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July 20, 2020
Di pomeriggi e incontri illuminati: una chiacchierata con Michele de Lucchi
Anna Quinz
Ci sono pomeriggi che nascono illuminati. A volte dipende dal sole che batte un po’ più forte, altre volte da un incontro, che si rivela incredibilmente prezioso. È questo il caso di un pomeriggio di questo giugno appena passato. L’incontro è con Michele De Lucchi, genio dell’architettura e del design, maestro per un numero infinito di creativi (anche non architetti o designer). Non serve certo dire di più, basta il suo nome per evocare oggetti, edifici e progetti iconici, che hanno ispirato generazioni intere. E così, quando un amico – l’architetto Robert Veneri – mi chiama per confermare che oggi pomeriggio potrò incontrare Michele De Lucchi, questo pomeriggio già pieno di sole si illumina ancora un po’ di più.
Michele De Lucchi sta portando a termine un progetto architettonico per l’hotel Zirmerhof a Redagno e questa è l’occasione che lo porta in città. Robert organizza l’incontro e io, come una bimba emozionata prima del saggio di danza, mi ritrovo finalmente faccia a faccia con questo grande uomo dall’inconfondibile lunga barba, gli occhiali tondi e un sorriso gentile che scaccia immediatamente ogni mio timore.
Sono preparata per intervistarlo, ho molte domande nei miei appunti, ma come spesso succede con uomini di tale levatura, l’intervista si trasforma presto in una chiacchierata informale, ma non per questo meno densa e intrigante. Anzi. Gli mostro Moreness e JOSEF, che osserva con occhio esperto e grande entusiasmo. Partiamo anche da qui, per discutere di creatività, vacanze, architettura, natura e – come quasi in ogni conversazione di questa strana estate – iniziamo dal non lontano lockdown, che tanto ha influenzato i pensieri e le azioni di ognuno di noi. Parliamo fitto per quasi due ore, io, Michele (abbiamo deciso di darci del tu, quale onore per me…) e Robert, e qui riporto per voi in modo rigoroso qualche estratto del nostro ricco e appassionante dialogo a tre voci.
MDL: La pandemia ha prodotto innumerevoli danni, oltre a quelli evidenti, che scopriremo da adesso in avanti. Ma il vero danno, a parte naturalmente i morti, è nascosto e per questo ancora più pesante e difficile da regolamentare e captare: la depressione. Soprattutto nei giovani. E gli psicanalisti hanno riscontrato che la depressione colpisce di più le persone logiche e razionali, mentre è meno presente nei creativi. La creatività è l’antidoto alla depressione più grande che esista. Chi ha fantasia, immaginazione e capacità di mettere a regime la propria mente, riesce a superare con maggiore facilità i problemi depressivi. Dunque, più riusciamo a far crescere la creatività, più benessere generiamo.
Per esempio, un po’ di tempo fa nel mio studio ci siamo chiesti: perché le stanze degli alberghi, invece che essere semplici spazi per dormire, non possono diventare spazi per creare? Così è nato un progetto che si chiama “Atelier Stations”. Si tratta di stanze organizzate per spendere la giornata nel modo più creativo possibile. Stanze dove si possa imparare a dipingere, scolpire, intagliare il legno o semplicemente mettere alla prova la propria capacità d’immaginazione. Certamente in queste stanze ci sono il letto per dormire e il bagno per lavarsi, ma si tratta di angoli serventi, annessi. Al centro invece c’è lo spazio per l’attività creativa, e a disposizione degli ospiti ci sono tutor che aiutano a stimolare la fantasia e la creatività. È una delle proposte che abbiamo fatto durante il lockdown, pensando a come si potrebbero modificare molti degli ambienti nei quali viviamo, non tanto per rispondere all’avanzare del virus ma piuttosto come operazione utile per cambiare la percezione e l’uso degli spazi.
AQ: Mi sembra un’idea meravigliosa. La dimensione dell’accoglienza, che in Alto Adige ha dei picchi di eccellenza, è un tema che mi affascina molto. Quel che però mi interessa di più è l’osservazione e lo studio dei rituali che l’hotel ripropone, che sono inevitabilmente diversi da quelli dell’abitare. Non sopporto quando la comunicazione alberghiera propone il messaggio “sentirsi come a casa”… se così deve essere, allora sto davvero a casa mia. Io in hotel cerco altro. In generale però gli spazi nell’hotel sono concepiti per creare una sorta di coreografia con passi prestabiliti e spesso manca proprio un luogo per fare altro che non sia mangiare, dormire, lavarsi o languire in sauna. Io però sento appunto la necessità di un angolo per leggere, pensare, immaginare. In particolare in montagna, dove non credo serva sempre essere attivi, fare cose. O almeno questo è il mio modo di andarci, in montagna, per cercare uno stimolo intellettuale e non corporeo. E uno spazio fisico per questo esercizio mentale, in molte strutture non esiste.
MDL: Esatto, uno spazio di ispirazione. I nostri Atelier non nascono con l’idea di realizzare opere da mostrare o giustificare. L’idea è proprio quella di fare qualcosa senza uno scopo, semplicemente per farlo. È la stessa logica della meditazione: non fare. E chi non fa, medita meglio degli altri. E nel non fare si recuperano più potenza ed energia che nello scalare 100 montagne.
AQ: Si, proprio questo. Nello sforzo corporeo mi concentro sul corpo, mentre nella passività fisica ho lo spazio e la libertà per triplicare l’attività intellettuale. Per questo il lockdown per me è stato utile. C’è sempre bisogno, nelle nostre vite frenetiche, di un tempo e uno spazio riflessivo e inattivo. E per questo io sono una promotrice delle vacanze passive!
MDL: Bella l’idea dello spazio di ispirazione. Tutti gli spazi non puramente funzionali e che tendiamo a funzionalizzare, sono quelli che invece hanno di più questo effetto. A casa abbiamo bisogno di funzionalità. Ma forse dopo il lockdown, le case diventeranno meno funzionali e un po’ più balorde.
AQ: Il lockdown ci ha dato tante idee e innovazioni possibili, bisogna riuscire a non perderle, per il desiderio e la fretta di tornare a normalità.
RV: Io credo che bisognerebbe interrogarsi di più su una questione: l’essenza del concetto di “occasione”. È l’occasione che ti fa pensare in altro modo, e a quelle cose che – appunto – non avevi mai avuto occasione di pensare. Io l’ho trovato intrigante il lockdown, ma l’ho anche vissuto come una serie di occasioni perse, perché mi sono fatto troppo coinvolgere dal lavoro.
AQ: Sarebbe interessante riproporre, ognuno per sé, quel senso dell’occasione, durante le vacanze. Prenderle come un tempo non per forza per fare qualcosa, ma per ritrovare il tempo del non far nulla.
RV: Le Atelier Stations di Michele servono proprio per dare questo input, per capire e chiederci cosa stiamo facendo, quali sono i cardini del nostro agire.
MDL: Infatti. Si chiamano “stazioni” proprio perché sono punti in cui fermarsi. Le stazioni sono lunghi nei quali arrivi per andare da qualche parte, sono spazi di connessione tra un momento e un altro. Una cosa che bisognerebbe fare, è trovare un’altra parola per dire quella cosa che noi chiamiamo “vacanza”, ma che non deve essere più una vacanza come la intendiamo comunemente. L’Atelier Station non serve per fare vacanza, serve per rigenerarsi, per respirare, per assorbire quel tanto di creatività in più che normalmente non vivi, ma che ti tiene in vita. Per tutto il tempo che serve. La parola vacanza dà il senso del non far niente, qui invece si tratta di una sospensione fruttuosa. Di un momento nel quale tutto acquista un nuovo senso e genera un nuovo inizio, come è stato durante il lokcdown. Questo è stato il cambiamento più incredibile e l’unica cosa sicura davanti a noi, è che – come sosteneva già Eraclito secoli fa – tutto cambierà ancora.
Le stazioni servono dunque per costruirsi quel momento nel quale decidere nuove destinazioni, per chiedersi dove veramente vogliamo andare e cosa desideriamo fare. Avevo iniziato il progetto disegnando stazioni che riguardavano gli spazi convenzionali come musei, biblioteche, centri commerciali. E in tutti avevo cercato di immaginare quale potesse essere il passo evolutivo, non pensando quel che oggi si può ed è conveniente fare, solo perché una ricerca di mercato dice che è quella la strada da seguire. Ho pensato oltre, proiettandomi in un futuro neanche troppo lontano, diciamo 20 anni. Se come progettista ti lanci 20 anni avanti, avrai fatto qualcosa che esula dalle strette potenzialità di quel che puoi progettare oggi. Questo mi è chiarissimo per esempio quando visito progetti realizzati 3/5 anni fa e li trovo vecchi. In 5 anni cambia tutto, e quelli che erano gli assunti base di allora, oggi sono già il passato.
AQ: Ma allora, cosa deve fare un architetto oggi?
MDL: Considerare il futuro. Nessuno ci insegna che il nostro lavoro non è mettere sassi sopra altri sassi, ma piuttosto definire un pezzo di futuro. E che quel che vediamo e sentiamo, le preoccupazioni sociali, ambientali ed economiche devono diventare argomento di progettazione e di discussione con i clienti. L’architettura oggi è molto più che costruire due nuovi metri quadrati.
AQ: Ma mi chiedo, questo dialogo visionario con la committenza, è fattibile per un giovane architetto che non si chiama Michele De Lucchi e che ancora non ha sulle spalle esperienze utili a fargli da garante?
MDL: Più che altro credo sia problema di apertura disciplinare. Se ti poni come architetto sei fregato. L’architetto oggi deve interfacciarsi e dialogare con l’antropologo, lo psicoanalista, il medico, il virologo, l’artista, con chi ragiona in termini di sensibilità visiva, con lo scrittore, il poeta… e chi più riesce a combinare queste influenze, meglio potrà affrontare il mondo di oggi. Gli strumenti li abbiamo tutti, per dare vita a combinazioni strane e inaspettate.
Per questo da circa un anno non chiamo più il mio studio “studio di architettura” ma “Circle”. Per me è un vero e proprio circolo di discipline, personalità, interessi e sensibilità diverse, combinate insieme. E gli architetti, se fanno un passo indietro, fanno 100 passi avanti. Se lasciano confluire tante altre informazioni, obiettivi e ambizioni, riescono a far guardare a un orizzonte più ampio e molto più splendente.
AQ: Credo che questo discorso valga per tutto e tutti, oggi più che mai. Molti la chiamano multidisciplinarietà, ma non è un termine che amo…
MDL: Si, bisognerebbe trovare una parola nuova…
RV: Ho proprio discusso recentemente di questo tema con Gion Caminada (celebre architetto svizzero ndr). La multidisciplinarietà non è possibile, significa compromessi e i compromessi significano diminuzione di valore. Gion mi ha raccontato dei suoi studi, che vertono invece sulla trans-disciplinarietà, che significa non combinare, ma lasciare a ogni disciplina la sua grandezza. Se l’architetto è responsabile di alcuni fattori, il virologo lo è di altri e non può diventare architetto, né viceversa. “Trans” vuol dire mettere insieme le discipline, trasversalmente. E in questo modo può uscire il plusvalore dell’architettura, che è l’inaspettato. La sua importanza non sta nel risolvere le questioni funzionali o di costi, ma piuttosto nel creare un’occasione per qualcosa che nemmeno l’architetto si aspettava.
AQ: Penso valga anche nel mondo del turismo. Noi ci occupiamo di comunicazione e marketing territoriale, ma proveniamo da studi umanistici, non di marketing “puro”. E dunque, se io devo avvicinarmi al turismo, lo faccio con gli strumenti e i linguaggi dell’antropologia, dell’etnografia, dell’arte, della letteratura…. Penso che dovrebbe ragionare di più in questi termini trans-disciplinari, per esempio il lavoro degli antropologi è indispensabile per raccontare e capire luoghi.
RV: Sì, è discutendo di queste cose tra professionisti diversi che le idee vengono fuori. Il singolo arriva fino a un certo punto, ma è attraverso la trans-disciplinarietà che si trova il punto di incontro fino ad allora sconosciuto. Ecco, un esempio dal vivo: è appena arrivato Peter Kasal, che è un agronomo coinvolto nel nuovo apparato di legislazione urbanistica locale. Perché anche in questo caso, la progettazione e pianificazione non è solo una questione di metri cubi, ma di valori del paesaggio, da valutare anche dal punto di vista agronomico.
PK: Esatto Robert, stiamo facendo grandi sforzi per introdurre un nuovo pensiero nella legislazione urbanistica, che non si deve occupare solo di cifre ma di valori paesaggistici, di spazi della memoria. È un insieme, bisogna lavorare nei e sui luoghi per capirne il pregio e l’importanza. Non si deve distruggere l’esistente, senza aver prima ragionato e pensato a dove ci si trova e a cosa quel luogo rappresenta. Le Belle Arti si occupano di tutelare gli edifici storici, ma non basta. Ci sono tanti altri elementi che costituiscono il valore di un luogo, magari non degni di tutela architettonica, ma improntanti per la percezione del paesaggio o per la memoria collettiva.
E visto che stavate parlando di hotel. Gli hotelier hanno nel loro DNA la necessità di aggiungere e fare cambiamenti ogni anno. Questa volta, allo Zirmerhof l’intervento è qualcosa che va al di fuori dell’involucro interno e io sono stato coinvolto per valutarne l’impatto, dal punto di vista paesaggistico. Ma io che conosco quel luogo fin dall’infanzia, faccio fatica a distinguere tra il “me” come individuo che conosce il posto fin da piccolo e il “me” professionista.
MDL: Mi rendo conto perfettamente. È un po’ il grande tema di oggi: cosa fare e cosa non fare? Cosa imparare e cosa disimparare? Così tanto di quello che è stata la nostra maniera di fare le cose che in questo nuovo mondo – al quale dobbiamo per forza arrivare – che non funziona più.
Lo Zirmerhof peraltro è un luogo che conosco da molto tempo. Ci vado in vacanza da anni, a fare la mia non vacanza. È un mio luogo di ispirazione, per tornare a quel che dicevamo prima.
AQ: Stavo pensando, ascoltando dell’intervento di un agronomo in un progetto architettonico, che è bello che ci sia qualcuno che in qualche modo difenda le istanze mute della terra…
MDL: La sai la storia degli alberi, raccontata da Stefano Mancuso? C’è stato brodo cosmico del quale è nata la prima cellula, che ha poi generato tutto il mondo organico. Ma le cellule non erano ancora animali, vegetali, virus e tutto quel che conosciamo. Tra queste alcune hanno deciso di progredire muovendosi, altre di stare ferme e adattarsi al nutrimento che trovavano lì dove erano. In quel momento si è creata la separazione tra cellule vegetali e animali. Gli alberi sono tra coloro che hanno deciso di stare. Ma in realtà non sono totalmente immobili, si muovono. Nei millenni si sono evoluti, con un’intelligenza specifica, usata in maniera diversa dalla nostra. Le cellule vegetali sono più avanti delle cellule organiche. E nel momento in cui il clima dovesse uccidere gli organismi animali, quelli vegetali resisterebbero e continuerebbero a vivere sul pianeta, anche senza di noi.
E qui, sugli alberi che ci sopravviveranno e qualche ulteriore accenno alla fisica quantistica e al caos apparente della natura, il tempo è scaduto, il lavoro richiama Michele e Robert ai loro doveri. Resta ancora un attimo per scambiarci i rispettivi contatti e la promessa di rivedersi presto per continuare la nostra interessante discussione. E io, così nutrita e arricchita da questo straordinario confronto, già non vedo l’ora che arrivi un altro pomeriggio illuminato come questo, da passare in compagnia di Robert Veneri e Michele De Lucchi.
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