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May 1, 2013

Behind the scenes #03: l’attore Andrea Castelli e il suo metodo

Anna Quinz

Era da anni che aspettavo di intervistare Andrea Castelli. Inutile dire chi è, basta aver intercettato, anche di sguiscio, in questi anni la storia del teatro regionale, per sapere che Andrea Castelli è uno dei personaggi “della scena”, più interessanti, più apprezzati, più talentuosi, più simpatici. Eppure, io che di teatro mi nutro quasi quotidianamente, ancora non l’avevo mai intervistato. Così quando in una delle poche mattine soleggiate di questa uggiosa primavera mi trovo con lui a bere un caffè in un bar del centro, sono un po’ emozionata e molto felice. Pantaloni in pelle stile tirolese, sciarpetta un po’ orientale, qualche segnale di una fastidiosa allergia, Castelli parla con la sua voce decisa ma morbida, e io ascolto curiosa e affascinata.

Con Andrea, naturalmente parliamo dello spettacolo “Forse tornerai dall’estero”, di come è stato costruito, di come lui, il regista e tutta la squadra hanno lavorato sul testo, sul suo personaggio sui messaggi che lancia e sull’importanza dell’essere attore.
E ancora una volta i teatranti mi rapiscono, e mi confermano quanto il teatro sia prezioso, per tutti noi.

Andrea, a che punto siete del lavoro?

Direi che siamo a buon punto, sia con la preparazione tecnica (luci, scene, ecc) che con quella di noi attori. E già si vede uno spettacolo bello, mosso, originale, ben diretto e ben strutturato. Insomma, il giocattolino è pronto, ora si tratta di mettere quelle sfumature e quei ritocchi che si possono dare quando possiedi la materia con una certa sicurezza.

Mi incuriosisce sempre il legame attore-regista. Com’è andata con Leo Muscato (che ho già intervistato e si è detto soddisfatto del lavoro fatto fino a qui)?

Per natura rispetto sempre le gerarchie. Quindi di norma è il regista che mi deve dire cosa fare. Ma con Leo abbiamo provato un sistema che per lui è nuovo, e anche per me. Prima abbiamo letto le scene a tavolino e poi improvvisato quel che ne avevamo ricavato, sono uscite frasi e sfumature che testo aveva suggerito, che poi sono state trascritte per integrare il testo che altrimenti sarebbe stato più letterario che teatrale.

Da attore navigato, già avvezzo a mettere in scena storie, luoghi e persone del territorio trentino-altoatesino, come ti sei trovato con il testo di Andrea Montali, fortemente impregnato di “bolzaninità”, di una realtà che il pubblico in sala potrà riconoscere ed eventualmente criticare, con cognizione di causa, se non corrisponderà al vero che si aspetta?

C’è un paradosso teatrale a questo proposito. Io ho fatto diversi monologhi teatrali, come quello su Sinigo, e ho studiato la storia per raccontarla ai figli dei protagonisti veri, che la sapevano quindi meglio di me. Ho provato un certo imbarazzo da novellino a raccontare questa storia a chi l’ha realmente vissuta. Anche nello spettacolo sulle acciaierie di Bolzano è successa una cosa simile: i vecchi operai si sono commossi a sentire le storie che loro stessi ci avevano raccontato, che noi avevamo ri-lavorato per il teatro e poi ri-raccontato a loro. O ancora, nel monologo sulla tragedia del Cermis, quando ho recitato davanti ai parenti delle vittime. Io raccontavo e loro piangevano.

In questi casi si torna un po’ alle radici del teatro, nella sua funzione quasi religiosa. Nel caso del Cermis, mi sentivo come il celebrante di una funzione funebre. In fondo in queste situazioni sei un intermediario di storie.

Quindi, a prescindere dal dove e quando raccontato dalla storia, è tutta una questione di “tecnica attoriale”?

Io sono uno che tende sempre a nascondere la tecnica, sono fermamente convinto che l’attore serio non deve esibirsi, ma raccontare, essere. La tecnica è un lato che allo spettatore non interessa, devi nasconderla per raccontare bene la tua storia. Nel caso di “Forse tornerai dall’estero” la storia è più attuale e quindi – esulando da canoni e tecnica classica – va più immersa nella quotidianità, quindi ci sono aspetti di Bolzano e dei suoi ragazzi di tutti i giorni, con qualche slancio onirico nelle loro menti.

A questo punto, vorrei sapere chi è il tuo personaggio.

La mia parte è un po’ fuori, è difficile isolarla dal contesto di cui parlavo prima. Io sono l’alcolizzato, una sorta di Cassandra, nel senso che io certe cose le ho viste, ma i ragazzi non mi ascoltano perché sono un ubriacone. E così si perpetua questo giro della vita per cui le prediche dei vecchi ai giovani sanno un po’ di stantio, non sono credibili. Dentro di sé, con una certa amarezza, il mio personaggio fa questa riflessione: “io so come va a finire, la storia si ripete, ho visto il ‘68, ho visto morire le idee, gli anni delle bombe, i rivoluzionari che ora lavorano in banca diventare come quelli che allora contestavano, ma so che i giovani non mi ascolteranno”.

Questo vecchio, che poi così vecchio non è – ha 60 anni, perdio – vede le cose dal punto di vista della sua età, sapendo che se ora potesse tornare indietro, in certi tranelli non cadrebbe più. Ma è giusto che i giovani facciano le loro esperienza e ci mettano il naso. Bene, però il risultato è che siamo sempre lì. Ti immagini cosa sarebbe l’umanità se i giovani avessero sempre dato retta ai consigli degli anziani? Gli unici che ascoltavano gli anziani erano gli indiani d’America, e sappiamo tutti che fine hanno fatto…

1Ti ci ritrovi in questo personaggio?

Sì, mi ci ritrovo, certi ragionamenti li ho fatti anche io. Il regista me li ha fatti fare, a tavolino, chiedendomi “come lo vedresti tu questo personaggio?” Io lo vedrei abbastanza patetico, uno da giubbotto di jeans, camperos, un ex rocchettaro, magari pelato col codino, che vuol fare del giovanilismo patetico, che però cose le ha viste ma non è detto che se le racconta il giovane poi eseguirà. La guerra, ad esempio. Tutti partono con frasi roboanti, sull’eroismo, sulla patria. Poi quelli che tornano si accorgono di essere stati imbrogliati. Eppure, i giovani che vengono dopo, di guerra ne fanno un’altra perche devono capirlo loro che cos’è. Questa è la funzione del mio personaggio: essere inutilmente saggio.

Quindi, si torna alla questione del messaggio dello spettacolo, dell’intermediazione di storie, che vanno al di là del luogo in cui si svolgono. Anche perché, devo dire, che mi ha colpito il fatto che leggendo i romanzi di Montali, io non ho riconosciuto, pur da bolzanina, la città che lui racconta.

Abbiamo discusso anche di questo. La sua visione sembra a momenti anche senza speranza. Invece nel finale, ora, c’è una luce in fondo. Credo che questo sia necessario. Nello spettacolo Bolzano è riconoscibile, i luoghi sono strumentali, ma credo che il discorso che emerge sia universale. Cambiando i toponimi, lo spettacolo potrebbe essere ambientato ovunque.

Mandare, attraverso anche il teatro, dei messaggi ai giovani credo sia molto importante. Però, nella nostra società gerontocratica, dove i vecchi “inutilmente saggi” cercano di insegnare ai giovani il futuro e dove i giovani però faticano a trovare spiragli di espressione di sé, tutto questo sembra un inevitabile paradosso.

Montali questo lo ha isolato bene, anche perché attualmente i giovani hanno molti più problemi di quelli che avevamo noi che volevamo fare la rivoluzione, senza accorgerci che c’eravamo dentro, perché in quel periodo è successo di tutto, dei cambiamenti epocali. Penso alla musica o a tante altre cose. Adesso invece che c’è uno sbilanciamento in tutto. Vecchi e giovani si annullano un po’ a vicenda, ma resta il fatto che poi fuori dalla porta, sono loro – i giovani – che devono mettersi in gioco in prima persona.

Da spettatrice mediamente esperta, penso che uno spettacolo regala a noi in platea qualcosa. Mi chiedo però sempre cosa uno spettacolo nuovo regala a chi ci sta dentro. Ancora non si è aperto il sipario su “Forse tornerai dall’estero”, ma cosa sta regalando questo lavoro a Andrea Castelli?

Mi ha regalato la consapevolezza di una disinvoltura “attoriale” che può essere spinta un po’ più in là. Questo lo devo a Leo, il regista, che apprezza molto il contributo dell’attore. Non è un regista che pretende esecutori, ma che preferisce la collaborazione. Dopo che c’è stato questo fruttifero scambio di vedute, allora lui vuole che la pulizia, alla fine, torni a essere quella del copione. Prima dunque la costruzione dei personaggi, poi la verifica del copione con l’integrazione di stati d’animo, di frasi, di collegamenti. Questo lavoro maiueutico del tirar fuori è molto prezioso. Leo si è fatto un’idea del personaggio, noi attori un’altra, e quindi è bello che lui prenda in considerazione anche queste nostre visioni. E devo dire che non è sempre così. Una volta c’era il modello Strehler: “perché devo fare questo?” “Perché te l’ho detto io”.

Altri esempi di cose imparate “da dentro la scena”?

Carmelo Rifici, il regista con cui ho lavorato per “La rosa bianca” mi ha insegnato a nascondere la tecnica. “Basta – dice lui – con attori che parlano, camminano inciampano bene. Io voglio la verità sul palco. Voglio indecisione, imperfezione, voglio le sbavature della vita”. Ed è vero, quando parliamo sporchiamo, ci correggiamo, la vita è così. Questo è stato un grande insegnamento. Anche Roberto Saviano ha detto nel suo libro una cosa simile, che mi ha fatto impressione. “Quando in un film ammazzano qualcuno – dice Saviano –  è tutto spettacolare, invece quando ammazzano qualcuno davvero, è una cosa buffa per certi versi, crudele per altri, ma non c’è nulla di spettacolare”. L’attore che sta sul palco per avere è un esibizionista. Quello che ci sta per dare, è un attore.

Questo aspetto mi interessa molto. Noi ex studenti di storia del teatro, siamo stati “imbevuti” del “metodo Stanislavskij” (da wikipedia “metodo che si basa sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore. Si basa sulla esternazione delle emozioni interiori attraverso la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo”). Qual è invece il “metodo Castelli”?

Io il “metodo Stanislavskij” non l’ho mai applicato. Sono per una versione brechtiana mitigata dalla scuola italiana. A me piace osservarmi dall’esterno. Quindi estraniarmi ogni tanto senza mai cadere dentro personaggio, perché altrimenti perdi il controllo. Mi è successo una volta e ho pianto come un vitello, perché non ero più capace di fermarmi. Ero stanivslakianamente dentro. Ma preferisco uscire e guardare quel che sto facendo. È un po’ De Filippo un po’ Brecht. Insomma, ho fatto una roba mia. Non mi piace sentirmi un freddo tramite tra autore e spettatore, ma ogni tanto mi fermo, e mi chiedo cosa sto facendo.

Mi pare giusto. Entrare totalmente “dentro”, lasciando indietro se stessi, deve essere un processo anche doloroso.

Mamma mia se lo è! Con lo spettacolo sul Cermis, dovevo prendere il tavor. Cercavo di uscire, ma il testo e la vicenda erano talmente coinvolgenti… Alcuni attori – che da copione devono piangere – magari per 300 repliche piangono stanislavskianamente. È molto faticoso e molto doloroso. Allora, noi colleghi, ogni tanto dobbiamo dire loro “guarda che è per finta”.

Foto di Francesca Padovan e Fabrizio Boldrin

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