La geografia dell’anima

Fotografare le Alpi #9. Intervista ad Alessandro Cinque

© Alessandro CInque

La fotografia di Alessandro Cinque è un viaggio poetico ai margini del globo. Nato a Orvieto nel 1988, il fotografo fiorentino di adozione peruviana ha trasformato la sua lente in un ponte tra culture, raccontando storie di resistenza e dignità umana. Ha vinto il World Press Photo nel 2022 per un progetto sulla transumanza degli alpaca, il Picture of the Year nel 2019 con "Perù, uno stato tossico" ed è diventato esploratore per National Geographic con copertine iconiche che hanno segnato il suo percorso artistico.

Collaboratore di testate internazionali come New York Times, Wall Street Journal e Washington Post, vive in Perù da otto anni dove ha sviluppato un linguaggio fotografico che supera i confini geografici. Il suo ultimo progetto "Forests seen from Space – Echoes of the Vaia storm", in mostra alla Galleria Leica di Milano fino al 7 gennaio e nato da una collaborazione tra  Leica ed ESA, l'Agenzia Spaziale Europea, è un dialogo intimo tra la prospettiva terrestre e quella satellitare. Un racconto che intreccia distruzione e rinascita.

Alessandro, come nasce questo progetto fotografico?
All’inizio ero molto perplesso e persino un po' spaesato. Avevo proposto di fotografare l'Amazzonia peruviana, un territorio che ormai sento mio, invece mi è stato chiesto di esplorare le Alpi italiane. Non avevo mai documentato il mio Paese con uno sguardo da fotogiornalista e temevo di cadere nei classici stereotipi. Avevo paura di non riuscire ad andare in profondità, di fare una fotografia superficiale. Poi, prendendo a noleggio un'auto a Firenze e risalendo verso le Alpi, ho iniziato un viaggio che mi ha riportato nei luoghi della mia infanzia: Moena, San Martino di Castrozza. Tornare lì, dove avevo trascorso gli anni da bambino, mi ha permesso di superare le mie resistenze iniziali.

Come si declina il tuo progetto alpino?
L’editor ha selezionato 64 scatti realizzati in una settimana con base ad Agordo. Ho documentato la tempesta Vaia da molteplici prospettive: dalle case danneggiate agli artisti che trasformano il legno degli alberi abbattuti. Ho incontrato persone come Merino, guardiano del bosco e artigiano, e ho trascorso due giorni in una malga seguendo una famiglia mentre mungeva le mucche e produceva formaggio. L’obiettivo era raccontare la ripartenza, mostrando come le comunità si rigenerano mantenendo vive le tradizioni.

Quali le due immagini più "estreme", i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Le immagini più contrastanti sono quelle della devastazione di Vaia, con intere aree di alberi abbattuti e disboscati, e quelle girate in malga, dove ho seguito la produzione di formaggio. Mi ha colpito vedere nelle Alpi pratiche che conoscevo solo in Perù, come la transumanza. Da un lato c’è la natura devastata, che dimostra l’impotenza umana; dall’altro la dignità di chi resiste, lavorando e tramandando tradizioni. La foto dell’uomo che fa il formaggio, per me, annulla il panorama devastato perché racconta la resilienza, la capacità di ripartire. 

© Alessandro Cinque

Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Cerco di catturare la quintessenza delle persone. Non mi interessa documentare un luogo specifico, ma raccontare la relazione tra l’essere umano e ciò che sta facendo. Per me, la foto del signore che fa formaggio non è uno scatto in una malga trentina, ma un’immagine universale della dignità del lavoro. La mia fotografia vuole superare i confini geografici, cercando l’essenza del rapporto tra l’uomo e la sua attività, come se chi fotografo fosse una divinità del fare. 

© Alessandro Cinque

Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
In realtà non c’era un desiderio specifico. Il progetto "Forests seen from Space" è nato da una commissione, mentre il mio lavoro principale si concentra sull’impatto delle multinazionali minerarie sui popoli indigeni delle Ande. Questo tema mi tocca nel vivo per la mia storia personale: nel 2017, in Perù, incontrai una donna malata di cancro allo stomaco causato dall’inquinamento delle acque attorno alle miniere. Mi ha ricordato mia madre, nata nella Terra dei Fuochi e morta di tumore allo stomaco quando avevo dieci anni. Da quell’incontro ho iniziato un progetto lungo otto anni, investigando i popoli indigeni intorno alle grandi miniere di rame, oro e argento in Cile, Argentina, Ecuador e Bolivia. Sto realizzando una mappa visuale delle multinazionali cinesi, canadesi, americane e svizzere che operano in Sudamerica, evidenziando il conflitto tra le popolazioni che vogliono vivere di agricoltura e i governi che consentono sfruttamenti minerari.

© Alessandro Cinque

Riconosci un’evoluzione nei tuoi scatti?
Cerco di non essere un colonialista dell’immagine. In passato nelle mie foto c’era traccia di uno sguardo che tendeva a esotizzare; oggi voglio cogliere l’umanità profonda delle persone. Ho sempre lavorato per superare i privilegi che inevitabilmente portiamo con noi, rappresentando gli individui nella loro dimensione universale e profonda, non nel loro essere "altro". È un percorso di consapevolezza.

Con quale approccio hai scelto di immortalare l’arco alpino?
Ho adottato uno stile documentaristico puro, con l’intento di trasmettere un messaggio chiaro attraverso la mostra con l’ESA. Non volevo creare immagini artistiche di alberi o boschi, ma raccontare una realtà concreta. Le Alpi ricordano le Ande, ma qui ho trovato un approccio diverso rispetto al contesto peruviano: c'è ricerca, reazione, presenza delle istituzioni. Dopo Vaia non c’è abbandono, ma volontà di affrontare il problema. Ho scelto di raccontare ciò che vedevo, senza schierarmi.

© Alessandro Cinque

Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Ho riscoperto il piacere di fotografare l’Italia, cosa che pensavo sarebbe accaduta tra molti anni. Mi ha sorpreso sentirmi a mio agio come fotogiornalista nel mio Paese: la lingua ha creato confidenza, la gente mi apriva le porte di casa, mi invitava a restare per cena; è stato come ritrovare un racconto familiare che avevo trascurato. Ero scappato in Perù per elaborare una storia personale legata alla malattia di mia madre, cercando di mettermi uno "scudo" raccontando storie di altre culture ma, in fondo, raccontando la sua. Questa esperienza mi ha riavvicinato all'Italia in modo inaspettato e profondo.

© Alessandro Cinque

Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Un rapporto di rispetto e timore, soprattutto sulle Ande, dove spesso finisco in ospedale per il mal di altitudine. Ho imparato a gestirmi: se salgo ai 5.200 metri senza potermi acclimatare a Cuzco, porto una bombola di ossigeno, seguo una dieta specifica, evito alcol e carne. Per lo scatto di copertina su National Geographic diventato iconico, dopo sette ore di cammino ho affrontato un forte mal d‘altura; mi hanno curato con rimedi andini alle erbe, ma sono dovuto andare al primo ospedale a valle perché non riuscivo a respirare.

© Alessandro Cinque

Quale consideri il tuo scatto migliore?
Una foto catturata nel 2017 in Perù e che mi ha cambiato la vita: un bambino tra il fieno, con un poncho colorato e gli occhi chiusi, mentre un gallo, scappando, apre le ali. In quella scena c’è armonia tra animale, bambino e paesaggio, come se fossero fusi in un tutt’uno con la natura. Penso di aver colto in quell’immagine la quintessenza, la relazione con la Pachamama, la divinità peruviana. È questa relazione tra persone, animali e natura che cerco sempre di immortalare. E c'è anche nella foto delle "alpaqueras" con la donna che, durante la transumanza, teneva in braccio un cucciolo di alpaca avvolta da una luce meravigliosa.

© Alessandro Cinque

Senti il desiderio di catturare un'immagine ancora mai scattata?
Credo che per ogni fotografo l'immagine perfetta sia quella che non ha ancora fatto. La fotografia è un gioco, in evoluzione: puoi pianificare uno scatto, ma la realtà ti offre spesso qualcosa di inatteso, di migliore. Continuo a seguire la vita dove mi porterà, aperto a nuove scoperte. Le persone che incontri, i libri, la musica, tutto costruisce quella storia che dirà se hai un linguaggio fotografico riconoscibile o sei semplicemente uno che fa foto anonime. Negli ultimi due anni ho vinto concorsi e possibili, ma si saprà chi sono come fotografo solo tra quarant’anni.

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