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October 11, 2017
Hubert Kostner: parola alle opere e al suo alter ego…
Mauro Sperandio
L’occasione per intervistare Hubert Kostner mi è data dall’imminente inaugurazione di una sua personale alla RBL Gallerie di Lienz. Vista la premessa, l’intervista avrebbe dovuto concentrarsi sui lavori che l’artista andrà ad esporre, tuttavia, per quello che Hubert mi ha detto durante il nostro incontro, ho deciso di non far parlare l’artista dei suoi lavori, ma di chiedergli del suo lavoro in generale. Se volete saperne di più, confrontatevi con il tipo della foto a fondo pagina…
Nei tuoi lavori sono frequenti i riferimenti alla tua terra natale. Cosa credi ti leghi maggiormente ad essa e cosa di essa ti respinge?
A legarmi a questo territorio sono le montagne, il paesaggio e la famiglia. L’aspetto che meno mi piace è la mancanza di un “input urbano”. Bolzano, con i suoi centomila abitanti, è l’unica grande città della provincia e se è vero che offre sicuramente molti stimoli, non può reggere il confronto con le grandi metropoli. Mi mancano un po’ queste grandi città dove posso perdermi, essere nessuno e fare qualsiasi cosa. Un altro aspetto tipico della cultura altoatesina è il voler riunire e tenere assieme la gente, pensa alle tante associazioni: questa attitudine ha aspetti positivi e, allo stesso tempo, negativi.
Parlando di unità e comunanze, credi che esista, pur nella diversità, un carattere distintivo comune alla produzione artistica altoatesina contemporanea?
Sicuramente, come credo accada ovunque ci sia un ambiente con delle caratteristiche ben marcate. In un mondo globalizzato la nostra identità può essere una chance per emergere. Usando una metafora gastronomica, è come la nostra arte fosse “fatta con gli ingredienti del posto”. In più, mi rendo conto che qui gli artisti hanno tra di loro dei legami anche forti e si frequentano con assiduità, pur non essendoci nessun movimento formalizzato e occupandosi ognuno del proprio personale lavoro. Chissà se, come è avvenuto per l’architettura, l’IDM non realizzerà un marchio per l’arte “made in Alto Adige”…
Come credi sia cambiato nel tempo il tuo linguaggio artistico?
Quando ho cominciato la mia carriera non avevo la casa-atelier e non avevo famiglia; vedevo tutto in maniera molto leggera e ironica. Con la costruzione della casa è come se si fosse creato un prima e un dopo. Ho temperato la mia voglia di critica della realtà e ridotto la componente ironica delle mie opere, forse perchè influenzato dai cambiamenti in corso nella nostra società. Lo spazio in cui vivo e lavoro ora mi permette una riflessione più profonda e mi stimola nella ricerca di un linguaggio più astratto, non più così focalizzato sul territorio in cui vivo, anche se sempre indirizzato ai temi del paesaggio e del turismo.
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di abitare e lavorare in una casa-atelier?
Ho sognato questo posto per lungo tempo e ho tanto desiderato di poterlo disegnare e costruire da zero. I due anni di progettazione e costruzione, assieme Modus Architects, sono stati molto intensi professionalmente e umanamente. Oggi vivo e lavoro in questo spazio da cui, in alcuni periodi, mi capita di uscire poco, giusto per fare la spesa o portare i bimbi all’asilo e alla scuola. Ciononostante questo spazio non è uno spazio chiuso. Ospito spesso e con piacere amici e artisti, utilizzando gli spazi di casa per concerti e, una volta all’anno, per un evento pubblico. Un casa è un punto di partenza per realizzare molte cose, la mia è un po’ una cattedrale nel deserto, in cui faccio entrare un mondo che fuori non esiste.
L’arte avvicina, nella tua casa le distanze tra le persone e le loro idee si accorciano, ti mancano un po’ le metropoli per stare in mezzo alla gente, ma lontano da tutti… Per quali temi non credi di avere un distacco sufficiente o una partecipazione emotiva troppo forte?
Da quando ho finito i miei studi all’accademia non lavoro più con la figura umana, per la quale ho un grande rispetto. È un tema questo che ho un certo timore anche ad affrontare, perché riguarda me e il rapporto con gli altri. Preferisco confrontarmi con il territorio che mi sta attorno, più che con la figura.
Le piccole figure che hai usato nei tuoi lavori non potrebbero dunque avere dei volti di persone reali?
Quel tipo di statuine vengono dal mondo del modellismo; ho sempre tenuto al fatto che non fossero state realizzate da me, che le ho solo comprate ed impiegate come elemento epico per raccontare una storia. Non sono delle “persone”, ma degli stereotipi, dei personaggi.
Che rapporto hai con la tua immagine e il “dovere” apparire che il tuo mestiere t’impone?
Fino a qualche anno fa mi piaceva apparire in pubblico. Col tempo mi sono reso conto che la maggior parte degli artisti non sa parlare in pubblico e non sa fare discorsi di una certa profondità. Anch’io, con gli anni, ho sempre più difficoltà ad esprimermi a parole e preferisco affidare alle mie opere ciò che voglio dire. Mi rendo conto che al giorno d’oggi è importante coltivare la propria immagine, ma non ci metto molto impegno…
Mi pare di capire che se potessi evitare le pubbliche relazioni che il tuo lavoro richiede, lo faresti con piacere. Se potessi delegare a qualcuno il compito di rappresentarti, chi sceglieresti?
Ecco a te una foto del mio alter ego…
Foto: 1) Hubert Kostner, Liftstübele, 2017, Mixed Media, ©Raiffeisen/Waldner, foto by Ramona Waldner
2) Hubert Kostner, Let it snow, 2012-17 Aluminium ©Raiffeisen/Waldner, foto by Ramona Waldner
3) Casa-Atelier Hubert Costner, foto by Niccolò Gandolfi.
4) Double Huber Kostner, 2017, 195X8X8, legno ©Hubert Kostner (quello in carne e ossa).
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