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April 17, 2013
Ernest Van der Kwast e Bolzano? Una struggente storia d’amore e la mela della concordia
Cristina Vezzaro
L’ombelico di Giovanna, uscito in Italia per ISBN Edizioni nella splendida traduzione italiana di Alessandra Liberati, è un libro molto bello, letterario, poetico; una storia d’amore scritta dall’olandese Ernest van der Kwast, già noto ai lettori italiani per il grande successo di Mama Tandoori.
Ernest, il tuo romanzo L’ombelico di Giovanna è un romanzo ambientato in Italia. Tra Lecce e Bolzano, in Alto Adige. Come mai questa scelta per te che sei olandese?
Ho vissuto quasi 8 anni in Italia, prima a Bolzano, poi a San Genesio. Penso che qualsiasi località possa ispirare uno scrittore, e dopo cinque anni in Italia ho iniziato a scrivere dei racconti sull’Alto Adige. Poi un giorno, alla stazione, ho visto che c’era un treno per Lecce; non sapevo dove fosse, ma l’altoparlante ha iniziato a elencare tutte le stazioni, mi sembra fossero addirittura 37! Ora, Trento, Verona… quell’elenco di nomi di città si trasformava man mano in poesia. Mi sono informato, e ho scoperto che ci volevano 13 ore per raggiungere Lecce, era probabilmente il viaggio più lungo che si potesse fare in Italia, paragonabile quasi allo Trans-Siberian Express tra Mosca e Vladivostok. Mi è sembrato molto romantico. Un paio di settimane dopo ho preso quel treno e mi sono messo in viaggio. A Lecce ho conosciuto della gente, sono stato a Ostuni, senza avere ancora nessun libro in mente; ma poi Lecce, come Bolzano, sono state fonti di ispirazione.
L’Alto Adige è una bellissima regione, ma quando si parla dell’Alto Adige si parla sempre delle montagne, delle diverse culture e lingue. A un certo punto ho iniziato a pensare che la gente avesse un vero e proprio complesso, un peso di cui non riusciva a liberarsi. Per questo mi è venuta voglia di parlare dell’Alto Adige in modo diverso, ambientando a Bolzano una storia d’amore anziché spargere sale sulle ferite e continuare a parlare sempre delle stesse cose.
Le pagine in cui racconti la storia dell’Alto Adige sono le pagine che tutti noi, da piccoli e crescendo, avremmo voluto avere sottomano per spiegare al mondo la particolarità della nostra regione. Che cosa ti ha portato ad analizzare con tanta precisione e passione questa particolare situazione?
È più facile farlo dall’esterno perché non c’è coinvolgimento emotivo. Quando sono arrivato a Bolzano non sapevo esattamente quale fosse la situazione, ma poi me ne sono accorto ben presto: sono rari i posti nel mondo in cui c’è il bilinguismo. Quando ho iniziato a chiedere quali fossero le ragioni storiche di quella situazione, mi sono accorto che non tutti lo sapevano, quasi fosse una ferita aperta, una realtà troppo difficile da affrontare; alcuni se ne vergognavano, persino. Allora ho iniziato a leggere e a fare un po’ di ricerche, ho letto anche altri romanzi che ne parlano, come Eva dorme, di Francesca Melandri. Poi ho cercato di considerarlo un fatto assodato su cui semplicemente costruire una storia letteraria che parlasse di amore, vecchiaia, malinconia.
Uno scrittore lavora naturalmente di fantasia, di immaginazione, ma ci sono anche spunti reali che aiutano moltissimo ad ambientare una storia, e la situazione bolzanina si prestava molto alla mia storia. Il romanzo racconta la storia di due persone anziane: Ezio, che ha lasciato la Puglia ed è venuto a Bolzano da giovane, vuole scoprire cosa è rimasto della risata di Giovanna, la donna che amava ma che non ne ha voluto sapere di lui; vuole farla rivivere, come nel mito di Orfeo, cercando di recuperare il passato. Naturalmente è impossibile, nessuno può farlo, né nel regno dei vivi né nel regno dei morti. Così ho pensato che iniziare quel viaggio a Bolzano e scendere fino a Lecce; iniziare il viaggio di giorno, con la luce, e finirlo di notte, al buio; iniziare un viaggio in montagna e finirlo al mare – fossero tutti elementi che ricordassero un viaggio simile a quello di Orfeo nel mondo interiore. Per questo la storia finisce con i protagonisti impietriti, quasi come due statue, perché non si sa cosa succederà: quando Orfeo si guarda indietro per vedere se è davvero Euridice a tenere per mano, come fa Ezio quando decide di voltarsi verso il passato e ritrovare Giovanna, viene infatti punito. Anche nel romanzo questa ricerca è un po’ un esperimento, perché non si sa bene quanto si possa riavvolgere la propria vita e che senso abbia farlo. Il tempo in fin dei conti cambia tutto: cambia i volti, l’aspetto, il comportamento, il carattere stesso.
A un certo punto del romanzo l’intreccio tra gli eventi del presente e del passato diventa appassionante a tal punto da far intuire quanto la vita di un uomo e una donna avrebbero potuto essere diversi “se solo”… E rispetto alla grandezza dei destini sembri contrapporre l’importanza dell’arbitrio, è così?
Quando ci si guarda indietro si può vedere la strada percorsa, ma quando arrivano i bivi non ne siamo solitamente consapevoli. Mi sembra che il fatto di potersi guardare indietro ma di non poter tornare indietro e cambiare le cose sia una delle tragedie della vita umana. Naturalmente nella finzione letteraria sappiamo tutto e lo scrittore può cambiare il corso degli eventi. Ma nella vita solitamente prevale l’orgoglio o semplicemente non si riconoscono i veri bivi, non si capisce quali sono i momenti decisivi e non si può quasi mai scegliere davvero.
Quando Ezio Ortolani lascia Giovanna Berlucchi e il suo amore per lei a Lecce, a Bolzano si mette a raccogliere mele. Nel brano in cui i suoi occhi interiori incontrano gli occhi interiori del contadino proprietario del terreno, aldilà delle barriere storiche, linguistiche e culturali, la mela, da peccato originale, si trasforma in possibilità di riconciliazione. Questo è un passaggio del libro particolarmente poetico.
I due protagonisti di quel passaggio, il contadino tedesco ed Ezio, l’immigrato italiano, sono talmente compresi nei loro ruoli che era necessario un elemento esterno per spezzare quella fissità, quella rigidità nelle opinioni e nelle convinzioni. Fare cadere la mela, che naturalmente è molto simbolica e rievoca la cacciata dal Paradiso terrestre, trasformandola in elemento di svolta positivo, di possibile punto d’incontro tra le due differenze, è a sua volta una scelta simbolica. La mela che cade spezza in un certo senso l’incantesimo e consente a entrambi di guardarsi con sguardo esterno e di chiedersi perché si stanno comportando nel modo in cui stanno facendo.
La vecchiaia, l’impossibilità di cambiare il passato sono temi di cui ti stai occupando attualmente?
Certo c’è molta malinconia nel mio lavoro, molta nostalgia del passato. In Olanda, insieme al libro sono stati pubblicati anche quattro racconti sull’Alto Adige, sempre uomini anziani che guardano al passato, quindi direi che è un tema ricorrente nel mio lavoro. Nel mio nuovo romanzo però, ambientato in Friuli, mi sembra che la malinconia assuma toni diversi, non sia più associata alla vecchiaia. Personalmente non guardo troppo al passato, però mi piace scrivere testi con quel sapore in bocca, con quei ricordi. Mi piacciono molto i libri con quel tipo di nostalgia.
Parliamo un po’ della tua esperienza bolzanina. Quando sei arrivato, che lingua hai imparato prima? Il tedesco o l’italiano?
Quando sono arrivato a Bolzano ho imparato prima il tedesco, perché ero ospite della contessa Toggenburg, che è sposata con un olandese. E poi ho conosciuto la mia fidanzata, tedesca anche lei. Certo poi ho frequentato anche la “Scuola della lingua” per imparare l’italiano, ma i due gruppi linguistici fanno vite separate a tutti gli effetti; riuscivo a parlare italiano solo con i camerieri, la gente nei ristoranti e nei bar, per il resto l’interazione tra i gruppi è davvero limitata. E quando siamo andati a vivere a San Genesio, dove il 95% della popolazione è tedesca, non parlavo praticamente più italiano. Ora che ci siamo spostati in Olanda, ci ho rinunciato del tutto. Penso però che sia un’ottima opportunità per gli abitanti dell’Alto Adige, che possono così imparare non solo due lingue, ma anche tutte le lingue affini, germaniche o romanze.
Che cosa ti è piaciuto più di Bolzano?
È un paradiso in terra. È quasi incredibile da quanto è bello. Ci sono 200 giorni di sole all’anno, mentre a Rotterdam l’inverno è lunghissimo, da ottobre a marzo ha fatto freddissimo. Con il bel tempo si può stare molto all’aperto e godersi la natura, che qui in Olanda manca e che a me invece piace moltissimo. E poi mi piace moltissimo l’influenza italiana, l’espresso al mattino, un ritmo di vita diverso, certo non quello siciliano di Noto, ma comunque più rilassato che in Olanda, dove corriamo sempre, forse perché piove tanto e non vogliamo bagnarci.
Che cosa ti è piaciuto meno di Bolzano?
La continua distinzione tra i due campi, le due parti, che si percepisce in ogni ambito della vita, persino durante i mondiali di calcio, che di solito uniscono gli animi! Ruota tutto attorno a questo: le discussioni riguardano la lingua, la ricerca si concentra sulla lingua o sulla cultura e se vivi lì alla fine stanca un po’ questa continua contrapposizione, anche perché la gente del luogo non ci scherza su molto, la prende piuttosto sul serio.
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Recita, a pag. 30, il libro:
“Il contadino ed Ezio rimasero uno di fronte all’altro. (…) Si guardavano in silenzio. Con sguardi di odio e incomprensione. E se avessero avuto altri occhi, anche con sguardi di dispiacere e rammarico. Ma ciò che una persona sente nel profondo raramente affiora in superficie.”
È a quel punto che una mela cade tra loro, e nonostante i loro occhi interiori seguano la scena con la loro storia fatta di soprusi o povertà o tristezza, alla fine Ezio raccoglie la mela e la porge al contadino, che gli sorride. L’incantesimo è così spezzato.
Al pari della mela, con L’ombelico di Giovanna, Ernest van der Kwast – che durante l’intervista parla indifferentemente di Alto Adige, Südtirol o South Tyrol – si inserisce come elemento esterno nell’eterna contrapposizione tra italiani e tedeschi, in una lettura che sembra offrire a tutti una possibilità di riconciliazione, per andare oltre lo sguardo interiore decennale che ci portiamo dietro e vedere che, al di là di tutto, c’è anche, e semplicemente, la vita.
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