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May 26, 2023
Christian Fogarolli alla Civica di Trento
Normalità e devianza, dove sta il confine?
Francesca Fattinger
Ci sono delle mostre che ti entrano dentro, con una profondità disarmante, quelle mostre che devi andare a vedere più volte, per ritrovarti, per metterti in discussione, per farti domande, quelle scomode, quelle che ti fanno vibrare e cadere dalle tue sicurezze, quelle dalle domande aperte, forti e vere che solo a pronunciarle dentro di te aprono sorgenti di senso travolgenti ma anche di paure a cui non sai dare un nome. Chi decide cosa è normale e cosa non lo è e soprattutto chi lo è e chi non lo è? Dove sta il limite, dove è tracciato il confine tra normalità e devianza?
“Decade”, la mostra di Christian Fogarolli, curata da Gabriele Lorenzoni e ospitata al MART – Galleria Civica di Trento fino al 4 giugno, è l’occasione per prendere queste domande, guardarle in faccia e immergervisi dentro fino al collo, per abitarle con coraggio, vivendole passo passo in un percorso espositivo che, con molte opere inedite, vuole fare il punto, dopo dieci anni di carriera, su un percorso di ricerca che ha condotto l’artista a importanti affermazioni nazionali e internazionali. Mi piace pensare a Fogarolli come a un artista ribelle che con eleganza e delicatezza mette in crisi moltissimi confini, barriere epistemologiche, steccati disciplinari, categorie, gerarchie e stereotipi dell’arte così come della cultura, della scienza e della società.
Vi accompagno ora con le mie parole all’interno della mostra, soffermandomi su alcune delle opere esposte che più mi hanno toccato. Una foto di archivio ingrandita mi accoglie appena varco la soglia della porta a vetri. La trovo sempre poetica quella porta, come se la società che resta fuori sia sempre e comunque in trasparenza, come se il mondo della contemporaneità sia chiamato ad affacciarsi, a farsi strada, ad appropriarsi di quello dell’arte e viceversa. Nella foto un “cervello di pazzo” su un tavolo da laboratorio, considerato luogo della devianza, da analizzare, studiare, dissezionare, per trovare la causa, per scoprire la casa della devianza, estirparla, modificarla, curarla.
Davanti a lui “Leaven”, un’opera del 2015 in cui l’artista raccoglie tutti volumi dei “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, i manuali scientifici che classificano i “disordini mentali”, dal più antico a quello più attuale, in un lievitare di disordini, come se il mondo con il passare degli anni sia diventato sempre più deviato, deviante e anomalo: sempre di più le etichette, sempre di più i disordini e sempre di più le definizioni di devianza, moltiplicate, appunto lievitate. Il suo intero lavoro potrebbe essere metaforicamente rappresentato da quest’opera. Fogarolli parte infatti dalla pratica di categorizzazione scientifica e statistica della devianza per poi andare ad analizzare quelle che sono state e sono le pratiche di esclusione, marginalizzazione e cura delle stesse, attraverso lo studio degli archivi, degli istituti manicomiali del passato ma anche i centri di studi attuali e l’utilizzo delle nuove tecnologie. Il tutto portato avanti con il massimo rispetto e la massima sensibilità, nella profonda consapevolezza che i temi maneggiati richiedano un’estrema delicatezza e competenza, oltre alla capacità di stare sempre un passo indietro, pronto ad ascoltare, accogliere la Storia e le storie e farsene rispettosamente portavoce.
Sono temi che fanno parte della vita di ognuno di noi, anche quando non vogliamo vederli, anche quando chiudiamo gli occhi, le orecchie e la bocca: il difforme, l’eccedente rispetto alla norma sociale, fanno parte della nostra quotidianità tanto quanto le regole che lo escludono dalla normalità. L’arte di Fogarolli vuole mettersi al servizio di questi temi e quindi della collettività e della comunità che li abita, dando corpo e voce alla malattia e alla piaga dell’emarginazione in una società escludente.
Un passo ancora nella prima sala e il mio occhio è catturato da un altro confine che l’artista mette in discussione, esamina, analizza, altera nell’opera “Le Pendu” del 2023: il corpo dell’immagine e l’immagine del corpo, dove abita la differenza tra le due coppie o sono l’uno lo specchio dell’altra? Corpi accartocciati come carne macellata appesa, immagini che prendono corpo e lo perdono, lo negano e lo reificano costantemente nel loro leggero dondolare che ha qualcosa di macabro e vitale al contempo, immagini che prendono corpo e quindi vita e corpi, accartocciati e appesi, che rivelano in un istante la loro morte.
Una sala quella che segue che sembra una mostra a sé, in cui un’opera video sullo sfondo fa da cornice sonora e luminosa assieme al pavimento cosparso di sabbia, da cui emergono come oggetti alieni o marini, o entrambe le cose assieme, sculture di vetro. Una sala che è quasi una parentesi all’interno del percorso e che dà spazio a “Pneuma”, realizzato a partire dal 2019 nell’ambito del Premio Italian Council e frutto della collaborazione dell’artista con il personale medico – sanitario e i pazienti di istituti psichiatrici, centri di ricerca e centri di cura siti in diversi paesi europei. Alle pareti anche due autoritratti dell’artista, due risonanze magnetiche nucleari con un vetro soffiato, a testimonianza della sua ricerca in cui si coinvolge sempre in prima persona attraverso l’indagine non solo di materiali d’archivio ma anche delle tecnologie più moderne.
Subito dopo ecco un corridoio di disegni in cui vediamo i suoi grandi ispiratori e le sue grandi ispiratrici, quei nomi che lo hanno ispirato e guidato: dall’ambito scientifico a quello storico-artistico senza nessuna soluzione di continuità. In queste opere come in altre esposte si vuole dimostrare come non sia in contrasto con la sua attitudine da ricercatore, quasi collezionista, archeologo, o filologo, il ricorso anche a tecniche tradizionali quali disegno, scultura e pittura.
Si scende poi al piano interrato e la prima opera che mi accoglie lo rivede protagonista in un video: l’artista si muove con cautela su un terreno interamente ricoperto da un manto d’edera, che tutto ha avvolto e di cui tutto si è impossessato con bramosità e invadenza ribelle. Fogarolli procede un passo dietro l’altro con grande attesa, con pause intervallate da movimenti nervosi, in un incedere agitato perché consapevole dei vuoti che l’edera ha inglobato, reso invisibili, ma non cancellato, vuoti che avrebbero potuto inghiottirlo e farlo affondare in ogni momento. La memoria e i suoi vuoti, le sue cancellature e i suoi traumi: ecco quali sono i veri protagonisti di “Krajany”, opera che consiste nel video che vi ho descritto, nell’installazione d’archivio e in due lapidi. Ma che storia si nasconde dietro a tutto questo? Innanzitutto un viaggio nel tempo e nello spazio: da Pergine Valsugana a Praga, sulle orme di 48 degenti che nel 1916, nel corso della prima guerra mondiale, furono trasferiti presso il manicomio di Praga perché la struttura di Pergine, che si trovava a due passi dalla linea dei combattimenti, serviva come ospedale militare. Queste 48 vite entro pochi mesi, a causa di malattie infettive e malnutrizioni, sono morte e sono state sepolte nelle fosse comuni del cimitero di Bohnice facendo perdere traccia della loro identità. L’artista ripercorre la loro storia e dopo un secolo queste 48 persone riacquistano un nome e un’identità. Grazie a una collaborazione con il Cimitero Monumentale di Trento, sono state prodotte due lapidi che riportano il testo delle lastre originali poste nel 1932 sulla chiesa cimiteriale, che adesso sono visibili in mostra nelle due lingue, ceca e italiana, e saranno poi installate nel Cimitero di Trento. Un bellissimo esempio di come storia, arte, collettività e contemporaneità sappiano intrecciarsi per non perdere la memoria.
Finisco col raccontarvi un’ultima opera, anche se molte sarebbero ancora quelle su cui varrebbe la pena soffermarsi, come l’installazione per me innanzitutto sonora in cui una moltitudine di pillole girando creano un ritmo sincopato che invade tutto lo spazio o le fotografie prelevate da archivi su cui l’artista interviene con strati di pittura o rendendole tridimensionali con strumenti chirurgici o con cip moderni a testimonianza che il tempo passa ma le questioni rimangono le stesse, se non più urgenti.
Ed ecco “Correction”, opera site-specific creata appositamente per la Galleria Civica, che occupa le ultime tre sale: tre capitoli di un racconto, il racconto di come la società ci voglia raddrizzare, correggere, rettificare, di come voglia imporre il suo ordine, le sue regole e lo faccia attraverso canali plurimi a cui difficilmente riusciamo a sfuggire. Così piccoli e grandi, bambini e adulti, abitiamo la società come piante estremamente fragili, siamo anime di vetro, contenitori delicati di diversità, a cui viene imposto uno sviluppo dall’alto, dal basso, da destra e da sinistra, siamo circondati da costrizioni che ci deviano a ogni angolo per estirpare la nostra diversità e incanalarci nel normalizzato. Ma la nostra ombra si ribella, esce dai confini, ecco quello che vedo sempre nelle opere di Fogarolli: le ombre della società grazie al lavoro dell’artista sono manifeste, hanno spazio, hanno voce anche per dire la loro, per non essere emarginate, per prendere lo spazio che meritano.
Giovedì 1 giugno ci sarà la presentazione del catalogo, una bella occasione per incontrare l’artista e immergersi nella sua mostra.
Credits: (1,3) Christian Fogarolli, Archivio Fotografico Mart; (2,4,5,6,7,8,9) Carlo Baroni.
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