Le “stelle cadenti” tra i confini invisibili del Vajont
Fotografare le Alpi #10. Intervista a Gianpaolo Arena

© Gianpaolo Arena
Originario di Valdobbiadene e da vent'anni residente a Treviso, Gianpaolo Arena, 49 anni, è un fotografo la cui passione è nata tra i banchi universitari di Architettura a Ferrara. "Fin da quando ero adolescente sono un onnivoro fruitore, ascoltatore e lettore, mi interesso di arte contemporanea, musica e cinema: tutto quello che riguarda l'immaginario culturale visivo è sempre stato parte di me ed è un aspetto prioritario anche delle mie scelte stilistiche", racconta. Durante gli studi, la fotografia diventa strumento di interpretazione del territorio e fonda il magazine "Landscape Stories".
Dodici anni fa, con la collega Marina Caneve, avvia il progetto artistico "Calamita/à. Passato, presente, futuro". Dedicato alla catastrofe del Vajont, è racchiuso nell'omonimo libro che racchiude altri quattro lavori fotografici internazionali - di Céline Clanet, François Deladerriere, Petra Stavast e Jan Stradtmann - e il suo "Collapsing Stars". Attraverso paesaggi e still life di alberi spezzati, il progetto parla dei superstiti testimoni della catastrofe di quel 9 ottobre 1963: Arena ha realizzato una serie di ritratti a persone che all'epoca erano bambini o ragazzi e oggi hanno più di 65 anni.
Gianpaolo, come nasce questo progetto fotografico?
Si è stratificato nel tempo, perché all'origine non era chiara l'idea di sviluppare un progetto di lungo termine. Il lavoro si è articolato attraverso due piani: uno più emotivo, emozionale e di fascinazione, e un altro più analitico e documentaristico, che si sono progressivamente compenetrati e influenzati. Avere la possibilità di stare a contatto con i testimoni del Vajont, parlare per ore e trascorrere delle giornate insieme mi ha trasformato profondamente. Sentirsi raccontare la catastrofe da chi l'ha vissuta è qualcosa di realmente indimenticabile. Questi testimoni sono profondamente coinvolti in una storia che rimane una grande cicatrice nelle loro vite: molto spesso, le nostre conversazioni diventavano sfoghi o pianti ininterrotti. È stato emozionante ogni racconto di quel giorno, ciascuno diverso dall'altro.
Come si declina il tuo progetto alpino?
Ho realizzato ritratti, fotografato testimonianze scritte dai testimoni e immagini di paesaggio montano del Vajont e del bosco vecchio, nell'area della frana alla base del Monte Toc. Questo luogo, diventato quasi magico, ospita dei veri monumenti alla tragedia: alberi inclinati a 45 gradi su cui si sono innestate nuove giovani piante alla ricerca della luce. Il risultato sono figure quasi antropomorfe, alberi che sembrano incantati. Il libro "Calamita/à", pubblicato a settembre dall'editore olandese Fw:Books, si compone di 512 pagine con numerose fotografie e testi esclusivi: il mio progetto "Collapsing Stars" è stato affidato alla curatrice tedesca Olga Smith e comprende una sessantina di fotografie.


Quali le due immagini più "estreme", i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
La prima è un'immagine scattata circa otto anni fa che ritrae la diga del Vajont avvolta nella nebbia. È emblematica e richiama un paesaggio dolomitico straordinario, unico ma al contempo sinistro, legato a una storia inquietante del '900 italiano. Sfata inoltre un falso mito: la diga non è crollata, ma è un'opera di altissima ingegneria ancora perfettamente integra, che si può visitare esattamente com'è stata costruita. La seconda immagine è invece l'ultimo ritratto che ho realizzato, quello di Marcello Mazzucco. È stato un incontro molto importante perché abbiamo avuto la possibilità di trascorrere molto tempo insieme, si è aperto in modo profondo, raccontandomi dettagli che hanno avuto un ruolo cruciale per lo sviluppo finale del progetto artistico.
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Credo che sia un'alternanza tra l'approccio documentaristico e uno più personale, legato ai luoghi e alla loro intrinseca perfezione. È caratterizzato da un'idea di rappresentazione della realtà per come la vivo, la percepisco e decido di restituirla attraverso il linguaggio fotografico, che rimane sempre un'interpretazione del reale. A volte i luoghi che ritraggo restituiscono l'unicità del luogo stesso, altre volte mi piace mischiare le carte, mantenendo una sottile ambiguità nella rappresentazione. Amo i luoghi carichi di significato che sottendono sempre un'idea di mistero, quasi fossero religiosi, avvolti in una luce particolare che li rende non totalmente decifrabili e richiama una certa idea di wilderness del paesaggio americano che ho ritrovato in quelle particolari montagne.
Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Nasce proprio con l'idea di raccontare la storia della catastrofe del Vajont, una tematica cruciale per la storia del nostro Paese perché rimane un buco nero in una vicenda profondamente politica. Coinvolge aspetti legati alla montagna come lo sfruttamento dell'energia elettrica e la tutela dell'equilibrio paesaggistico. In un Paese estremamente fragile, il paesaggio montano lo è particolarmente, ma ce ne ricordiamo solo quando accadono catastrofi che alterano profondamente gli equilibri esistenti. La storia del Vajont mi ha portato a esplorare questo tema, e più mi addentravo, più sentivo la necessità di approfondire. Tra le immagini che hanno segnato la mia percezione ce n'è una della diga: austera, grigia, possente, simbolo di modernità e progresso; è impressionante accostarla all'immagine del giorno dopo, con i binari del treno accartocciati come fili elettrici, rappresentazione della fine della modernità e del fallimento del progresso.



Riconosci un'evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Sicuramente il mio modo di guardare le cose è cambiato con il trascorrere del tempo. A interessarmi della montagna è il suo concetto culturale, non il bello e il sublime del paesaggio dolomitico, ma come è stato trasformato negli ultimi cinquant'anni. L'avvento della strada ha segnato un prima e un dopo, caratterizzando profondamente la percezione del paesaggio montano. Ho osservato i flussi turistici, i fenomeni delle seconde case, i fine settimana che trasformano le montagne in parchi giochi dove la gente vive surrogati della realtà, non esperienze di conoscenza dei luoghi. La natura sembra arretrare lasciando spazio a un paesaggio addomesticato, docile, disegnato dall'uomo come un parco tematico per un pubblico pagante. L'industria del tempo libero determina il disegno del paesaggio montano, un aspetto che, come fotografo, è estremamente interessante: mi permette di leggere tutto lo "sporco" dietro la montagna, ciò che avviene negli interstizi e negli spazi liminali creati dall'uomo.

Con quale approccio hai scelto di immortalare l'arco alpino?
In parte emozionale, in parte analitico e documentario. Tengo insieme aspetti diversi attraverso un metodo legato al senso critico: la mia è sempre un'interpretazione filtrata dal mio pensiero, dalla mia conoscenza, dalla mia esperienza. Cerco di mettere in luce una lettura critica del paesaggio montano che mi circonda, a volte provando gioia e interesse, altre volte frustrazione. L'obiettivo è catturare il modo in cui si sta trasformando non necessariamente con le immagini più forti o esteticamente equilibrate, ma con quelle capaci di raccontare le cose dando ordine al disordine. Alcune foto riescono a ristabilire un ordine apparente anche quando non c'è o è sopito, nascosto sottopelle.
Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
La storia del Vajont, come l'ho conosciuta negli anni, ha avuto su di me una profonda influenza. È interessante parlarne oggi perché non è solo la storia dell'Italia del 1963, ma di quello che continua ad accadere ed è strettamente legata a temi contemporanei geopolitici: crisi climatica, flussi migratori, alterazione del paesaggio. Aspetti che ci portano a un momento chiave della storia dell'umanità.



Com'è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Il modo in cui mi relaziono alla montagna non è mai uguale, ma una costante è la lezione che mi offre sul senso dei miei limiti. La sua durezza, le asperità, le distanze, il freddo e le scomodità mi portano a confrontarmi quotidianamente in modo diverso con me stesso. È una relazione unica, fatta di timore e mistero, di ammirazione e consapevolezza della nostra piccolezza. Il rapporto con il limite si basa sulla paura positiva, se ti spinge ad andare oltre, ma richiede estrema cautela: se superi il confine, la montagna non perdona. È una lezione profonda perché ti porta a misurarti con il tuo senso di finitezza.
Quale consideri il tuo scatto migliore?
È una fotografia che non ho mai pubblicato. Da più di dieci anni porto avanti una ricerca sui cambiamenti delle grandi megalopoli asiatiche. Nel 2021 ho pubblicato "A Folktale From Vietnam: Speeding Motorcycles and Roasted Lemongrass" e ho una collaborazione con lo Iuav di Venezia per un libro sulle trasformazioni urbanistiche di Ho Chi Minh. Di quel lavoro, scelgo un ritratto scattato nella regione di Ha Giang, al confine con la Cina: un uomo in scooter, con occhiali e casco, che fuma in una terra di nessuno, desertica. Non ci siamo detti nulla, ci siamo intesi a gesti. Pur assomigliando ad altri miei ritratti, quella foto ha una forza particolare, un sottile velo di mistero.


Senti il desiderio di catturare un'immagine ancora mai scattata?
La fotografia più bella è sempre quella che devo ancora scattare, di cui sono alla ricerca. Non c'è un soggetto o un luogo specifico che, chiudendo gli occhi, senta più di altri il desiderio di rincorrere in un'immagine.