Music
February 11, 2014
Sacri Cuori al Sudwerk, “tra l’America del blues e l’Italia romantica ormai scomparsa”
Marco Bassetti
Un percorso abbagliante quello dei Sacri Cuori. Anche solo leggendo il numero e lo spessore delle collaborazioni (da Marc Ribot a John Convertino dei Calexico, da Mark Eitzel a Hugo Race fino al leggendario batterista Jim Keltner) è facile capire che si tratta di una punta di eccellenza nel panorama della musica italiana e non solo. Ma se poi si passa dalla lettura all’ascolto dei due album pubblicati dalla band dal 2006 ad oggi, “Douglas & Dawn” (2010) e “Rosario” (2012), ogni fredda disquisizione risulta del tutto superflua: la qualità va al di là di ogni calcolo o proposito razionale, e l’emozione vola. È una musica che racconta scenari, quella dei Sacri Cuori, ed evoca ricordi e sensazioni che toccano corde profonde: una musica che si muove con eleganza sulla frontiera, mostrando un’innata vocazione cinematica. Vocazione pienamente portata a frutto con la loro ultima prova: la colonna sonora del film “Zoran, il mio nipote scemo” (2013), commedia cult diretta dall’esordiente Matteo Oleotto e interpretata dal sempre ottimo Giuseppe Battiston. In vista del concerto di giovedì 13 febbraio al Sudwerk di Bolzano, abbiamo scambiato due parole con Diego Sapignoli, percussionista che con Antonio Gramentieri (chitarre, bass VI, banjo, lap steel, toy piano) e Francesco Giampaoli (basso e contrabbasso, chitarre, percussioni) compone l’organico base della band.
Partiamo dal tour australiano. Che esperienza è stata “Sacri Cuori in Australia”?
È stata un’esperienza molto forte e molto gratificante. Quella sorta di “angolo di approccio italiano” alle musiche anglo/americane che è nel dna di Sacri Cuori e che vale anche alla rovescia (in fondo abbiamo anche un “angolo di approccio anglo/” alle musiche italiane…) ha risuonato in maniera inattesa e fortissima in un contesto in cui c’è molta italianità sottopelle e a tutti i livelli resiste l’idea romantica di un’Italia classica, elegante, distante ma sempre nel cuore.Il primo disco “Douglas & Dawn” un viaggio in America, il secondo disco “Rosario” un ritorno a casa. Siete d’accordo con questa lettura?
È una lettura azzeccata. Sicuramente in Rosario il senso della sintesi e del riappropriarsi di una certa Italia dei suoni è molto forte. In tutte le nostre esplorazioni, comunque, cerchiamo di seguire una “visione” più che una “visuale” estetica chiara ed identificabile e di evitare, quindi, riferimenti troppo diretti. A qualche livello permane sempre, però, un cortocircuito di influenze e di riferimenti: cortocircuito forse inevitabile per la prima generazione global, la nostra, che ha interiorizzato prima Happy Days e certi western che non Fellini, e che si è infatuata prima del blues, del jazz e del rock che non dei classici italiani.
E il terzo album, ora in cantiere, dove vi sta portando?
Ci sta portando dove vuole lui, come sempre. I viaggi in Argentina e in Australia ci hanno dato questa nuova chiave di lettura molto romantica, che è quella dell’Italia vista dall’emigrante, magari di seconda generazione. È un’Italia che non esiste più, ammesso che sia mai esistita. E, anche quando è reale, nel racconto è comunque sognata, deformata dai prismi del ricordo e della nostalgia. E raccontata con l’accento inglese. Sarà un disco di musica italiana… esule. E sognata.
In mezzo la colonna sonora di Zoran. Come è maturata l’idea di creare la musica di questo film?
L’idea è stata di Matteo Oleotto, il regista. Noi ci siamo messi a completa disposizione del film e della storia, portando un bagaglio di suoni e di atmosfere e alcuni frammenti melodici lavorabili. Abbiamo proceduto a stretto contatto col montatore e con il regista ed è venuta fuori questa specie di folklore senza fissa dimora. Dove ad un armamentario di suoni minimo, quasi da country-folk, si abbinano fiati da banda di paese e chitarre twang come di un Tarantino messicano. Una bella sfida, e una bellissima soddisfazione, specie entrare al Festival di Venezia da protagonisti.La vostra musica si colloca in una frontiera, tra ricerca colta e tradizione popolare, tra alto e basso, tra qui e altrove, tra Adriatico e Atlantico. Cosa rappresenta la frontiera per voi?
La frontiera è il luogo dell’incontro-scontro. Inevitabile. E del meticcio come identità dominante. Nel nostro caso c’è una fascinazione per la frontiera geografica, a cavallo di tutte le mete dei nostri viaggi ma anche dei luoghi delle musiche su cui ci siamo formati. E poi è una frontiera onirica ed estetica, fra l’America immaginaria dei nostri sogni bambini e quella in cui abbiamo suonato, e in cui spesso siamo tornati. E pure fra l’Italia romantica di cui abbiamo vissuto gli ultimi fuochi e quella più scura, in difficoltà, in cui stiamo vivendo buona parte della nostra vita adulta.
Avete avuto modo di collaborare con molti grandi artisti di livello internazionale. Ma qual è la collaborazione dei vostri sogni?
Ad ognuno il suo: per me Dylan e Mark Hollis. Avrei voluto dire anche Jim Keltner, Marc Ribot e Augie Meyers ma… ci abbiamo già suonato.
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