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February 12, 2024

Il verbo di fronte:
Roberta Dapunt presenta a Bolzano la nuova raccolta di poesie

Maria Quinz

In un’epoca come la nostra, così complessa, drammatica, confusa, c’è bisogno della poesia. Una poesia che si protenda sul mondo con pietà, ma anche gratitudine, e che lo sappia ascoltare con attenzione, formulando le parole più vivide per raccontarlo, tramite una scrittura che non tema il silenzio, ma al contrario ne tragga profondità e forza, nel pensiero e nel verso. Una poesia potente, come quella della poeta altoatesina  Roberta Dapunt – che ho avuto il piacere di intervistare in più di un’occasione per franzmagazine – e che, di recente, ha dato alle stampe la sua nuova raccolta poetica dal titolo: “Il verbo di fronte”, pubblicata da Einaudi. 

Sono felice di comunicarvi che Roberta Dapunt presenterà il suo ultimo libro a Bolzano, leggendo alcuni componimenti, domani 13 Febbraio 2024, alle ore 18, presso il Filmclub di Bolzano. L’iniziativa è stata organizzata da Literatur Lana e sarà introdotta da Giovanni Tesio, filologo e critico letterario, curatore di numerose pubblicazioni su autori in lingua italiana e dialettale e collaboratore de “la Stampa” per 35 anni .

Siete tutti invitati a partecipare all’evento. Su queste pagine invece, oltre a una breve intervista alla poeta potrete leggere in anteprima due suoi componimenti tratti da “Il verbo di fronte”. Poesie che Roberta Dapunt ha voluto condividere con noi su franzmagazine. E di questo non possiamo che esserle grati.il verbo di fronte dapunt“Il verbo di fronte” è il titolo della sua nuova raccolta. E quindi la parola e la riflessione sulla poesia, parrebbero essere temi importanti dei nuovi componimenti. Ci puo spiegare la scelta del titolo?

Il verbo di fronte è ciò che indica l’esistenza di qualsiasi cosa, nell’azione compiuta, così nell’azione subita. È una situazione, l’esistenza stessa che ho di fronte. Che posso vedere, che posso sentire, ascoltare e percepire. Ma è anche una condizione del pensiero, un volume riflessivo, nel mio caso poetico, che si muove al di là di ciò che è evidente. È l’orientamento che seguo da quando mi esprimo in versi, pertanto non è più importante o nuovo in questa raccolta. È piuttosto la consapevolezza sempre più nitida che la mia scrittura ha di sé e del mondo esterno con cui è in rapporto.

La nuova pubblicazione segue Sincope (2018) a distanza di anni. Da allora, il mondo è radicalmente cambiato o forse tante criticità e conflitti esistenti hanno iniziato via via a detonare. Quanto c’è nelle nuove poesie dello spirito dei tempi?

Fin qui ho pubblicato le mie raccolte sempre a distanza di più o meno cinque anni, misura che per me va bene e che mi permette di avere uno sguardo ampio sul mio tempo. Intanto il tempo del mondo continua il suo percorso e noi lo carichiamo di circostanze strazianti, causiamo ferite dolorose e lesive della dignità umana. È poco il bello da poter raccontare, esiste ma è poco. 

E in una realtà sociale, ma anche culturale, come quella di oggi, così satura di messaggi e immagini disorientanti, che ci raggiungono da ogni dove – a suo avviso – che ruolo può avere la poesia, a livello individuale e collettivo?

Leggere una poesia non è leggere l’articolo di un giornale, ascoltare una poesia non è ascoltare una notizia. Leggendo la poesia scritta nei periodi di guerra si imparano i sentimenti e la coscienza di coloro che hanno subito e che sono morti o sopravvissuti. Ci hanno consegnato il loro dolore, le solitudini, i loro pianti scritti anche su strappi di carta e sui muri per impossibilità di altro. Erano messaggi che diventavano sostentamento, provvedevano a un nutrimento della coscienza rivolta a chi forse le avrebbe lette. Ciò che è rimasto lo abbiamo letto e continuiamo a farlo. Per me questa è già poesia. Essa mi fa capire meglio, perché riesce a portarmi al volume del sentimento nell’affermazione, al riverbero della coscienza nel racconto. 

Ripeto e continuerò a farlo, la poesia non solo può, ma ha il dovere di raccontare il suo presente. Dire violenza, scrivere solitudine e indifferenza, fa parte anche del vocabolario della nostra vita. Ma soprattutto della vita degli altri. E gli altri sono in molti, li possiamo incontrare per strada, avere come vicini di casa, dentro casa o nel quadro delle molte notizie di ogni giorno. Questo vocabolario accompagna spesso una vita intera, dalla nascita alla sua morte. Così come anche la gratitudine interiore e la pietà. Sono espressioni che rappresentano la verità fisica di essere qui e ora. Ci dicono che ci siamo e come siamo. È il compito della poesia.

Roberta, nel suo vivere quotidiano quanta parte ha la poesia e come si è evoluto – se si è evoluto – “il vostro rapporto” negli anni?

Non faccio distinzione tra il mio vivere quotidiano e il pensiero poetico. Non l’ho mai fatto.

A livello tematico – infine – si possono individuare, nella nuova raccolta, dei nuclei a lei particolarmente cari, sentiti o imprescindibili, che ritornano in continuità con le poesie delle pubblicazioni passate?

Concludo il libro con due poesie che portano il titolo della raccolta. Nella prima racconto la pecora, la fascinazione ogni volta al privilegio di guardarla, congiunta creatura che mi porta sempre a un’armonia dell’animo. Nella seconda e ultima poesia mi rivolgo all’augurio per me stessa di riuscire a raccontare di nuovo e nuovamente il mio prato. Ma non per un sentimento di appartenenza, bensì per una volontà di coerenza tra la forma e il contenuto di ogni mio verso.  

***

Io minorità poetica
sono colei che dell’unità isolabile fa un discorso. 
Dilato sui fogli l’espressione del pensiero,
sollevo il tempo, sposto le sue abitudini,
lo abituo all’immobile consistenza della ragione. 

Succede così un raccolto di parole,
stacco la pianta e ricompongo la cavità vuota,
poiché tendo alla conoscenza della profondità,
di ciò che non è solo sapere o funzione. 

Pensare da sé, la facoltà che guida a ben giudicare,
sebbene sia controllo dell’istinto, degli impulsi, le passioni,
la loro radice principio e causa materiale.
Eppure affondano le mani in questo terreno,
stabiliscono i sentimenti, il dubbio, l’incertezza,
per poi esitare e sospendere foglio e scrittura. 

Ecco, io sono nella poesia un’inabitata casa,
materia di incertezza, un pesante ascoltare me stessa.
Se solo riuscissi anche per un poco a dividere il sapere
dall’essere umano.

***

Poiché noi abbiamo pianto,
perdonato guerre e miseria, avuto un nuovo inizio,
ripreso le nostre vite in mano. Le abbiamo guardate
dal fondo di ogni morte avvenuta
ed era estremità superiore, sommità feroce
che non conserva nulla di umano. 
Di questa siamo stati prigionieri, di un tempo,
razzisti su di noi, ammazzandoci oltre i colori,
la mente perversa ansimava il diritto 
a un grado inesistente di purezza. 

Abbiamo fatto dell’umanità il suo plurale.
Peggio. Lo abbiamo lasciato rimanere tale.
Ora altre umanità piangono il dolore
qui dimenticato. E sì che lo abbiamo imparato 
il dolore, poiché ci è stato raccontato 
il dramma, dai nostri padri e dalle nostre madri.
Il lutto collettivo che non riconosciamo, la disgrazia
così uguale ora, di quelle umanità che non ci appartengono,
così diverse le vostre carni, le vostre voci che non ci riguardano. 

Eppure qui lo specchio del nostro misero intelletto,
voi migranti che non vi vogliamo, nel vostro sguardo
il presente delle genti soffocate dal passato. 
Cruda linfa che non ci interessa,
se non nel dichiararvi colpevoli del vostro dramma,
decidendo sentenze al bar e nelle nostre case, nei parlamenti
e negli eletti governi, dalle nostre bocche il diritto di nuovo 
alle contorte voci, nella convinzione che no, noi non siamo fascisti. 

È invece autorità illegittima la nostra voce
amplificata in lingue diverse, ché da loro lo sputo
e il veleno e l’indifferenza dal dito alzato, a dire
migrante, io giudico il tuo pianto.
Perché tu altro, tu stai piangendo un pianto che fu il mio,
dimenticato orrore. Ti condannerei per questo,
all’esilio, se potessi addirittura dal mondo. 

Credits: (1) Ritratto di Roberta Dapunt, Lea Menges; (2) La copertina del libro “Il verbo di fronte”, Editrice Einaudi.

 

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