
© Arissa Ferrari
La poetica di Federico Lanaro è caratterizzata da un potentissimo e fecondo strabismo.
Batti il tempo, batti, batti, balla, batti, batti, balla, non fermarti, fermo in posa, batti, salta, balla, batti, non fermarti, batti, battito cuore impazza, batti, balla, batti, salta, chiudi gli occhi, batti le ciglia, capriole, mondi capovolti, batti, batti, non fermarti, gira, batti, salta, incrocia, occhi chiusi, occhi aperti, mondo chiuso, mondo aperto, batti, batti, salta, batti, balla, salta, non fermarti.
Chiudo gli occhi, ricomincia la cantilena, ho nelle orecchie queste parole, sgorgate di getto come un fiume in piena dopo il mio incontro a tu per tu con le opere della mostra “BEAT” di Federico Lanaro qualche giorno fa.
Insomma palpebre chiuse, come sipari che mi separano dalla realtà e mi teletrasportano nel passato, basta un attimo ed eccomi, sono di nuovo lì: era un giorno di pioggia, la pioggia martellante sul mio ombrello, il mio cappotto imperlato di gocce rimbalzate dalle superfici intorno a me, dal mondo a me, da me al mondo, il cuore spento, dello stesso colore plumbeo del cielo, anche lui zuppo. Lascio un mondo grigio, spento, stanco, rassegnato e apro le porte dello Studio d’Arte Raffaelli, in via Marchetti 17 a Trento, e il battito ricomincia. Sono in un altro mondo, sono nel mio mondo, ma al contempo sono in un’altra dimensione, sono in un altro battito, basta un attimo e il mio e quello di quel mondo a me tanto estraneo e tanto familiare al contempo si allineano. Sento lo sguardo riscaldarsi, le ciglia rigide sciogliersi, gli occhi farsi farfalle, abbandonarmi e volare via attratti dai colori fluo, sbattere le ali a ritmo tra foreste infuocate, animate da balli rituali di animali risucchiati in una notte sospesa nel tempo.


Eppure sembra tutto così fermo, tutto così silenzioso, ovattato dalla pioggia fuori che dà un ritmo tutto suo al mondo al di là, ma il ritmo al di qua, oltre la soglia, invece si sente, si sente eccome, batte forte: sono i colori a dare il ritmo, sono le pose degli animali, di cervi, lepri, zebre, leopardi, ritagliati per benino al momento della danza e della corsa più sfrenata, fermi in posa. Ci guardano una frazione millesimale di secondo, incastrano il loro sguardo nel nostro, ci scrutano, interrogativi, anche un po’ perplessi, “e voi perché state così fermi?” sembrano dirci, e poi, basta, se ne fregano di noi, ricominciano a danzare, vorticare, ballare a ritmo: quelli battuti, sconfitti, siamo noi, loro sono il battito.



La mostra, a cura di Virginia Raffaelli, è accompagnata da un catalogo con due testi di Valerio Dehò e di Gabriele Lorenzoni, che raccoglie, oltre alle opere inedite, anche un excursus antologico su tutto il lavoro dell’artista. Sfogliando il catalogo ci si rende ancora una volta conto che il suo linguaggio e la sua iconografia non hanno fatto altro che espandersi, coerenti a sé stessi, sono cresciuti, in una metamorfosi affacciata al tempo e al luogo che hanno abitato, sempre riconoscibili ma anche sempre altrove.