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April 26, 2014
Creatività + economia = tema “alla moda” o relazione possibile? Ne parliamo con Tommaso Sacchi
Anna Quinz
Di questi tempi pochi temi sono più frequentati nei “salotti” italiani (ma non solo) della cultura e dell’economia: la cultura (e la creatività in genere) può essere motore economico di ripresa del paese? La cultura può essere sostenibile e svincolarsi dal sistema dei finanziamenti (per lo più pioggia) pubblici? Si può davvero fare impresa culturale e creativa, sopravvivendo? Operatori culturali, manager, economisti ed istituzioni ormai da qualche tempo si interrogano su queste questioni, che non sono solo una moda – anche se ormai sulla bocca di tutti – ma domande necessarie e cruciali nella società contemporanea. I modi in cui si posso approcciare queste domande, poi, sono molti e diversificati, e così, osservare, indagare, riconoscere best practice ed esperimenti di lavoro vissuto, sono passi fondamentali nella costruzione del dibattito, affinché porti a soluzioni possibili e non solo ad elucubrazioni da salotto.
Un momento per un pensiero concreto, basato su esperienze reali, ce lo dà il 28 aprile il Festival delle Resistenze, con una tavola rotonda che si concentrerà proprio su questi temi. Anche noi di franz siamo invitati, a raccontare la nostra storia. A moderare il tavolo, Tommaso Sacchi, docente allo IED Istituto Europeo di Design e all’Accademia di Belle Arti Aldo Galli (Como) e consulente per le Arti dello Spettacolo presso Assessorato alla Cultura, Moda e Design del Comune di Milano.
Con Tommaso abbiamo dialogato, in anticipo su queste stringenti questioni. Ecco i suoi pensieri.
Tommaso, partiamo dall’appuntamento del 28. Coordinerai una tavola rotonda sul tema: “creatività come motore economico e sociale”. Parlando sopratutto di economia, quale l’assunto iniziale, o la domanda, dal quale partirai?
Partirò certamente dalla stretta relazione tra urbanistica e progettazione culturale, un tema che mi pare il filo rosso che tiene assieme una tavola così eterogenea e varia per tipologia di operatori ed esperienze. Questi soggetti hanno sviluppato contesti di produzione culturale che puntano a un alto grado di permeabilità dei tessuti e delle reti sociali sui territori entro i quali si inseriscono. Penso che lo stimolo delle reti e la valorizzazione dei territori siano al tempo stesso necessità e virtù dell’operazione culturale contemporanea, in particolare in tempi di crisi globale.
Oltre che come operatore culturale, hai anche esperienze istituzionali. E spesso, si sa, istituzioni e operatori viaggiano “sullo stesso treno”, ma su binari differenti. Dal tuo punto di vista privilegiato, puoi condividere qualche riflessione su questo argomento?
Hai centrato un aspetto del mio lavoro che non solo fa parte del trascorso recente ma che ha cambiato in maniera radicale il modo di accostarmi alla progettazione e alla curatela. Ho iniziato a lavorare molto presto e per dieci anni ho praticamente ignorato l’esistenza di assessorati e altre istituzioni, percependo una distanza siderale tra il mio lavoro e un livello istituzionale troppo poco incline a rispondere alle sollecitazioni. Quando mi è stato affidato l’incarico di progetto e strategia per l’Assessorato alla Cultura di Milano, sono venuto a conoscenza di innumerevoli sprechi e malgoverni che si sono succeduti nel tempo, ma, allo stesso tempo, ho cominciato a capire il grande potenziale del ruolo pubblico. Mi piace pensare che un Assessorato alla Cultura possa essere paragonato a una grande redazione che deve sviluppare il più bello, il più equilibrato, il più aggiornato dei periodici, che, nella metafora, è rappresentato dalla città stessa.
Ci siamo abituati a un concetto di politica culturale – usando le parole di Luciano Bianciardi – che non è più “scienza del buon governo”, ma troppo spesso viene intesa e percepita come “arte della conquista”. Questa distorsione ha generato una distanza troppo ampia tra operatori e istituzioni. Credo che nelle agende di amministratori e assessori di impronta progressista il colmare questa distanza debba essere considerato una opportuna priorità.
Il tema della sostenibilità in ambito culturale è molto di moda, ma è anche un tema di dibattito fondamentale, oggi come oggi. Qualche indizio, ingrediente, suggerimento, per chi non riesce a credere che la cultura possa (e debba) occuparsi della propria sostenibilità?
Mi verrebbe facile partire da una serie di dati e di rapporti che fotografano lo stato dell’arte delle imprese culturali nel nostro Paese, ma non voglio dare una risposta puramente statistica alla tua domanda. Penso piuttosto che sia opportuno approfondire il concetto di sostenibilità e interpretare la parola sotto un’angolatura che riguarda soprattutto la componente progettuale (il formato) che poi indirettamente influenza anche la ricaduta economica sull’impresa stessa e sui territori di azione. Nel dettaglio, la sostenibilità di un’operazione culturale passa attraverso lo studio del formato della proposta. La ricerca di modalità non scontate -a volte inedite- di coinvolgimento di reti e soggetti attivi nell’ambito della creatività può infatti generare rapporti sinergici e di co-costruzione dei programmi culturali che rappresentano un fattore di innovazione anche, e soprattutto, in un’ottica di sostenibilità. Il 28 in piazza avremo molte voci di operatori che si muovono in questa direzione: dal progetto Open City Museum al cubo di Rubik, dal vostro progetto di Distretto della creatività Rosengarten alla Piattaforma stessa.
Alla luce di questo, credo che non sia solo miope ma persino dannosa la logica secondo la quale l’operazione culturale non debba occuparsi della propria sostenibilità. Questa logica è figlia dei troppi decenni in cui pubbliche amministrazioni e fondazioni di varia natura hanno finanziato – aprendo i rubinetti – iniziative di cultura che poi non hanno davvero supportato sul lungo periodo. La stessa logica è basata su di una dinamica antitetica al concetto di incubazione di impresa, una sorta di bombola di ossigeno che, quando termina, non ha la possibilità di rigenerarsi. Si sarà inteso che sostengo decisamente la figura del curatore/imprenditore/stimolatore di reti e connessioni virtuose.
Puoi farmi un esempio concreto, una best practice italiana o internazionale che possa fare da esempio su questo tema della sostenibilità?
Rischierò di sembrare autocelebrativo ma non è così: voglio infatti raccontarvi un progetto che conosco nel dettaglio e che ho seguito molto da vicino, ma col quale oggi non c’entro più nulla.
PianoCity è il festival milanese di musica diffusa che nell’arco di tre giorni propone oltre duecento concerti, aprendo insieme alla cittadinanza spazi pubblici e privati. Questo evento urbano è stato generato da una miscela di tre ingredienti basici:
- la moltitudine delle energie diffuse metropolitane.
- un tema espressivo specifico: la musica per pianoforte.
- una cornice spazio-temporale entro la quale attivare l’evento.
Questo progetto ha tenuto conto di fattori come la molteplicità e la simultaneità come segni distintivi del fare cultura oggi, una sorta di identificazione delle energie creative sul territorio e la conseguente messa a sistema di esse. Ecco, questo è uno dei modelli che funzionano, che creano economie sufficienti per la realizzazione attraverso la forte esposizione dei cartelloni, il coinvolgimento di centinaia tra operatori e artisti (e quindi la costituzione di un network) e la collaborazione con sponsor entusiasti di un’operazione nuova e intelligente capace persino di creare un’identità culturale cittadina. Come PianoCity mi vengono in mente esperienze diverse ma altrettanto valide e acute nella progettazione e nel livello di partecipazione del tessuto produttivo e sociale. Potrei citare il ‘Festival di Giornalismo’ di Perugia o l’esperienza di ‘Insieme Fuori dal Fango’ di Rimini, nato dall’idea di un editore indipendente (Massimo Roccaforte, NdA) per far fronte ad un’emergenza dovuta a un danno da alluvione e che ogni anno cresce senza ricorrere al “rubinetto” di istituzioni e fondazioni bancarie.
Noi di franz, oltre al tema dell’impresa creativa, porteremo sul tavolo il nostro progetto di quartiere creativo. tu che conosci questo mondo, l’hai studiato e analizzato, quali criticità hai notato, quali successi possibili? e quali risultati economici e sociali pensi possano avere esperienze di questo tipo?
Ho conosciuto in questi giorni il vostro progetto di “quartiere creativo” e mi ha subito appassionato. Il concetto di editore-promotore culturale mi affascina parecchio e, conoscendo da lettore la vostra realtà, penso che possiate giocare un ruolo cardine nell’avviamento di un processo di identità sul tessuto urbano. Su Milano, insieme a Stefano Boeri - allora Assessore alla Cultura – attivammo nel biennio 20011-13 un percorso di screening e geolocalizzazione delle imprese creative e delle unità di promozione sociale con finalità culturali che insistono sui territori della città. Ne risultò un insieme di mappe che dividevano il territorio milanese in “distretti culturali” composti da teatri, scuole, accademie, live club, gallerie d’arte, residenze per artisti, centri sportivi, biblioteche che coesistevano e producevano cultura in aree circoscritte. Credo che nei contesti urbani questi hub della creatività esistano naturalmente, ma vadano riconosciuti e valorizzati, identificandoli come ‘distretti’. Immagino però che il lavoro maggiore, anche nel vostro caso, consista, una volta individuata l’area e le imprese attive, nella messa a sistema e nell’incentivo al dialogo tra le imprese stesse, una sorta di individuazione e successiva canalizzazione di quella che Paolo Rosa definì “generosità diffusa”. E’ un lavoro non facile anche perché storicamente le imprese che afferiscono alla scena culturale rischiano di creare recinti e soffocare l’interazione, una pratica anacronistica e improduttiva soprattutto in tempi di austerity nei quali la prossimità operativa e la co-costruzione rappresentano gli ingredienti alla base della cura contro la crisi. Ricordo che a proposito di questo Manuel Agnelli (Afterhours) mi raccontò dell’esperienza di Williamsburg a NYC, un quartiere dove il “concentrato culturale” è stato incentivato da una politica di facilitazione e concessione degli immobili ai soggetti che proponevano, oltre alla ristorazione e al lavoro di agenzia, palinsesti di arti dal vivo. Oggi il quartiere è uno dei più quotati e ambiti dal mondo dell’industria creativa newyorkese e i prezzi degli immobili sono decisamente cambiati. Ecco, questo è un esempio di come l’investimento sull’identità creativa di un’area urbana possa generare sistemi economici positivi e virtuosi.
Tu hai incrociato nel tuo lavoro di vari linguaggi creativi e culturali (arte, design, moda, cibo…). Linguaggi che – a mio parere – si potrebbero oggi incastrare sempre più con altri sistemi (turistico, artigianale, agricolo ecc), per costruire nuove strategie economiche. Tu che ne pensi? Potrebbe essere una formula per contrastare la crisi?
Credo che la propensione all’intreccio di linguaggi espressivi sia salvifica nella produzione e nella curatela del contesto artistico; ma questa tua domanda mi fa rendere conto di due aspetti che rappresentano un vero e proprio leitmotiv nel mio lavoro di progettazione culturale: il potere generativo ed esplosivo dell’incontro tra le diverse tipologie di espressione artistica e il livello di interattività della proposta.
Cerco di approfondire. Ritengo che l’operatore culturale contemporaneo (termine forse improprio ma che rappresenta una categoria professionale multiforme e difficilmente definibile altrimenti) debba tener conto della pluralità dei linguaggi espressivi come grande opportunità di ricerca e di formulazione di contesti culturali nuovi, che stimolano allo stesso tempo la curiosità del pubblico e lo sforzo ideativo dell’artista. E’ senza dubbio più opportuno parlare di ‘incontro’ piuttosto che di ‘contaminazione’, termine improprio ed evidente abuso linguistico del lessico contemporaneo. Un indotto positivo viene generato sia dall’accostamento di diverse modalità espressive sia, come dici, dall’apertura ai sistemi economici che stanno al di fuori del cerchio della produzione culturale in senso stretto (turismo, produzione artigiana, filiera agroalimentare,) . E’ certamente auspicabile che le attività turistiche, artigianali o relative alla filiera agricola, quando sono presenti nel territorio e sono assimilabili a buone pratiche, rappresentino un pezzo importante dell’operazione generale. Queste sinergie, se hanno risultati positivi, mantengono la doppia valenza di aumentare il valore culturale dell’iniziativa e di permetterne il successo in termini economici (e quindi la sostenibilità e la replicabilità).
Mi soffermo sul livello dell’interazione del fruitore, che è uno degli aspetti cui tengo maggiormente.
Una pratica che sposta l’asse del pubblico dal ruolo passivo dell’utente al ruolo dinamico dell’interattore; una sorta di messa in discussione del formato espositivo/performativo tradizionale. Non credo che questo rappresenti (solo) una mia ossessione, ma sia ormai un’esigenza del fare cultura nella società contemporanea. Mi vengono quindi in mente i tanti esempi di produzione culturale – più o meno recenti – molto diversi tra di loro ma che rappresentano in maniera esemplare questo livello di compenetrazione: dalle installazioni interattive di Studio Azzurro all’attraversamento collettivo dei territori degli Stalker, dai laboratori di progettazione partecipata del Public Design Festival di Milano fino al coinvolgimento del pubblico/organizzatore di PianoCity, che abbiamo citato in apertura.
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