Fotografare le Alpi #1. Intervista a Omar Sartor
© Omar Sartor
© Omar Sartor
Originario di Tarzo, un piccolo borgo tra Vittorio Veneto e Conegliano, Omar Sartor, 42 anni, esplora l’interazione tra paesaggi e esseri viventi attraverso l’uso della pellicola e del digitale. Diplomato all’Accademia d’Arte cinematografica di Bologna, si divide tra Milano, il Veneto e i suoi viaggi in giro per il mondo, spesso su due ruote. Grazie a una cifra artistica perfettamente riconoscibile eppure in continua evoluzione, espone in gallerie internazionali e collabora con top brand e magazine di moda e design. Tra i suoi progetti più apprezzati c’è il monumentale “Fram”, che per sette anni lo ha portato a percorrere e documentare le Alpi per coglierne la vera essenza, valicando confini orogeografici e cliché.
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
L’essere caratterizzato da immagini asciutte, tendenti all’astrazione. Le fotografie devono essere utili, come i libri, e per me fungono da taccuino visivo: registro la realtà attraverso la macchina fotografica e poi rielaboro le immagini in un processo mentale e fisico in cui stendo le stampe sul pavimento e cammino tutto intorno, riflettendo e scrivendo. Una pratica fondamentale che mi permette di avere un contatto profondo con la realtà fotografata.
Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Il mio interesse per le vette alpine deriva dal piacere personale che provo nel frequentarle: amo la montagna, il freddo, la neve, la roccia e i paesaggi impervi. La mia curiosità, però, nasce dalla necessità di rispondere alla mia domanda, profonda e personale, sulla natura estesa delle Alpi e una complessità che non avrei potuto comprendere solo attraverso i libri. Sentivo il bisogno di rincorrere questa risposta e sono stati necessari sette anni di esplorazione fotografica.
Riconosci un’evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Assolutamente sì. Inizialmente il mio stile era minimalista, concentrato sull’essenziale per evitare gli stereotipi del paesaggio didascalico, da cartolina; cercavo di catturare solo gli elementi fondamentali del sistema culturale alpino, l’essenzialità anche a scapito della complessità. Prediligevo luci diurne, forti, e immagini sovraesposte che disvelassero tutto, che dissezionassero il paesaggio come in sala operatoria, in modo che non ci fosse nessun mistero. Con il tempo il mio stile è diventato più complesso e meno asciutto. Ho iniziato a scattare anche in bianco e nero, di notte, con luci più romantiche: un cambiamento che riflette la mia evoluzione personale e una reale comprensione delle Alpi.
Con quale approccio hai scelto di immortalare l’arco alpino?
Cerco di documentare senza applicare giudizi. La macchina fotografica mente solo per colpa di chi la usa. Io non voglio deformare la realtà né rendere l’immagine uno strumento politico; il mio obiettivo è stimolare le persone a trovare la loro visione individuale. Non sta a me raccontare se il turismo sulle vette è un bene o un male; desidero documentare la realtà così com’è, offrendo una fotografia sincera e autentica.
Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Che le Alpi sono una comunità che cerca di rimanere uguale a se stessa ma che, allo stesso tempo, cambia inesorabilmente. Ho notato un parallelismo tra le comunità umane e la grande comunità montana, entrambe influenzate dai cambiamenti climatici. Il sistema culturale alpino, in questa mia prospettiva, include tutti, dagli allevatori agli intellettuali, e rappresenta una tradizione vivente che si evolve con il tempo.
Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Molto più sereno. Ora che ho trovato delle risposte alle mie domande, non ho più timore reverenziale nei confronti delle Alpi. La conoscenza ha generato una relazione più pacifica e appagante, permettendomi di godere appieno della bellezza delle nostre montagne senza più l’angoscia di dover trovare delle risposte.
Quale consideri il tuo scatto migliore?
Sicuramente i miei preferiti sono quelli che compongono il progetto sui mantelli delle vacche in relazione al paesaggio alpino: esteticamente bello, stimola molte domande e rappresenta il mio ideale di fotografia come innesco mentale. Lo scatto non deve appagare lo sguardo, ma piuttosto far volare la mente.
Senti il desiderio di catturare un’immagine ancora mai scattata?
Il mio sogno, da anni, è lavorare al Polo Nord; voglio esplorare e fotografare luoghi incontaminati prima dello scioglimento definitivo dei ghiacci. La fotografia è per me uno strumento, non un fine ultimo, e confido di poter presto realizzare questo progetto avventurandomi in Groenlandia, in un ambiente selvaggio e incontaminato che offre una prospettiva unica sulla bellezza e la fragilità del nostro pianeta.