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December 20, 2023

Oscuro è il cuore della bellezza:
Margherita Manzelli in mostra a Trento

Stefania Santoni

Chi mi legge da un po’ è a conoscenza della mia ricerca dedicata al femminino. Il corpo delle donne e tutte le sue rappresentazioni rientrano in questo filone che contempla uno studio fatto di intrecci di letteratura, arte, filosofia e storia. Parlando del corpo delle donne non posso fare a meno di pensare al momento in cui mi sono avvicinata al corpo delle sante anoressiche, a quello di Santa Macrina (sorella di Basilio Magno e Gregorio di Nissa vissuta nel IV secolo dopo la nascita di Cristo) o di Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia e d’Europa, nota per aver riportato a Roma il Papa dopo il periodo avignonese. O alle vicnede di alcune donne più vicine alla nostra storia come Rita Levi Montalcini, Maria Callas, Sylvia Plath e Emily Dickinson. 

Tutte queste donne hanno avuto una cosa in comune: l’avere un corpo evanescente, la scelta di privarsi della loro parte materiale. Il modello di un femminile angelico che aspira a uno stile di vita ascetico cui tendere per elevarsi e assomigliare a Dio, o meglio, all’immaginario del logos maschile, che è stata spesso la risposta di alcune donne per neutralizzare l’inquietante potenza del loro corpo. Considerata sola materia, un ricettacolo, un sostrato che aveva la sola funzione di ospitare la vita e quindi di perpetuare la continuità della specie, una donna rappresentava una cosa (uso volutamente questo sostantivo perché è da qui che comincia quella visione reificante del femminile che ancora oggi abita la nostra cultura) profondamente temibile, una presenza dominata da passioni fuori controllo.Qual è era dunque la sola possibilità di salvezza? Quale era la strada da percorrere per liberarsi di questo enorme fardello che allontanava una donna dalla somiglianza con il divino, quindi da ciò che era considerato perfetto, eterno, immutabile e imperituro? Sbarazzarsi del corpo, renderlo invisibile; cancellarlo e dominarlo. È così che la pratica del digiuno mistico diventa una forma di salvezza, una possibilità di avvicinarsi a ciò che vi era di più alto. Il controllo della fame, dell’appetitus, era per ogni donna la prova provata di essere in grado di dominare la parte concupiscibile e irrazionale, di elevarsi al pari degli uomini. È qui che nasce il mito della perfezione. È così che le bambine anoressiche hanno iniziato a essere chiamate ‘le figlie del padre’ perché, scegliendo di non avere un corpo accogliente e ospitale, avevano così modo di rispondere con una soluzione al rifiuto di quel destino imposto, non scelto: solo così evitavano di diventare mogli e madri. 

4. Margherita Manzelli, L'amore fa schifo (creatori di vuoto), 2018, Courtesy l’artista e greengrassi, LondraVi parlo di tutto questo perché alla Galleria Civica di Trento ha inaugurato la mostra “Oscuro è il cuore della bellezza” di Margherita Manzelli. L’artista ospita nelle sue tele una serie di personaggi femminili che hanno i tratti delle donne anoressiche, delle donne che con il loro radicale ascetismo hanno reso il loro corpo emaciato, infecondo, asessuato. Sono donne che compaiono nelle sue tele con tratti archetipici e con l’intento di narrare l’universale. Margherita Manzelli è un’artista che si è formata all’Accademia di Ravenna; qui si è dedicata in primis a una scultura di impronta minimalista e alla ricerca artistica sul volume, dando poi “corpo” anche a una serie di lavori dedicati alla performance. La pittura e il disegno sono stati per lei, inizialmente, una sorta di divertissement privato. Verso gli inizi degli anni Novanta Manzelli si trasferisce a Milano dove con una serie di mostre inizia a ibridare la pittura con alcuni aspetti performativi: nei suoi lavori sono presenti azioni che coinvolgono il pubblico oltre a vere e proprie pratiche performative. Si tratta di un aspetto che la rende celebre e che diventa un suo tratto distintivo unico, profondamente personale e figlio del suo tempo. Dalla metà degli anni Novanta Manzelli opta per un ulteriore strappo e sceglie di dedicarsi esclusivamente alla pittura. Per comprendere l’approccio artistico di Manzelli ci è utile tenere a mente il contesto culturale in cui ci troviamo: dobbiamo ricordarci che nel 1997 il Leone d’Oro della Biennale lo vinse Marina Abramović con Balkan Baroque. 

Per la Galleria Civica di Trento, Manzelli sceglie di esporre una serie di lavori che mettono al centro il corpo umano e la sua soggettività. E lo fa in una cornice architettonica così asciutta e sintetica che spesso arriva a sfumare in un nero monocromatico, tanto  da risultare quasi come una sorta di ornato: nelle sue opere troviamo delle figure femminili (diafane, magre, perse in una sorta di spazio indefinito) quasi galleggiassero nell’ornato-sfondo: figure  applicate su un pre-testo come se Manzelli fosse custode dei mosaici di Ravenna. Penso a un’opera in cui si vede una figura che tiene in grembo una testa, che diventa una sorta di elemento decorativo, ma che esiste, c’è e non si può eludere. È così che le opere di Manzelli ci propongono un narrazione con un duello( o dialogo) continuo tra figure in primo e secondo piano, dove si posa l’occhio  si posa e può andare e riposare.Schermata 2023-12-20 alle 11.18.46 La ricerca sviluppata dall’artista in questi anni e che porta a compimento per la prima volta in questa mostra coincide con la scelta di dar vita a una nuova narrazione dell’umanità. Sappiamo che da sempre la figura dell’uomo è stata considerata una sorta di simbolo della collettività, un modello in grado di ospitare l’universale, ogni forma vivente e non, aspetto che non si può di certo riscontrare quando si tratta di corpi femminili, di rappresentazioni di donne. I pregiudizi e gli stereotipi di cui è farcita la nostra cultura non permettono infatti di allargare l’immaginario femminile e di trasformarlo in un grande contenitore in grado di raccogliere e radunare la molteplicità. Con i suoi lavori Manzelli sceglie di mettere in pratica un cambio di rotta, di operare attraverso un atto rivoluzionario perché, da artista internazionale quale è, mostra di saper parlare un linguaggio universale in cui ognuno di si può riconoscere. È così che sceglie di raffigurare le differenti declinazioni dell’essere donna col fine di trasformarle in un archetipo di umanità, in immagini arcaiche in grado di narrare e quindi di includere tutti e tutte. I corpi di Manzelli sono corpi archetipici:  figure arcaiche che si stagliano su uno sfondo traboccante di elementi ornamentali in apparente contrasto con la sintesi complessiva della composizione.

 C’è tempo fino al 25 febbraio per immergervi in quest’esperienza di bellezza dove i corpi femminili convivono con il linguaggio archetipico e la narrazione dell’universale.

Credits: (1) Il disprezzo, 2022, Collezione Carola Golding; (2) L’amore fa schifo (creatori di vuoto), 2018; (3,4) Untitled, 2014, courtesy Margherita Manzelli e greengrassi, London.

 

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