Diario semiserio del musicista fuori sede #04. Il Festival nelle viscere

Diario semiserio del musicista fuori sede #04. Il Festival nelle viscere

Ancora una volta mi preparo a tornare a Bolzano. Valigia, spartiti, carica batterie e via, prima in conservatorio a studiare e poi diretto in stazione. Nessuna vacanza, questa volta, o meglio, la vacanza me la prendo io per un’occasione molto particolare: il Festival!
La mia testa è ancora là, la semplice idea di tornarci mi fa tremare le ginocchia, anche se sarò solo uno spettatore, anche se non sarò più un membro di quella scuola. Ma questo non limiterà il mio tifo, non porrà un freno al calo di dignità e soprattutto non mi impedirà di essere là a godermi lo spettacolo con le lacrime agli occhi. So già che dovrò sforzarmi per evitare imbarazzanti lacrime di nostalgia, ma d’altronde non si può resistere a quell’aria. Alle classiche soprattutto, per me. Il teatro saturo di persone, i rumori, i conti alla rovescia, l’immancabile Jump ad inizio serata, i video di apertura in cui urli non appena riconosci qualcuno della tua scuola (e taci imbarazzato quando compari tu invece), quella tensione folle, che riempie l’atmosfera di ricordi.

Tutte quelle volte in cui guardavi qualche esibizione e poi via dietro le quinte! Non si riusciva nemmeno a stare seduti composti, lo stomaco sobbalzava e ogni esibizione che vedevi era una in meno prima della tua. Quando due esibizioni prima vai dietro le quinte, crolli. Non sul palco, no, sul palco dimentichi tutto, dimentichi chi sei, dove sei, cosa stai facendo. Ma al contrario ti si fissano nella memoria tutti i dettagli, cose che non noteresti nemmeno nel pieno della tua lucidità. Nel mio caso ancora ricordo le luci, la posizione scomoda del pianoforte, il buio prima dell’esecuzione, la camicia a maniche corte di quando suonai Allevi facendo quasi un disastro, l’abito rosso di quando suonai Chopin, la prima volta che mi alzai da un pianoforte soddisfatto della mia esecuzione, l’abito nero e i capelli più corti di quando l’anno scorso invece fu la volta di Skrjabin e mi accomiatai da quel palco.
Diamine già solo scriverne mi fa tremare!
E non posso non citare quando invece sul palco ci sali non da solo, ma con amici, compagni d’armi che come te si preparano all’assalto, senza sapere se sopravviveranno fino all’alba. Quando sei in molti però è diverso. Se sei abituato a calcare il palco da solo, a stare dietro le quinte spingendo giù il cuore nel petto, perchè quello se ne sarebbe già andato da qualche minuto abbandonandoti al tuo destino, se sei abituato a guardarti fisso negli occhi allo specchio cercando qualche frase epica da dire (“Si va in scena”, “Mostragli chi sei”, “Ora è il tuo momento”, “Ammaccabanane”), se sei abituato agli occhi puntati su di te e alla tua scuola che urla il tuo nome, se sei abituato a tutto ciò, andare là sopra con degli amici diventa la cosa più bella del mondo. Non sei più solo. Ti trovi sul palco, guardi il chitarrista, il bassista, invochi qualche divinità misteriosa, stringi un patto con il diavolo cedendo la tua anima per non fare troppi pasticci e inizi. Ma il panico lascia spazio subito all’enorme divertimento del suonare insieme, del condividere quell’emozione che quando sei solo il tuo animo non riesce quasi a contenerla, del sapere che dieci anni dopo quell’esibizione magari ti ritroverai al bar con quei musicisti e ancora ti cederanno le gambe ricordandolo.
No, miei cari sparuti lettori, il Festival non si dimentica. Forse dagli anni prossimi, quando ormai sempre meno persone che conosco parteciperanno, metterò altre priorità rispetto al fare pazzie come quest’anno, saltando una settimana di lezioni, ma tornando giù a Padova per il mio primo consiglio accademico, per poi salire di nuovo e farsi le moderne. Ma quest’anno lasciatemi godere come un bambino quell’aria magica, il rievocare fra brividi e accenni di lacrime cinque anni di superiori, tanti sogni e tante emozioni, così tanti ricordi legati a quel mondo, a quelle persone, tutto quanto ciò che ti ha potuto insegnare, dal gestire l’emozione all’organizzarsi le prove, dal far fronte a tutti gli imprevisti che nemmeno fra i cartellini del monopoli li trovi al sorprendersi quando ti rendi conto che non te ne frega niente se la chitarra s’è rotta, se il microfono non funziona, se la luce è sbagliata, riesci, emergi e trionfi.

Già solo scrivere questa pagina di diario, che con la vita di un musicista fuori sede ben poco ha a che vedere, ma ne ha molto con la vita di un bolzanino fuori sede, mi ha sconquassato.
Temo davvero per la mia salute quando mi troverò lì davvero.

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