Da Vaia all’acqua alta, lo sguardo obliquo su natura e cambiamento
Fotografare le Alpi #8. Intervista a Matteo de Mayda

Om Salvarech (Uomo Selvatico), figura ricorrente del folklore alpino, Rivamonte Agordino (Belluno), © Matteo de Mayda
Sono passati sei anni dalla tempesta Vaia e il suo ricordo, come le sue conseguenze, è ancora una presenza tangibile sulle Alpi del Nord-Est italiano. In quegli ultimi giorni dell’ottobre 2018, il vento di scirocco e le piogge incessanti hanno trasformato per sempre il paesaggio, abbattendo milioni di alberi e alterando la stabilità dell’ecosistema montano. Con sguardo lucido e rispettoso, il fotografo trevigiano Matteo de Mayda, 40 anni, ha condotto un lungo e complesso progetto per documentare l’evoluzione di queste terre ferite. “There is no calm after the storm”, raccolto nell’omonimo libro fotografico pubblicato da Studio Bruno, è un viaggio nella fragilità e nella resilienza della natura, un richiamo a osservare le interazioni sottili tra uomo, clima e territorio.
In 134 pagine, de Mayda mescola le sue fotografie con materiali d’archivio, contributi scientifici e testi poetici di Cosimo Bizzarri per restituire uno sguardo intimo e sobrio su un equilibrio ambientale sempre più fragile. Le immagini, in mostra a Venezia fino al 13 dicembre, rifuggono spettacolarità e allarmismo; raccontano invece una storia stratificata di perdite e di adattamenti, un’indagine su come paesaggio naturale e umano continuino a coesistere e a trasformarsi sotto l’ombra incombente della crisi climatica. Riflessioni nate in dialogo con i ricercatori, i boschi, le comunità e le leggende di queste terre che narrano il legame inestricabile tra uomo e natura, mettendo lo spettatore di fronte a domande senza facili risposte.



Matteo, come nasce questo progetto fotografico?
Volevo parlare della tempesta Vaia e delle sue conseguenze a lungo termine senza soffermarmi sul disastro o sulla catastrofe naturale in sé: ho abbracciato il progetto quando ho iniziato a collaborare con i dipartimenti Tesaf e Dafnae dell’Università di Padova, che studiano cause e conseguenze di Vaia. Ho cominciato a scattare immagini dopo aver letto del tentativo di liberare con esplosivi i sentieri ostruiti dagli alberi schiantati. Documentando quella giornata ha preso avvio un percorso più ampio: grazie al professor Raffaele Cavalli, direttore del Tesaf, ho scoperto il mondo della ricerca scientifica che si confronta con gli effetti della tempesta e che mi ha coinvolto profondamente.

Come si declina il tuo progetto alpino?
Da cinque anni racconto Vaia non solo attraverso le mie fotografie: ho raccolto materiali scientifici e d’archivio che integrano la narrazione. Ho scattato non solo immagini di paesaggi devastati, ma anche ritratti che raccontano la relazione tra la comunità e la natura. Ad esempio l’"Om Salvarech", letteralmente "l'uomo selvatico": una figura folkloristica che, secondo la leggenda, trasmette i segreti della foresta alla comunità di Rivamonte Agordino, nel bellunese. Ho evitato la spettacolarizzazione della distruzione; ho voluto invece rappresentare il modo in cui le persone vivono questo paesaggio ferito.


Quali le due immagini più “estreme”, i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Non vedo il mio lavoro come un insieme di singoli scatti, di conseguenza non riesco a immaginare due estremi opposti: è tutto interconnesso. Passo dalle ampie panoramiche di paesaggi alle immagini microscopiche di microartropodi, insetti che raccontano lo stato attuale dell’ecosistema: il loro Dna viene analizzato per capire l’evoluzione biologica delle foreste devastate. Esteticamente, forse, possono apparire come i due poli, ma nel significato che attribuisco alle immagini sono parte di uno stesso progetto. Tra i paesaggi "schiantati", amo in particolare quello che ho immortalato a Liviné, nel comune di Livinallongo del Col di Lana: scatti che l'Università di Padova ha tradotto con la tecnologia Lidar in immagini che rivelano l'altezza degli elementi ed evidenziano le zone in cui sono presenti altri caduti e quelle con alberi ancora in piedi.


Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Evito la spettacolarizzazione, cerco un registro sobrio e il più oggettivo possibile. Nei miei lavori vario tra ritratti, paesaggi, dettagli macro e micro, mescolando diversi linguaggi senza cercare di definirmi rigidamente. Oggi gli stili si fondono e questa fluidità mi appartiene.
Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Le Alpi fanno parte della mia storia: sono nato a Treviso, la mia famiglia è di Possagno, e fin da piccolo queste montagne erano la meta di vacanze e gite. Dopo esperienze di lavoro anche all’estero, il mio interesse è tornato al Nord-Est italiano, scatto tra Venezia e le Dolomiti; luoghi a me familiari e che fanno parte di me, della mia storia.


Riconosci un’evoluzione nei tuoi scatti alpini?
"There is no calm after the storm" è sicuramente il mio progetto più lungo e in questi anni il mio approccio è cambiato. Grazie a un grant, ottenuto dal premio fotografico Italian Sustainability Photo Award, ho potuto dedicarmi a Vaia per sei mesi: un periodo che mi ha permesso di sperimentare e di sbagliare, di riflettere e di capire. Avere il tempo di osservare mi ha dato la possibilità di allontanarmi dal progetto e tornare più consapevole, con la giusta intuizione.
Con quale approccio hai scelto di immortalare l’arco alpino?
Non mi sono soffermato sugli alberi abbattuti; l’emergenza c’è, ma ho preferito esplorare cause e conseguenze. Siamo in un’epoca dominata dal sensazionalismo e credo sia importante proporre immagini che siano in grado di raccontare senza spettacolarizzare. Questo progetto su Vaia parla delle tempeste di tutto il mondo, del cambiamento climatico in atto e che intensifica eventi atmosferici come questo. Penso che non basti rappresentare il disastro; bisogna raccontare il motivo e il contesto che lo generano.


Denunciare l’impatto del cambiamento climatico sugli eventi atmosferici estremi resta centrale, ma ho capito, collaborando con l’Università di Padova, che non tutto è così catastrofico come sembra: alcune specie animali, come i lupi, si sono riavvicinate alle valli trovando riparo sotto gli alberi abbattuti e approfittando dell'assenza umana da sentieri interdetti dalle piante abbattute da Vaia. La natura continua a evolvere mentre l’uomo fatica ad adattarsi. Ho colto la relatività delle avversità: Vaia è catastrofica per noi perché ha distrutto boschi e strutture, ma non per altre forme di vita. Infatti emergono opinioni contrastanti: chi preferisce il rimboschimento e chi, invece, lasciare che la natura faccia il suo corso. Non c'è una scelta giusta: ognuno ha ragioni valide e, addentrandosi nelle sfumature di questa catastrofe, si scopre che nulla è bianco o nero.
Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Non saprei definirlo. Ho frequentato queste zone alte principalmente per il progetto; ora torno meno spesso, il mio focus è su Venezia e sulla laguna. Tuttavia mantengo il legame con le comunità che ho studiato in questi cinque anni e che continuano a prestarmi oggetti per le mostre con grande generosità. Nel libro ho cercato di restituire questa doppia natura del paesaggio: affascinante e temibile per la sua grandezza e imprevedibilità. I testi di Cosimo Bizzarri evocano l'idea di qualcosa di potente e sfuggente, che ci attrae ma ci sovrasta.

Quale consideri il tuo scatto migliore?
Non il migliore, ma il più significativo è lo scatto di un progetto che non riguarda le Alpi. Quando è mancata mia madre, addetta alle pulizie, ho fotografato i luoghi in cui lavorava, come i palazzoni, i piazzali, i cortili. Quella serie, intitolata "Brilla sempre" e che ho pubblicato quest'anno, è molto personale. Se dovessi scegliere, opterei per la foto che immortala un negozio che mia madre puliva. Non sono un fotografo che "ruba" l'attimo, non cerco mai la singola scena: è l’approccio d’insieme che dà valore al singolo scatto.


Senti il desiderio di catturare un’immagine ancora mai scattata?
Oggi mi concentro molto su Venezia, dove vivo. Negli ultimi anni ho ampiamente documentato la laguna con progetti personali e incarichi per riviste: dall’acqua alta al Mose, dall’overtourism alla trasformazione in b&b di sempre più spazi abitativi, dagli uccelli che nidificano nelle barene, i piccoli isolotti, alla fauna lagunare. Tuttavia, pur non sentendo la mancanza del loro transito così impattante, non ho mai fotografato una nave da crociera in Canal Grande. Ora il passaggio è interdetto, ed è un bene, ma forse quell’immagine mancata è una lacuna nel mio archivio.