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June 28, 2023
Il futuro ha un cuore antico:
La classicità in “Domus Contemporanea” alla Civica di Trento
Stefania Santoni
Mentre l’uomo muore e non rinasce, il classico muore per rinascere, ogni volta uguale a sé stesso e ogni volta diverso. Questo modello ciclico, questa ricorrente ossessione per un classico sempre dato per defunto e sempre rinascente, attraversa tutta la storia culturale europea. In tutto il suo corso si moltiplicano rinascite. Salvatore Settis
Quando nel lontano 2007 scelsi d’iscrivermi a Lettere Classiche, molte persone attorno a me mi hanno guardato stupite: non capivano quale interesse (e utilità) potesse suscitare in me quel mondo, quella realtà che loro consideravano delle “rovine abbandonate”. A non poche persone, infatti, le tracce di un’antica memoria potrebbero sembrare resti senza vita, ma è vero anche che la classicità può racchiudere in sé il concetto di eternità: classico è ciò che ha la possibilità di rinascere sempre, ciclicamente ed eternamente, plasmandosi a seconda del tempo e del luogo in cui si manifesta. Non una rovina priva di vita, ma linfa viva e immortale.
E così, quando ho scoperto che alla Galleria Civica di Trento avrebbe inaugurato la mostra Domus contemporanea – progetto voluto e realizzato a seguito dell’apertura di un altro luogo del Tridentum, Villa Orfeo, con l’obiettivo di creare anche in questa sede una “domus” che accogliesse anche reperti archeologici – non ho potuto fare a meno d’intraprendere un viaggio immersivo in quest’esposizione che riporta alla luce il senso della tradizione classica e della sua immortalità trasversale a diverse epoche artistiche. E lo fa raccontando come, in un arco di tempo piuttosto lungo (anche se detto “secolo breve”), la modernità e l’attualità del classico siano stati uno strumento straordinario per elaborare concetti complessi come quello d’identità e radici e come prospettiva su cui costruire una visione del mondo.
Se vogliamo, infatti, il passato che noi identifichiamo con il termine “classico” è in realtà una materia ancora viva, mobile, trasformabile e vitale nel momento in cui attraversa le contraddittorie estetiche contemporanee. Prima di addentrarci in questo “viaggio”, vi propongo alcune informazioni più tecniche per meglio comprendere il concept del progetto espositivo. La mostra nata da un’idea di Vittorio Sgarbi e curata da Margherita de Pilati e Andrea Viliani. “Domus contemporanea” raccoglie le opere di 29 autori e autrici moderni e contemporanei internazionali, che hanno reinterpretato l’archeologia e la storia antica. Da Carlo Belli, Giorgio de Chirico, Fausto Melotti, Alberto Savinio a Vanessa Beecroft, Francesco Vezzoli, passando per Andrea Branzi, Mimmo Jodice, Luigi Ontani, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Salvo, Ettore Sottsass Jr. Altro aspetto interessante è il fatto che, per la prima volta, la Galleria Civica abbia scelto anche di coinvolgere quattro gallerie private di Trento, invitate a proporre il lavoro di alcuni degli artisti da loro rappresentati. Boccanera Gallery presenta la ricerca di Federico Seppi; Cellar Contemporary partecipa con David Aaron Angeli, Paolo Maria Deanesi Gallery con Michele Parisi; infine lo Studio d’Arte Raffaelli interviene con opere di Nicola Samorì e Carlo Belli. A loro volta, queste gallerie dedicheranno al tema della mostra uno spazio all’interno delle proprie sedi, creando connessioni di senso e omaggiando con i linguaggi della contemporaneità la riapertura dello spazio archeologico cittadino. La sinergia generata da questa collaborazione regala alla mostra un respiro ampio, capace di andare oltre i canoni più tradizionali di allestimento degli spazi espositivi. Ma ora iniziamo il nostro viaggio. All’ingresso ci aspetta un’opera molto interessante, il quadro di Giuseppe Canella “Veduta dal Lago di Garda” del 1846. Una data, questa, che ha coinciso, un secolo dopo, con quella della scoperta di Ercolano e Pompei. Un evento di enorme portata storica che non ha significato soltanto rinvenire rovine archeologiche di gran pregio, ma che – dato che l’eruzione del Vesuvio le aveva distrutte e al tempo stesso preservate – aveva dato l’opportunità (e la sensazione) di poter camminare letteralmente in una città antica, di passeggiare come se gli antichi abitanti se ne fossero andati pochi minuti prima. Questa scoperta ha dato il via – come ben sappiamo – a una moda che ha cambiato la storia della cultura europea: quella del “Grand Tour”, il viaggio che s’intraprendeva in Italia alla ricerca di rovine e monumenti del passato per fare esperienza del classico. E come scrisse Goethe, il Grand Tour non iniziava a Napoli o Roma, ma sulle Rive del nostro Lago di Garda, nella terra dove fioriscono i limoni (‘‘wo die Zitronen blühn’’).
Impossibile non citare qui i celebri versi de “La canzone di Mignon” all’interno del romanzo “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister” di J.W. Goethe (1796), grande estimatore dell’Italia e delle sue vestigia: ‘‘Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?/Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro,/una brezza lieve dal cielo azzurro spira./Il mirto è immobile, alto è l’alloro!/ Lo conosci tu?/ Laggiù, laggiù!/ O amato mia, con te vorrei andare! / Conosci tu la casa? Sulle colonne il tetto posa,/ la grande sala splende, scintillano le stanze,/ alte mi guardano marmoree effigi:/che ti hanno fatto, o mia povera bambina?/ La conosci tu?/Laggiù, laggiù!/O mio protettore, con te vorrei andare”. Il percorso espositivo s’innesta quindi su una classicità che diventa contemporanea e che si modula in un percorso di discesa e ascesa. «Abbiamo pensato di immaginare la struttura della mostra considerando ciò che succede in una domus: si va sottoterra, come ci insegna l’archeologia. In questo spazio profondo abbiamo tre sale dove troviamo capolavori provenienti dalla collezione del Mart dei più grandi artisti del Novecento italiano, come Alberto Savinio, Fausto Melotti, Giorgio de Chirico, Adolfo Wildt cui si aggiungono i progetti di Angiolo Mazzoni disegnati per la stazione Termini di Roma. Questi capolavori dialogano tra loro e sono la prova che il riferimento al classico non è solo iconografico ma archetipico. I cavalli, le muse, i templi diventano qualcosa che vive in un’identità che è radicale e radicata nel nostro animo, come se non ci dovessimo obbligare a riferirci al classico perché è parte integrante della nostra mentalità più remota. Da lì viene questa frequentazione poetica e visionaria di un classico che si può comporre e decomporre. Il capolavoro di Wildt, scultore apparentemente classico, che racconta l’ossessione compulsiva a entrare nella materia e a plasmare, ci aiuta a capire perché è stato proprio lui il maestro di Lucio Fontana» – così racconta il curatore Andrea Viliani che mi fa da guida nel viaggio.
Si avanza incontrando l’opera di Giulio Paolini, che Calvino definì ‘‘il pittore’’: la sua scultura (Intervallo, 1985) non solo è letteralmente tagliata in due, ma anche esposta con uno schema a chiasmo opposto. Invece di essere una parte di fronte e l’altra dietro, le sezioni si girano: come se la pittura fosse in dialogo con la scultura, le due parti entrano ed escono da un muro. E il pubblico può attraversare l’opera: ci passa in mezzo, non è più estraneo, diventa invece parte dell’opera stessa. Il passato non è quindi qualcosa di finito, su cui non abbiamo più nulla da dire, ma è disponibile alla reinvenzione e alla sua ricomparsa. Come si legge nel catalogo della mostra, secondo Paolini “un’opera, per essere autentica, deve dimenticare il suo autore” e appartenere così alla spazialità prospettica e alla temporalità sinottica della storia dell’arte. Per questa ragione la sua opera si può sdoppiare e diventare frammento perché corrisponde al vuoto fra tutte le opere che sono esistite, che esistono e che esisteranno. Come racconta l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis: il passato non lo conosciamo (se non per frammenti). Ci è giunto attraverso un immane naufragio, un disastro che ha spezzato l’unità. Noi non possiamo fare altro che ipotizzare il passato, attraverso uno scavo interpretativo che ci permette di immaginare un classico riproponibile a nostra misura.
Accanto a Paolini troviamo la fotografia di Mimmo Iodice della serie “Mediterraneo”: scatti realizzati in situ e stampati in camera oscura. L’artista ha lavorato l’immagine manualmente in modo tale che la foto “non stesse ferma”, come se fosse dipinta: è così che alcuni dettagli vibranti restituiscono la vita ai luoghi che Mimmo Iodice ha immortalato. Le rovine diventano qualcosa di profondamente lontano dalla morte perché hanno resistito: non sassi, ma testimonianze di cui si coglie la vitalità, la resilienza, il “pathosformel” che dal passato si vuole trasmettere al presente. Di fronte troviamo le opere di Mimmo Paladino, disegni realizzati a mano che incorporano elementi oggettuali, frammenti integranti che continuamente vengono reinterpretati. Andando avanti, si prosegue con le riflessioni intorno al concetto di classico e anticlassico e i diversi attraversamenti del classico tra arte e design: si passa dalle colonne di Ettore Sottsass JR a Vanessa Beecroft, da Salvo a Andrea Branzi, da Claudio Parmiggiani a Nicola Samorì. L’ultima tappa di questo viaggio la vorrei dedicare a due artisti trentini presenti in mostra, Federico Seppi e Michele Parisi. L’idea del progetto di Federico (un’installazione realizzata per lo spazio antistante la Domus di Orfeo) nasce a partire dalla posizione occupata dalla Villa Romana e dal concetto di conservazione in situ come metodo di valorizzazione e tutela che evoca storie urbane profondamente stratificate. I resti archeologici raggiungono particolare forza in quanto inscritti nel paesaggio urbano presente: esposti nella città diventano lettura stratigrafica in cui presente e passato si sovrappongono uno all’altro. Con i suoi 81 ferri da armatura ogni modulo richiama le palazzine urbane che attorniano la zona archeologica, mentre i vari livelli stratigrafici del sito sono restituiti attraverso una serie di sezioni indicative delle epoche che si sono articolate nel tempo e in quel luogo. Michele Parisi, invece, riprende nei suoi dipinti gli orrori delle distruzioni avvenute nei siti archeologici della Siria: le immagini si fanno portavoce di una memoria che nell’opinione pubblica sta affievolendo. Da una parte notiamo una pittura sfocata e dall’altro naturalistica: l’artista, con le sue stesure monocrome, ci racconta il dramma della perdita e ci invita a meditare intorno agli accadimenti storici e sul senso che vi attribuiamo, in costante trasformazione. Ora non resta che passarvi il testimone, così che possiate a vostra volta esperire il classico all’interno di questa bella e stimolante mostra: avete tempo fino al 26 novembre per visitarla!
Credits: Mart Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
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