Immortalare le visioni di ciò che resta
Fotografare le Alpi #12. Intervista a Marina Caneve

© Marina Caneve
Marina Caneve (si pronuncia Càneve) ha 36 anni, è nata a Belluno e dopo aver girovagato per l'Europa, studiando e fotografando, è tornata tra le sue montagne. Non per nostalgia, ma per una consapevolezza maturata proprio grazie alla distanza: "Queste vette non sono solo uno scenario, sono un caleidoscopio di possibilità per leggere il contemporaneo".
Il suo percorso inizia con una laurea in architettura allo IUAV di Venezia e una tesi sull'uso della fotografia nelle ricerche urbane, sviluppata durante l'Erasmus a Parigi. "Ho scoperto che mi interessava più lavorare con l'immagine bidimensionale che con l'architettura", racconta. "Guido Guidi è stato mio correlatore: devo ringraziare lui e il professor Enrico Fontanari perché mi hanno dato l'opportunità di costruire una carriera scommettendo su una tesi non così ortodossa alla facoltà di architettura". Quindi la svolta con il primo workshop del fotografo olandese Raimond Wouda: "Era organizzato dal magazine “Landscape Stories” di Giampaolo Arena, che ho ritrovato dopo il seminario con Guido Guidi e con il quale ho appena pubblicato il libro "Calamita/à. Passato, presente, futuro", un progetto mastodontico realizzato sul Vajont. Un intreccio di felici coincidenze, perché anni dopo sono diventata assistente di Raimond in Olanda".



Marina, come nasce questo progetto fotografico?
"Calamita/à" nasce nel 2013: mi ero appena laureata, avevo lavorato a un progetto alla periferia nord di Parigi e volevo realizzare qualcosa nel territorio da cui provenivo. Ho pensato al Vajont: mi sembrava che non ci fosse stato un grande dibattito dal punto di vista delle arti visive su questo tema che è una forte metonimia dell'Italia contemporanea. Ho coinvolto Gianpaolo Arena e abbiamo creato una piattaforma online invitando una cinquantina di fotografi e artisti a lavorare sul territorio.
Come si declina il tuo progetto alpino?
All'interno di "Calamita/à" ogni artista ha lavorato in direzioni molto specifiche e diverse. Il mio lavoro, intitolato "Crolla la diga, le voci si contraddicono", nasce dalla memoria dei racconti dei miei genitori: bambini all'epoca della catastrofe, abitavano in due comuni limitrofi uno a livello del Piave e l'altro a monte, e conservavano visioni e ricordi molto diversi della mattina del 10 ottobre 1963. Ho voluto creare un progetto che fosse un incrocio tra immagini realizzate nel paesaggio, giocando con il linguaggio fotografico di movimenti, rotazione, traslazione, avvicinamento e ripetizione, e un archivio "disobbediente" di materiali collezionati negli anni che parlano in maniera contraddittoria del Vajont.


Quali le due immagini più "estreme", i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
La prima è una fotografia che è stata un errore, ma che mi ha fatto capire che stavo esplorando il paesaggio muovendomi dentro i gesti base della fotografia: è un'immagine del fianco della diga in cui tre quarti è fuori fuoco, con un raggio di sole che arriva da destra illuminando la roccia, mentre a lato si vede a fuoco una passerella sgangherata con dietro altre rocce e una cascata in ombra. L'altra è realizzata in studio su fondo nero: ho fotografato i racconti scritti dai miei genitori di quella mattina, sovrapposti in una lunga esposizione in cui le righe dei loro fogli a protocollo si incrociano, diventano trasparenti, evocando i loro diversi punti di vista.
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Potrei parlare di un certo tipo di toni o di atteggiamento, ma quello che penso renda riconoscibile il mio lavoro sia la stratificazione di esperienze, la contaminazione di visioni mai frontali. Non voglio essere descrittiva, cerco sempre di innescare ragionamenti attraverso punti di vista laterali. È un lavoro basato sull'idea del frammento, giocando con la confusione generata da punti di vista diversi. Mi interessa far dialogare frammenti che appartengono a dimensioni differenti: in "Crolla la diga" c'è la compenetrazione tra paesaggio e archivio, in "Are they Rocks or Clouds?" tra visione fotografica, geologica e antropologica.



Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Non ho lavorato solo sulla montagna, ma mi ci sono dedicata molto: è un territorio maestoso ma estremamente fragile allo stesso tempo. La montagna per me è casa, dove sono nata. Ho sempre pensato fosse un luogo come gli altri finché non sono andata a vivere a Parigi nel 2011: la distanza mi ha fatto capire che era qualcosa di molto speciale. Prima lo davo per scontato. Incontrando persone da tutto il mondo ho capito che le Dolomiti erano qualcosa di straordinario: da lì è nata la voglia di lavorarci, prima con "Calamita/à" e poi, nel 2016, con un progetto sul rischio idrogeologico. Mi interessa molto il rapporto tra fascinazione per la montagna e fragilità di questo ambiente, che si mostra in maniera più chiara qui che altrove.
Riconosci un'evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Ho lavorato a quattro principali progetti sull'arco alpino: "Calamita/à", "Are they Rocks or Clouds?", "Entre chien et loup" (tra cane e lupo) realizzato per il Museo nazionale della Montagna di Torino e "La valle tra le cime e le stelle" realizzato con Paolo Aria nei tre anni precedenti i Mondiali di Sci del 2021. Nei primi progetti fotografavo il luogo attenendomi a regole molto chiare: in "Are they Rocks or Clouds?", ad esempio, c'erano categorie come protezione, esperienza, resilienza, distruzione. Negli ultimi lavori, invece, la dimensione geografica si incrocia molto di più con immagini che non hanno niente a che vedere con quel luogo, ma che portano dentro immaginari diversi, legati a questioni culturali.


Con quale approccio hai scelto di immortalare l'arco alpino?
Penso che la fotografia abbia una dignità propria, ma mi interessa molto la dimensione multidisciplinare e multilinguaggio. Cerco sempre di guardare da punti di vista laterali, di vedere come un soggetto è stato osservato attraverso altre discipline. Mi piace molto usare caption e didascalie, non come spiegazioni da leggere insieme all'immagine ma come testi autonomi, così come l'uso di materiali d'archivio e video. Cerco di capire quale linguaggio sia più coerente rispetto al tema che sto affrontando.
Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Che le montagne sono maestre di vita e metonimia di tante cose. Sono un contenitore infinito di possibilità e fascinazioni, un modo per parlare di questioni più ampie. Io non realizzo semplicemente progetti sulla montagna; usano la montagna come punto di partenza per parlare della nostra contemporaneità. L'esperienza di fruire la montagna è molto simile alla pratica artistica per come la vivo io: ti permette continuamente di creare digressioni, di avere sorprese, di creare una visione sempre più complessa e ricca di sfaccettature, di rimanere affascinato, spaventato, confuso.


Com'è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Mi fa riflettere come spesso la montagna venga usata in maniera ludica, come un giocattolo. Ma non è solo cime e percorsi: è un sistema complesso e fragile che mi interessa perché mostra tante contraddizioni della nostra società. Nel 2018 ho deciso di tornare in Italia e di vivere in montagna, nonostante le difficoltà di conciliare questa scelta con la mia pratica e l'insegnamento a Bologna, Brescia e Locarno. È una situazione che mostra da un lato il privilegio di essere vicina a un luogo così straordinario, dall'altro le complessità di rapportare una pratica artistica con il vivere in un luogo periferico. Stare qui mi permette di separarmi dal mio lavoro, di avere un'esperienza diversa del paesaggio. La montagna ha costellato questi miei anni di vita e di lavoro: ora mi domando se e cos'altro porterà a un'evoluzione, che ci sarà sicuramente.
Quale consideri il tuo scatto migliore?
È impossibile scegliere un'immagine rappresentativa perché la mia fotografia è fatta di frammenti, registri linguistici diversi e uno non può vivere senza l'altro. Non a caso quando parlo di progetti parlo sempre di libri: sistemi complessi all'interno dei quali convivono tante cose. Se proprio devo scegliere, in questo momento una delle immagini che prediligo è una fotografia di "On the ground among the Animals": una rete con un buco che tiene insieme tutta la complessità di un ragionamento, un richiamo a un'immagine che viene da un altro luogo. La trovo molto rappresentativa: è triste, malinconica, ma anche molto bella.

Non ho il feticcio dell'immagine dei sogni. Esistono fotografie che non dimenticherò mai perché sono state lì per anni, o anche una volta sola, e non le ho fatte; mi succede continuamente e sono le cose che devi lasciare andare. Ce n'è una, su tutte, che amo: un'immagine che ho visto per anni di una berlina completamente ricoperta di edera, parcheggiata accanto a una casa vicino a dove abitavano i miei genitori. Ho sempre pensato che fosse una fotografia straordinaria, però non c'era mai un vero motivo per scattarla; per anni ho pensato "la devo fotografare" e poi un giorno è sparita. Quella fotografia so esattamente com'e, ma so anche che non si concretizzerà mai perché quello scatto non esiste più. Ha a che vedere con l'immediatezza di qualcosa che vedi e parla del tipo di lavoro che fai; se fossi stata una fotoreporter l'avrei immortalata cento volte, invece il mio pensiero su chi sono come fotografa e come artista mi ha impedito di farla. molto spesso mi accade, dopo tutti questi anni di progetti articolati, di aver voglia di scattare immagini solo perché sono lì in quel momento e poi si vedrà. Immagini di cui non se ne farà mai nulla. O forse sì.
