto scattare a pellicola e rivedere le fotografie alla fine dell'estate, quando mi sono anche dimenticato cosa ho immortalato. Le immagini saranno accompagnate, nel docufilm, dalla lettura fuori campo delle riflessioni di Gianni.

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Quali le due immagini più "estreme", i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Il progetto si sviluppa su dei contrasti: il dualismo della montagna – la roccia, il ghiaccio, l'infinitamente grande che gli alpinisti devono affrontare – e del rifugio, una piccola struttura che sorge in un ambiente ostile e che li accoglie. È l'elemento antropico più caratterizzante, il luogo del riparo e del calore. Questi due elementi vengono vissuti in modi diversi: c'è chi abita il rifugio e deve stare lì un'intera estate, in una sorta di stasi, e chi lo attraversa, sale e scende, vive la montagna per due giorni e poi va. In questo contrasto ci sono i rapporti umani. Visivamente si coglie la contrapposizione tra il freddo e il calore, l'ostilità esterna e la sicurezza interna, la texture della roccia e il vento che sferza la natura e invece il riparo al calore del legno, della stufa.

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Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Il mio lavoro spazia molto tra linguaggi diversi, dalla fotografia al documentario. Oggi lavoro principalmente in ambito commerciale, occupandomi di eventi sul territorio, ma cerco di ritagliarmi spazio per i miei progetti personali. Forse non ho uno stile definito, anche se spesso amici e colleghi dicono di riconoscere chiaramente i miei scatti. Cerco di raccontare quello che vedo con semplicità e onestà, senza legarmi a un mezzo particolare; mi piace sperimentare e adattare il mio stile al progetto. Se devo trovare un aspetto ricorrente, è forse l'elemento umano inserito nel paesaggio, l'isolamento di questo piccolo elemento nel contesto più ampio.

Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Dalle prime esperienze di esplorazione; poi con gli studi e nuovi posti da scoprire ho capito che le Alpi sono un territorio incredibilmente complesso e denso. Ci sono tantissime storie da raccontare, anche sulle montagne che vedo dalla mia finestra. Mi intriga l'idea che attorno a me ci sia questa stratificazione di storie legate al paesaggio: l'aspetto storico, climatico, la vegetazione, il turismo. Sono tutti aspetti intrecciati tra loro e mi piace provare a sciogliere questi fili intricati. Tra l'altro mi circondano, io vivo qui, ci sono in mezzo: mi sento un cittadino delle Alpi e penso che qui ci siano storie che potrei raccontare per tutta la vita senza mai esaurirle.

Riconosci un'evoluzione nei tuoi scatti alpini?
I primi nascevano da una sorta di fascinazione per il paesaggio: forme, colori, luci. Lo fotografavo perché era bello. Col tempo sono cresciuto e sono uscito da questa visione, concentrandomi sempre più sulle persone e sulle loro storie. La montagna, per quanto affascinante, come diceva Bonatti è "mucchi di sassi": l'interessante sono le storie di chi vive questi luoghi. Un altro salto di prospettiva è stato il confronto con la realtà del cambiamento climatico e dello sfruttamento turistico, che minacciano la fragilità dell'ecosistema in cui viviamo e che io tocco con mano ogni giorno in modo impressionante.

Con quale approccio hai scelto di immortalare l'arco alpino?
L'intento in primo luogo è quello della curiosità personale: mi riesce difficile intraprendere progetti che non mi suscitano domande. Cerco poi di andare in profondità, di far conoscere quello che sto raccontando e di riportarlo in maniera onesta. Nell'ultimo progetto al Carè Alto, l'intenzione è raccontare come si può vivere il rifugio in un certo modo: non come meta per un buon pranzo, ma come luogo da raggiungere con fatica, dove dormire e vivere il territorio circostante. Ogni progetto ha il suo obiettivo specifico e la sua indagine particolare.

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Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Ho capito che bisogna starci dentro ai progetti, viverli, passarci tanto tempo anche senza pensare necessariamente alle immagini da girare. Bisogna interagire con le persone che stanno in quei luoghi e cercare di assorbire il più possibile, prima di mettersi all'opera. Spesso si parte con molte aspettative su come potrebbe andare il lavoro, sulle immagini che si vorrebbe scattare, ma proprio nello scarto tra le aspettative e quello che si trova sta la parte interessante. È fondamentale trascorrere tempo nei luoghi che si vuole raccontare e darsi la possibilità di cambiare idea in proposito.

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Com'è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Io vivo in fondovalle, vedo le montagne dalle finestre di casa mia e già questo è uno stimolo per la memoria, per ricordare le esoerienze fatte e ideare nuovi progetti. Quando salgo in quota mi si attiva la sensibilità, la voglia di stare in quei luoghi. Vivo le vette in modi diversi: a livello sportivo con passeggiate, corse e bicicletta, ma anche cercando di approfondire certi aspetti attraverso le immagini. È un rapporto complesso: nella montagna trovo serenità ma anche contraddizioni, soprattutto vedendo i cambiamenti subiti dai luoghi che visito regolarmente. Questo mi genera tristezza, ma anche voglia di mettermi in gioco per cercare di invertire la rotta.

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Quale consideri il tuo scatto migliore?
C'è una foto che mi piace particolarmente del progetto al Carè Alto: è scattata dall'interno del nuovo arrivo della teleferica, dove tre operai della valle hanno trascorso l'estate per i lavori di costruzione e hanno lasciato l'impronta delle loro mani nel cemento fresco, sopra lo stipite della porta non ancora installata. Attraverso il varco, si vede il rifugio e tutta la cresta della montagna. Mi piace l'idea di questi tre ragazzi che hanno voluto lasciare la loro firma nella storia del luogo. Mi piacciono i dettagli perché quando, si riescono a leggere, ti si spalancano storie intere.

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Senti il desiderio di catturare un'immagine ancora mai scattata?
Mi è capitato di vedere una scena vicino alle Dolomiti di Brenta: una grande scultura d'orso e, come sfondo, le guglie delle montagne. Erano state posizionate delle stazioncine su cui appoggiare il telefono per farsi il selfie e c'erano famiglie che, come automi, si scattavano foto con l'orso sullo sfondo. Mi ha fatto riflettere sull'immagine che abbiamo del selvatico, su come la sua presenza ci arrivi in modo mediato attraverso le notizie e l'immaginario collettivo, mentre la quasi totalità delle persone non vedrà mai un orso in natura. Non avevo la macchina fotografica con me, ma chissà... da questa fotografia mancata potrebbe nascere un progetto futuro.

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