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August 8, 2024

Giocare è una cosa seria (cit.): Luca Boscardin, toy-designer e illustratore

Claudia Gelati

Mantova, da dove scrivo, e Rovereto distano 110 chilometri, ma la distanza si accorcia così, d’improvviso, non appena Luca Boscardin risponde alla mia telefonata. Questo perchè, anche se non lo conosco personalmente, ho capito subito che  è una di quelle persone che sembra sorridere anche quando parla. Come designer e illustratore, ha lavorato con e per Magis, PHILIPS, Triennale Design, VITRA Design Museum, Corraini, Phaidon, Palazzo Grassi, Centro per l’Arte Contemporanea Pecci  e molti altri.  Quando racconta della sua compagna Valentina Raffaelli (che abbiamo già intervistato qui), dei lori figli, dei progetti realizzati insieme e di quelli che verranno, la sua voce assume un tale tono di contentezza che non può lasciare indifferenti. Non ci conosciamo eppure mi sembra di vederli, di essere là con loro, su e giù in bicicletta nei vicoli affacciati sui canali della loro Amsterdam; oppure ancora su Big Blu, il furgone che li ha portati in giro su e giù per lo stivale per catturare le storie e le immagini che sono poi diventate Scarti d’Italia, l’avventura culinaria contro lo spreco alimentare edita da Corraini Edizioni. Per essere uno che dice di sentirsi più a suo agio con matite e pastelli ad olio piuttosto che a parlare, di cose da dire ne ha moltissime e ascoltarlo è un piacere. Quanto segue è la trascrizione di una bella conversazione su  design e progettazione e giocattoli bellissimi per crescere meglio gli adulti di domani. 

Disclaimer: sì, lo so, l’intervista è lunga, ma tanto sotto all’ombrellone in questo torrido agosto sono certa troverete qualche minuto da dedicare a franzmag, tra un romanzo giallo, l’ebook dell’ultimo bestseller e la settimana enigmistica. 

Luca, il tuo percorso formativo inizia a Venezia, città dove hai studiato prima architettura e poi grafica. Come sei passato dalla progettazione di spazi a quella di  giocattoli?

Ecco, con questa domanda mi hai portato a Venezia ed era tanto che non pensavo a quegli anni leggeri. Ho studiato in una delle università più belle al mondo che, almeno all’epoca, dava agli studenti una libertà totale. Studiare architettura a Venezia, mi ha insegnato proprio a progettare, a prescindere che si trattasse di un edificio, di una porta piuttosto che di un’illustrazione. Durante il percorso di studi ho realizzato però, che di me, di Luca, non riuscivo a mettere nulla progettando in una scala così grande. Ho quindi ridotto la scala sempre di più, passando da una laurea specialistica in grafica per arrivare a trovare nel giocattolo la sintesi perfetta, dove mettere insieme la modularità, la semplicità e la matematica studiate ad architettura, con la griglia, il colore e il rigore della grafica. Negli anni successivi mi sono lasciato trasportare e sono arrivato fino ad Amsterdam, un’altra Venezia se vogliamo, e qui ho scoperto una bellissima realtà ricca di studi di progettazione per l’infanzia e mi ci sono tuffato. 

profile picture

Sei sempre stato un persona creativa anche da bambino? 

Una volta ho letto un’intervista a un artista di cui purtroppo non ricordo il nome, che alla domanda “quando hai iniziato a disegnare?”, lui aveva risposto “ma quando avere smesso voi di disegnare?” (ride). Questa è una frase che ho fatto un po’ mia, perchè effettivamente non ho mai smesso di disegnare. Il mio gioco preferito era disegnare e conservo ancora questo grandissimo foglio dove disegnavo ometti e macchine e mi inventavo delle storie: li facevo muovere, interagire e mandavo le macchine dal meccanico: insomma, il gioco si formava attraverso il disegno e la mia mano era libera di creare tantissime storie. 

Quali giochi ricordi della tua infanzia? 

Direi sicuramente il disegno, i lego e il pongo. E poi ho avuto la fortuna di avere una nonna che viveva in montagna, in una casa grandissima con orto e animali e quello è stato un terreno di gioco, di scoperta e di avventura pazzesco. Ricordo che trafficavo legando insieme bastoni, pezzi di legno, piume di gallina e costruivo pupazzi che montavo e smontavo in continuazione. Mi è sempre piaciuto mettere le mani in pasta, giocando e creando, ed è quello che sto cercando di fare anche con i miei figli. Il mio studio è come se fosse la camera di Galileo perchè è pieno di giochi: per me un laboratorio professionale e per lui una scoperta continua.

1 Animal Factory 5

Lo hai anticipato tu stesso poco fa e credo di non sbagliare dicendo che il trasferimento ad Amsterdam ha rappresentato per te un grande punto di svolta sia a livello lavorativo che personale. Come siete arrivati tu e la tua compagna Valentina Raffaelli in Olanda tredici anni fa e quali difficoltà avete trovato inizialmente incontrato?

Anche qui mi riporti con la mente lì e, siccome siamo tornati ad essere italiani da circa 8 mesi, la ferita è ancora aperta (ride).  In realtà, guardavamo più al nord Europa in generale, ma poi abbiamo scelto Amsterdam sia per le dimensioni, ma anche la presenza dell’acqua, che è un elemento che sia io che Valentina amiamo molto; da un ritmo diverso alla città, che sembra diventare più umana. Siamo arrivati senza niente e il primo appoggio è stato un caro amico di Valentina che già viveva lì; abbiamo iniziato a lavorare in bar e ristoranti per poi trovare degli Internship legati ai nostri studi. I primi mesi sono stati estremamente difficili, ma la fortuna di essere in due ha fatto si che resistessimo nonostante le mille disavventure. La cosa bella di quei mesi difficili è che ad Amsterdam c’è un forte interesse e apertura per i giovani che arrivano nella capitale. La città trasuda di questa energia, ed è bello proprio perchè lì si concentrano persone da ogni angolo del mondo che scelgono Amsterdam per rincorrere i propri sogni. Questo ti da molto energia, perchè non ti senti il solo ad aver tentato questa pazzia, è di grande stimolo e ha dato a noi stessi la forza di restare e rincorre i nostri sogni. D’altronde, sia io che Valentina facciamo due lavori sicuramente bellissimi ma anche molto difficili, non definiti, ricchi di sfide e questa città ci ha fatto credere in quello che facevamo. 
Potrei stare qui a parlare di Amsterdam per ore: abbiamo trovato una città aperta alla diversità. E non parlo dell’Olanda, ma proprio di Amsterdam: una città che accoglie e accetta; una città curiosa, dove respiri questa democrazia e libertà in tantissimi aspetti della vita quotidiana, dal come si veste la gente al come decide di essere e questo ha arricchito anche il nostro contesto professionale. Ad esempio il nostro studio ad Amsterdam si trovava all’intero di una ex fabbrica di navi, nel vecchio porto di Amsterdam; uno spazio enorme riconvertito in un spazio creativo dalla municipalità con atelier di illustratori, ceramisti e molto altro. Questo ci ha permesso di conoscere altri creativi e di arricchire il nostro modo di progettare, creare, lavorare. Gli olandesi a differenza degli italiani sono più razionali e quando vogliono fare qualcosa la fanno immediatamente; noi italiani pensiamo e rimuginiamo molto di più. In questo senso, l’Olanda mi ha insegnato a buttarmi di più, a non aspettare il cliente giusto e il lavoro giusto nel momento giusto. Tanti in Olanda fanno autoproduzione e questo spirito, questa voglia di buttarsi e vedere cosa succede è entrato anche nei miei progetti, Cavalcade su tutti, ma anche Mobile Bird

Mobile birds_Luca Boscardin

Siete tornati ad essere cittadini italiani da pochi mesi. Da “Expat” avete finalmente capito qual’è la percezione che hanno di noi italiani e dell’Italia in generale all’estero? 

L’Olanda è un paese piccolo con una conformazione geografica uniforme, quindi ha una funzionalità incredibile che va pari passo con una genialità pazzesca. C’è un bellissimo libro che racconta di come gli olandesi siano stati capaci di vedere terra dove c’era solo acqua. Come ci vedono gli olandesi? Beh, sicuramente come delle persone piene di passione, colore, musica, creatività ma molte volte anche persone incapaci di concretizzare, che si perdono, che parlano molto e fanno poco. Certo è che c’è una certa fascinazione sul nostro essere italiani e della nostra grandissima cultura che emerge anche nei modi più inaspettati: forse dirò un’ovvietà, ma anche il modo in cui parliamo, gesticoliamo, ci muoviamo, ci vestiamo… anche in questo c’è una certa pesantezza, una grandezza del passato, della cultura che ci portiamo sempre appresso. 

Negli anni che avete trascorso all’estero, cosa vi è mancato di più dell’Italia? 

Sicuramente ci è mancato il sole (ride). Si, dell’Italia ci mancato il sole, e… (si interrompe, quasi alla ricerca qualcosa). Caspita, no, non vorrei aver già finito (ride). Direi che ci è mancata la cultura italiana delle piccole cose: ma quanto è bello capirsi senza parlare? Oppure, ancora, fare due chiacchiere con l’oste del baretto sotto casa? Tutte quelle cose apparentemente spicciole e inutili che in realtà sono molto importanti per farti sentire a casa. Tutto questo ovviamente ad Amsterdam, una capitale europea, non c’era e a volte è facile sentirsi come uno dei tanti. 
Nel 2019 con Valentina abbiamo fatto un viaggio su e giù per l’Italia con un furgone che abbiamo camperizzato noi stessi; e qui abbiamo scoperto una ricchezza, una varietà paesaggistica enorme, una cultura popolare che sta scomparendo, ma di una bellezza incredibile. Un viaggio bellissimo che poi è diventato il libro Scarti d’Italia, edito da Corraini Edizioni. 

Si  parla spesso di “cervelli in fuga”. Tu e Valentina in certo senso lo siete stati, però ad un certo punto avete deciso di ritornare. Arrivati in Olanda in due, siete tornati in Italia in quattro + gatto al seguito. Cosa vi ha fatto prendere questa decisione e come vi state riassestando

Devo dire che io e Valentina abbiamo sempre fatto tante scelte con il cuore. Abbiamo fatto dei periodi lunghissimi di house swapping a New York, Parigi, Firenze, Londra; abbiamo preso un furgone e siamo stati in viaggio per un anno; abbiamo fatto delle residenze artistiche che ci hanno portato prima in Provenza per quattro mesi e poi in Toscana per quasi otto mesi. Ci siamo sempre lasciati trasportare un po’ dal cuore e da quello che ci capitava davanti. Il ritorno in Italia è stata la prima scelta presa non con il cuore, ma con il cervello. Negli ultimi tre anni la nostra famiglia si è allargata e da due siamo diventati quattro; i nostri figli Galileo e Olimpia sono molto vicini d’età, hanno cambiato tutto il mondo intorno a noi e adesso è ricchissimo in un modo diverso. Con questa scelta ci siamo concessi di sbagliare: lasciamo Amsterdam ora che i bambini sono ancora piccoli e proviamo a vedere cosa vuol dire rientrare in Italia. Quando nascono dei piccoli, poi, arrivano una serie di domande che prima non immaginavi nemmeno: Vuoi che i tuoi figli nascano Olandesi o Italiani? Vuoi che crescano vicino ai nonni oppure no?. Tante considerazione che toccano tanti genitori, noi compresi. 
Riprendo una frase del romanzo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che rappresenta bene la nostra situazione attuale: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Nel nostro caso, perchè tutto rimanga uguale sopratutto a livello lavorativo, con la nostra flessibilità, i viaggi continui avevamo bisogno di una base un po’ più solida: una casa più grande dove ospitare qualcuno che si occupi dei piccolini quando non ci siamo, o anche la vicinanza dei nonni. Queste cose qui ed ora sono fondamentali per poter proseguire con il nostro lavoro. Ora è presto per capire se abbiamo fatto bene o male e per ora ci stiamo arricchendo di bellezza, potendo andare in poco tempo a fare una passeggiata in montagna, al mare o al lago. Di certo posso condividere che è stato molto difficile. Viviamo in Europa che è un Europa solo sulla carta; abbiamo avuto difficoltà incredibili a livello burocratico, anche solo per inserire i nostri piccoli nati in Olanda, eppure italiani, nel sistema degli asili. Ci stiamo scontrando con un sistema che sembra fatto apposta per disincentivare. Abbiamo vissuto in un mondo più facile, qui sembra tutto difficile e non capisco il perchè. Per certi aspetti ci sembra di aver vissuto nel futuro e adesso di essere ripiombati nel passato… non per tutto ovviamente (ride). 
Ad Amsterdam, una capitale europea sempre in grande fermento, eravamo circondati da una bolla di persone con un pensiero affine al nostro e abbiamo costruito legami con persone provenienti da parti del mondo diverse, legate però da principi comuni. Qui stiamo cercando di ricostruire qui la stessa bolla, ma il raggio è molto più grande: abbiamo amici a Mantova, a Milano, a Venezia, ma non nei paraggi e questo ci manca. Eppure, nonostante tutto, siamo eccitati perchè è come se dovessimo scoprire tutto daccapo, insieme ai nostri bimbi. Ad Amsterdam vivevamo in una casa molto piccola nel cuore della città, dove il fulcro era il mondo esterno; ma quando sono arrivati Galileo e Olimpia, abbiamo capito che il mondo non era più fuori dalla porta, ma era quello all’interno, dentro casa nostra. 

Parliamo dei tuoi giocattoli: quali sono le considerazioni che ti trovi a dover fare di fronte ad un nuovo progetto da progettista, ma ora anche da papà? 

Quando progetto qualcosa di nuovo ci sono sicuramente tante cose da tenere in considerazione come il colore e la forma, elementi fondamentali che fanno si che un prodotto piaccia o meno. Credo poi, che la bellezza sia un valore fondamentale da insegnare ai più piccoli; ma questa può essere espressa in modi diversi e non solo attraverso la scelta del materiale, ma anche dalla sensazione tattile o dal suono che fa quando cade. Inoltre, quello che cerco di fare nei miei progetti non è solo creare giocattoli che siano visivamente piacevoli, ma che siano anche utili, stimolanti. Mi piace pensare che il mio modo di progettare giocattoli non imponga un solo modo di utilizzo, ma che sia proprio il bambino ad interpretarlo con la sua esperienza e fantasia. Alcune volte il giocattolo può essere un modo per imparare concetti come il colore o l’equilibrio; in altri casi più virtuosi può essere modo per veicolare temi complessi come la parità di genere, l’accoglienza, la gentilezza come ho cercato di fare nel mio gioco Stiamo tutti pari
Una delle cose più belle della progettazione di giocattoli è lo user test, ovvero quando sottopongo un nuovo gioco al giudizio e alle domande secche e severe di un bambino: “perchè è lungo? perchè è giallo? perchè è così grosso?” (ride). Il mio studio ad Amsterdam era un punto di passaggio di molte persone e quindi era più facile; qui a Rovereto comincerò a breve a farlo sempre di più con mio figlio e i suoi amici.
Certo è che come genitore dovrò imparare ad accettare che Galileo, ad esempio, non vorrà sempre giocare con quello che progetto io o con quei giochi che valuto positivamente; ma va bene così, è giusto lasciare questa libertà perchè sono due mondi che devono convivere, così come l’analogico e il digitale, la plastica e il legno. La sfida è sempre la stessa, ma oggi abbiamo più mezzi a disposizione: credo che i bambini di domani saranno uguali a quelli di oggi, ovvero se un gioco è stimolante continuerà a piacere. 

Parliamo un po’ di alcuni dei tuoi progetti. Anche se hai accantonato il mondo dell’architettura presto, uno dei tuoi primi giochi realizzati è proprio una città, Archiville (Studio Roof, 2012). Raccontaci. 

È uno dei miei progetti preferiti ed è uscito di produzione da poco. Credo che sia l’esempio perfetto della mia filosofia di lasciare i bambini completamente liberi di creare ciò che vogliono attraverso il gioco, con una sola regola: non avere regole. Archiville nasce dall’esperienza in uno studio di giocattoli dove realizzavano dei totem in cui un disegno veniva smontato in più pezzi e rimontato, quasi come dei puzzle tridimensionali. L’idea mi piaceva molto, ma volevo che diventasse più flessibile e per questo ho scelto di lavorare con un modulo e di unificare l’incastro. Dopo molti anni, è un giocattolo che funziona ancora bene ed è bello vedere come nei diversi workshop che ho tenuto, dieci bambini riescano a creare dieci Archiville totalmente diverse. 

Archiville_Luca Boscardin

Cavalcade, invece, è una serie di animali a dondolo, che richiama i giochi di una volta con un gusto decisamente più contemporaneo. 

Sì, esatto. Nel 2016 avevo pensato a questo giocattolo, ma non trovavo nessuna azienda che volesse realizzarlo. Così, seguendo il buon esempio olandese, mi sono buttato nell’auto produzione. È stata un’esperienza particolarmente formativa, perchè a differenza di altri progetti in cui mi limitavo a progettare sulla carta, sono stato a stretto contatto con il produttore e, dovendo realizzarlo e sostenere tutte le spese personalmente, ho dovuto semplificare al massimo e fare economia di materiali. E così, un po’ come Geppetto con Pinocchio, da un unico asse di legno è nata la serie di animali a dondolo Cavalcade. La semplicità progettuale e costruttiva, è stata tradotta anche a livello grafico: semplicemente colorandoli o allungando la testa può diventare giraffa o cavallo o coccodrillo e così via. Ricordo che nel 2018 avevo fatto una campagna di crowdfunding che mi aveva permesso di realizzare 150 animali, arrivati tutti insieme nel mio spazio ad Amsterdam. Ho inscatolato tutto e con una cargo-bike, un po’ come un Babbo Natale moderno, ho consegnato personalmente un animale a ciascun sostenitore della raccolta fondi. È progetto che non è più in corso, ma è esposto in bellissimi spazi come il VITRA Design Museum e fino a poco tempo fa in Triennale a Milano. 

3 Cavalcade 1

Ed infine arriviamo al tuo progetto più recente e forse anche più ambizioso per le sue imponenti dimensioni. Parlaci di Animal Factory (2021). 

Con Animal Factory esco dalla mia comfort-zone e torno a lavorare in grande. Il progetto parte da alcuni disegni fatti su un foglio di carta con il pastello ad olio, uno strumento bellissimo, grossolano, grezzo che non ti permette di fare troppi dettagli e quindi ho scelto linee molto semplici per formare animali diversi. In occasione di un concorso, ho pensato di trasportarli dalla carta al mondo reale e su larga scala. Come realizzarli, però? Da bambino quando giochi con una spada, per esempio, vuoi che questa sia forte e non di carta. Allo stesso modo, quando ho pensato al coccodrillo volevo un materiale forte, duro, che mi trasmettesse forza. E così ho pensato al ferro, un materiale per me inedito ma che mi ha permesso di mantenere la stessa leggerezza, la stessa freschezza e linearità usate nel disegno, in scala 1:100. La giraffa di 6 cm è diventata di 6 metri. Ho avuto la fortuna di lavorare con questo fabbro artigiano che ha una spiccata sensibilità e ogni volta che creiamo un nuovo animale insieme, decidiamo se curvare la testa o la coda per enfatizzare velocità, lentezza o altre caratteristiche. Ad esempio, con la tartaruga abbiamo deciso all’ultimo di girare un po’ la testa così farla diventare più lenta. Anche in questo caso, è bello vedere come persone diverse possano interagire e metterci del loro: il design è fatto per la gente e più gente partecipa alla progettazione, più il prodotto diventa ricco. 
La fortuna di Animal Factory è che può avere diverse declinazioni: arredo pubblico, opera artistica, gioco per bambini. La semplicità di produzione va a pari passo con quella di utilizzo, il ché li rende molto versatili. Se con un altalena e un scivolo posso solo dondolare e scivolare, gli animali di Animal Factory li posso cavalcare, posso dondolarmici o scivolare, fare esercizio fisico o il gioco dell’equilibrio, ma anche sedermi, riposarmi o legarci la bicicletta. Grazie all’azienda Magis, quattro animali della serie hanno ottenuto la certificazione e possono finalmente entrare nei parchi giochi italiani, di cui c’è davvero bisogno. Infatti, pensando a quelli olandesi, non posso non constatare come i parchi giochi italiani siano un tasto dolente, spazi tristi e spesso non curati adeguatamente. 

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Femminicidi, violenza, bullismo, body-shaming… viviamo in un mondo dove la cronaca non è nera ma nerissima, e spesso coinvolge anche i più giovani. Se già per gli adulti è  difficile affrontare determinati temi, immaginiamo per i bambini. Con “Siamo tutti pari”, un gioco memory realizzato per Corraini e selezionato anche dall’ADI Design Index per il Compasso d’Oro (aka l’Accademy Award dei Designer) provi a parlare di temi complessi ai più piccoli. 

Anche in questo caso, sono partito da un gioco esistente per rivoluzionario e in questo caso si trattava del memory. Anziché utilizzare tessere identiche, ho pensato di utilizzare tessere simili con l’intento di insegnare ai più piccoli che non siamo tutti uguali, ma siamo tutti simili, tutti pari. I più fortunati di noi hanno due mani, due occhi, due glutei e non importa di che colore o forma siano. Siamo tutti pari  è un gioco che mira ad avvicinare i più piccoli a temi come gentilezza, accoglienza, uguaglianza, diversità. C’è stato anche un lungo dibattito sulle quattro tessere che raffigurano rispettivamente i genitali femminili e maschili; tessere che hanno suscitato un po’ di scalpore anche nella recente presentazione all’asilo di Galileo. Per me questo è assurdo, perchè sono parti del nostro corpo che andrebbero raccontate in maniera leggera, senza imbarazzo o vergogna. 
Visti i tempi che corrono, credo che Siamo tutti pari abbia un significato bellissimo e mi auguro che venga conosciuto e apprezzato da quanti più bambini possibili. Come diceva Bruno Munari, giocare è una cosa seria! Attraverso il gioco, infatti, si conosce, si impara e si diventa più grandi; forse realizzando giochi più attenti e stimolanti, si potrà crescere adulti migliori domani. 

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Oltre ad essere un designer di giocattoli, sei anche un illustratore. Come riesci a mantenere uno stile coerente dal prodotto alla grafica? 

Diciamo, che ho la fortuna di riuscire a mantenere lo stile che mi contraddistingue sia nei giocattoli che nelle illustrazioni, perchè il modo in cui nascono i miei progetti è sempre lo stesso ovvero attraverso il disegno; quando schizzo qualcosa di nuovo non so dove andrà a finire. Inoltre cerco sempre di semplificare il più possibile, cerco di togliere tutto quello che non serve: sono certo che quando da un prodotto o da un’illustrazione non ci sia più niente da togliere, allora si è vicini ad un buon risultato. Questo lo definirei un tratto distintivo del mio stile, ma anche un qualcosa che inseguo perchè credo che più una cosa è semplice, più può essere di tutti. 

Con la tua compagna Valentina Raffaelli, avete scritto e disegnato i libri Scarti d’Italia (2020) e Scarti D’Italia 2  (2022) per Corraini Edizioni e, il più recente, Insalate per un anno (2023) per Guido Tommasi Editore. Cosa ti è rimasto di più impresso di queste esperienze editoriali?  

Il lavoro a quattro mani, sopratutto nei due Scarti d’Italia, è stato molto affascinante. Ho tantissime scene in mente in cui c’era Valentina dietro al banco del macellaio, che cammina affianco dell’agricoltore o di un pastore e io, lì seduto con il taccuino a ritrarre queste scene. Questa è sicuramente l’immagine più bella che conservo: io e lei insieme, che in due modi diversi raccontiamo la stessa cosa. In questi libri si vede chiaramente, ma anche i progetti dove i nostri nomi non  compaiono insieme, nascono comunque dal confronto e dallo scambio continuo. La fortuna è quella di essere un team dove ognuno si occupa di quello che sa fare meglio per far sì che esca un buon lavoro corale. Che si tratti di immagini, testi,  illustrazioni o giocattoli il nostro lavoro è quello di comunicare e, come dice sempre Valentina, non raccontiamo nulla di nuovo, ma lo facciamo in maniera diversa, più accessibile. E poi è proprio con questi progetti che è nato il mio amore per il pastello ad olio, uno strumento che prima non utilizzavo ma che ho scoperto essere molto utile in viaggio per illustrare in modo veloce e semplice. In particolare in Scarti d’Italia, il pastello è diventato così grasso da sembrare davvero cibo.  

1 Animal Factory sketches

Le istantanee di vita famigliare che condividete sui social sono bellissime e, tra righe e mille colori, sembrate usciti voi stessi da una felice illustrazione. Siamo curiosi: com’è lavorare con la tua compagna di vita e avventure? 

(Ride) Per molti anni entrambi abbiamo non-voluto lavorare insieme perchè avevamo paura, ma poi però è stato liberatorio lasciarsi e, visto che già funzionavamo, ci siamo detti:“perchè no?”. Ci accorgiamo sempre di più della fortuna che abbiamo avuto nel esserci trovati, simili in tanti aspetti della vita. Ricordo fin dai tempi dell’università com’era difficile trovare il compagno di corso con cui avere una bella affinità per un progetto piuttosto che in un corso; noi abbiamo avuto questa grande fortuna e ce la teniamo stretta (ride).  
Riusciamo a combinare la vita lavorativa e quella privata dandoci dei tempi nostri: come genitori, anche la scelta di avere uno studio in casa non è da tutti, anzi, alcuni farebbero un salto indietro dal terrore. Amiamo questa cosa del poter semplicemente fare qualche passo ed arrivare nello spazio-lavoro senza perdere tempo il altre cose. E poi è bello e stimolante pensare che da questo piccolo spazio, in questo piccola città si lavora per il mondo. 

A Rovereto avete trovato casa in un palazzo storico di fine Ottocento con spazi enormi, e non avete resisto a darle un nome. Casa Olga (@casa_olga_rovereto), non è solo il vostro nido e  studio, ma anche uno spazio che avete intenzione di aprire al mondo. Cosa bolle in pentola? 

Quando vado in giro con Galileo gli chiedo sempre come potrebbe chiamarsi questa o quell’altra cosa; mi è sempre piaciuto dare un nome alle cose, è come se le rendesse più umane, più rispettabili. E quindi anche casa nostra, non poteva non avere un nome (ride). Con un trasferimento internazionale, burocrazia a non finire e due bambini piccoli, questi primi mesi in Italia sono stati davvero rock n’roll. Quando siamo entrati, Casa Olga era completamente vuota, c’era soltanto la vasca da bagno e il rubinetto, nemmeno la cucina. Ora è quasi ultimata ed è bellissima. Uno spazio grandissimo, aperto al mondo perchè piena di finestre, ma anche perchè ci piacerebbe aprila anche alla comunità e a tutti gli interessati creando un calendario di eventi e workshop dedicati sia alla cucina che all’ illustrazione. Inoltre attorno a Natale vorremmo riproporre come lo scorso anno, un piccolo evento-market. Adesso il nostro mondo è casa e da qui, da queste mura, guardiamo e lavoriamo per il resto mondo e speriamo di condividere progetti e visioni in questi nuovo spazio quanto prima. 

3 Cavalcade 2

Luca, siamo arrivati alla fine di questa lunga intervista e ti ringrazio per averci fatto entrare nel vostro mondo coloratissimo. Come in altre interviste a progettisti e creativi, mi piace sempre chiedere qualche consiglio e  curiosità. Dicci un po’… 

Un libro che ritieni indispensabile per la libreria di un creativo (o aspirante tale) 
Te ne dico tre! Allora qualsiasi libro di Charley Harper – io ho sfogliato un milione di volte an illustrated life –, poi le guide per bambini alle citta’ di Sasek e The Line di Saul Steinberg. 

Due strumenti che non possono mancare mai nel tuo zaino 
La matita, spesso piccola così sta ovunque, e il metro per misurare tutto e giocare. 

Un account Instagram assolutamente must-follow 
Per restare in tema parchi giochi, direi @playground.journal 

Credits: Luca Boscardin 

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