
© Daniele Mantione
La montagna in altezza, con i suoi spazi siderali, fatti di pietre millenarie e ghiaccio, con le sue storie di umani e di animali, di rocce, alberi e fiori che sbocciano in mezzo ai sassi (e che si possono anche cogliere talvolta, badando a non cadere, non solo metaforicamente). Storie di acqua che si scioglie, che sgorga e che va, che sparisce e poi ritorna, nascondendosi e filtrando tra le rocce, senza svelare esattamente il luogo della sua origine. E poi la montagna nella testa e nel cuore, che non ti lascia mai andare via, legandoti indissolubilmente a sé, con il suo magnetismo o dove non si può smettere di tornare, ancora ed ancora, ad ogni nuova primavera, perché il suo richiamo e le tante voci che la percorrono non si zittiscono mai, neanche quando la vita ti conduce lontano ad altre altitudini.
Le voci sono quelle degli alberi, del verso degli uccelli e del vento tra le fronde, delle foglie e dei tronchi che cadono; dell’acqua sorgiva che zampilla, scroscia, si rovescia dentro una ciotola di legno o nel fragore di una cascata; del ghiaccio che scrocchia sotto gli scarponi, del fuoco che scoppietta nella brace di un falò. E poi c’è quell’altra voce unica che arriva da tutt’intorno: quel silenzio che sa di quiete senza essere mai un vero silenzio, ma è un suono sordo come un vento lontano o come il rimbombo della terra e che spinge lo sguardo attorno a sé, a 360° gradi e verso l’alto, a cercare presenze e segnali provenienti della natura.
Queste sono solo una manciata di suggestioni risvegliate dal film-documentario “Fiore mio”, diretto, scritto e interpretato da Paolo Cognetti, recentemente distribuito da Nexo Studios in una tre giorni di proiezioni nelle sale italiane, tra il 25 al 27 novembre 2024. Il film d’esordio alla regia dello scrittore milanese - vincitore del Premio Strega con il romanzo di successo internazionale “Le otto montagne”, seguito dall’altrettanto fortunato film diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch - è un'opera contemplativa dal genere ibrido, tra documentario, autobiografia, cinema di poesia, con la montagna al centro della narrazione a dominarne la scena, i pensieri e i racconti che si snodano via via.


Vediamo lo scrittore attraversare i paesaggi alpini, tra ghiacciai, paesaggi pietrosi e boschi, in compagnia del suo fidato cane Laki e visitare tre rifugi (Quintino Sella, Orestes Hutte e Mezzalama), incontrando amici e rifugisti, uomini e donne che condividono con l’autore e gli spettatori, squarci delle loro vite strettamente radicate in montagna e differenti prospettive sul vivere in alta quota. La narrazione supportata dalla bellissima e cristallina fotografia di Ruben Impens e accompagnata dalla suggestiva colonna sonora composta da Vasco Brondi, ricorre alla ricerca dell'acqua come filo conduttore e metafora che rimanda a una sete più profonda: quella di senso e pace interiore, che in qualche modo tocca tutte le voci interpellate, a partire da Cognetti, attraverso le persone che incontra, fino a quegli autori e mentori del passato, come Thoreau e la poetessa Antonia Pozzi citati nel film, che hanno fatto loro e a sublimi livelli, questa ricerca di libertà, purezza e elevazione spirituale nel contatto con la montagna, entrandovi in sintonia tra boschi e vette, e che non hanno smesso di far vibrare il loro pensiero, attraverso la letteratura, a distanza di molti anni. La voce più forte tuttavia rimane quella della montagna che richiede di essere ascoltata con umiltà, perché alle sue altezze vigono altre regole imposte dalla natura, in un’inversione dell’ordine stabilito dall’uomo, che impone le proprie leggi a quote più basse, ma che in altitudine non può che adeguarsi. E seppure il cambiamento climatico inizi a farsi sentire anche lì, sciogliendo i ghiacciai, minacciando tale ordine e scalfendone l’apparente immutabilità, si coglie nel film la fiducia e la speranza riposta da Paolo Cognetti e non solo nella forza generatrice della natura, che in un modo o nell’altro troverà sempre il modo di perpetrare il suo circolo vitale.

Ci sarebbe molto altro ancora da dire su “Fiore mio” ma mi fermo qui, scrivendo invece cosa porto con me da questa prima visione: mi porto a casa l’intimità dello sguardo del regista quando la telecamera coglie i momenti di solitudine e domesticità della vita quotidiana attorno alla propria “tana” tra i monti, quando ci si attarda a leggere un libro sotto il piumone, a guardare le stelle o a suonare qualche nota sulla chitarra nel silenzio della notte; mi porto a casa il biancore della neve e del ghiacciaio, nella cui abbagliante vastità l’uomo e il cane camminano, scomparendo come puntini o formiche in lontananza. Porto con me la commozione sul volto scavato dal tempo della guida alpina Arturo e la gioia semplice nella risata contagiosa di Sepe, lo sherpa nepalese.
E poi, non da ultima, sul finire del film, l’immagine di quel rapace sospeso in altezza sopra le vette, in equilibrio tra le diverse correnti ascensionali. Una creatura animale vigile, apparentemente ferma in volo ma pronta all’azione e che gode di una prospettiva capovolta rispetto alla nostra, brillando al sole nei colori dell’oro, quasi ieratica e mistica e la cui vitalità sembra esplodere sulle note di “Fiore mio”, la stupenda canzone onirica di Andrea Laszlo De Simone, che non conoscevo (per mia ignoranza) e che sicuramente ha fatto da sotto fondo alla lavorazione del film. Un’immagine iconica e d’ispirazione, quest’ultima, nella sua transitorietà sospesa “oltre il limite”, là dove osano le aquile, e dove "splendono gli astri metallici e bianchi" come canta De Simone, in un raro equilibrio tra libertà e consapevolezza dei propri limiti, tra attesa e azione, tra realtà e desiderio.
