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November 4, 2019
“19 luglio 1985″ di OHT:
una katastrophé va in scena
Stefania Santoni
Exspatiata ruunt per apertos flumina campos,
cumque satis arbusta simul pecudesque virosque
tectaque cumque suis rapiunt penetralia sacris.
Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 295-287
Un racconto, per essere definito tradizionale, ospita patters narrativi: si snoda in eventi, personaggi e situazioni tipiche che ciclicamente ritornano. Lo stesso vale anche per le saghe del mito, per i poemi epici o per la materia tragica. Pensiamo, ad esempio, al motivo della catastrofe: di frequente, troviamo trame segnate da eventi disastrosi, molto spesso in tutto e per tutto simili a gigantesche inondazioni o a diluvi, inviati dal mondo divino sulla terra con il preciso scopo di punire la tracotanza degli uomini e di purificare l’umanità medesima, offrendo al tempo stesso una nuova possibilità a partire da quei pochissimi sopravvissuti al disastro. Si tratta di un episodio apocalittico, da inquadrare come un grande cataclisma mortale (degna anticipazione della conclusione vera e propria del cosmo che si avrà alla fine dei tempi), ma pure come una grande speranza e come unʼoccasione di rinascita, una sorta di incubo da cui ci si può ancora risvegliare. Ma questo vale per lʼambito letterario della finzione narrativa. Nella realtà, invece, che cosa succede?
19 luglio 1985 è una tragedia alpina scritta e diretta da Filippo Andreatta che inaugurerà la rassegna Grande Prosa al Teatro Sociale di Trento a partire da giovedì 7 novembre a domenica 10 novembre. Realizzato con il supporto drammaturgico di Marco Bernardi e la musica di Davide Tomat, questo spettacolo prende vita da una coproduzione di OHT, del Centro Santa Chiara e di Romaeuropa Festival, con il sostegno della Provincia di Trento e il supporto della residenza artistica di Centrale Fies Art Work Space, in collaborazione con la Fondazione Caritro e il patrocinio della Fondazione Stava 1985.
Questa tragedia è il racconto di una catastrophé: è la storia di una sciagura ambientale, quella di Stava; è la messa in scena di un dramma indicibile e, per certi versi, non rappresentabile. È lʼesperienza del dolore, della distruzione, della morte.
Mentre la tragedia classica auspicava ad una catarsi a seguito di un evento disastroso così da consentire allʼuomo una possibilità di redenzione, in Val di Stava tutto questo non è stato possibile. Catastrofe non divina, ma opera dellʼuomo, qui il fango ha portato via ogni cosa: case, ponti, strade, vite. Dove trovare una sorta di purificazione da tutto questo? E soprattutto, come mettere in scena un simile misfatto?
Andreatta sceglie di recuperare alcuni degli espedienti drammaturgici dellʼantica tragedia attica per bordare lʼorrore della valanga. In che modo? Se il disastro ambientale non è rappresentabile perché la morte non può essere vista ma solo rievocata, diventa un abile accorgimento lʼidea di affidare al coro un ruolo centrale: traccia della collettività e, qui, del trapasso di Stava, «fin dalla tragedia greca l’apparizione del coro corrisponde a una dichiarazione di guerra al naturalismo in arte». Il coro difatti è portavoce dellʼineffabile e si distingue per la sua sympatheia: pone interrogativi, manifesta interessamento e partecipazione. È lui che fissa la risposta emotiva dello spettatore perché è il più partecipe e il più coinvolto nel dramma da un punto di vista affettivo.
La valanga, assente ma al tempo stesso presente sulla scena, si rivela attraverso lʼelemento sonoro. Perché, per dirla al modo degli antichi, tutto ciò che passa dal condotto uditivo arriva dritto alle facoltà spirituali dellʼindividuo: ce lo spiega bene Plutarco nel suo trattato Sulla loquacità quando scrive che il lobo dellʼorecchio è collegato alla psyché da un canale diretto.
Diviene così emblematica la scelta del requiem di Ligeti Lux Aeterna, brano in cui «le voci diventano una massa sonora densissima e priva di una direzione precisa, esattamente come la colata di fango che ha spazzato via la val di Stava». Questo racconto di luce eterna e di riposo nellʼaldilà va in scena al buio: creando un effetto perturbante fra bagliore e oscurità, la sua melodia riesce a suscitare commozione dello spettatore che però, subito dopo, si ritrova calato nellʼimmensità del silenzio; infatti «il brano di Ligeti finisce con 7 battute di silenzio nella partitura».
Tutto si modula secondo contrasti che ricostruiscono la violenza della valanga di fango.
Sullo sfondo si susseguono una serie di pannelli: come pagine di un libro, sono immagini di memoria che parlano de «lo sgretolamento del paesaggio alpino colpito dallʼonda dʼurto della valanga».
La tragedia alpina di Andreatta va così ad assumere un duplice senso: non solo mette in scena uno dei motivi da sempre più dibattuti cioè lʼambiguo rapporto uomo/natura, ma tenta di dar vita, tramite un processo di mimesis, ad una possibile catarsi da parte dello spettatore.
Photos © OHT 19luglio1985, by RobertaSegata, Courtesy Centrale Fies
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