The Crazy Crazy in arrivo al Pippo. Ethno-industrial-post-punk, disco dell’anno?

Percussioni scorticate e asciugate al sole grigio di una periferia del Terzo Mondo, disturbate da frequenze aliene provenienti da un’era sconosciuta. Parte, ben scandito, un mantra secco ed enigmatico: “Sebele popolo è canto mediatico / Sebele popolo è un moto serafico / Sebele popolo è un mantra catartico / Sebele popolo è canto medianico”. Il pezzo esplode, quindi, in un gorgheggio sciamanico di un oscuro rituale misterico, per poi invilupparsi in una liquida e dilatata coda ethno-spacey. Questo è “Sebele”, primo singolo estratto dall’album “Urna Elettorale”, nuova fatica discografica del trio bolognese The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik. Un pezzo che interpreta bene l’attitudine dell’intero lavoro, stratificato e diretto, cerebrale e istintivo, ricercato ed essenziale, contemporaneo e rock. Un lavoro che nel complesso fa centro pieno, convince ed emoziona, inserendosi con originalità nel solco del necessario movimento di recupero dell’esplosiva creatività post-punk/new wave, portato avanti in Italia da band come Offlaga Disco Pax e Management del dolore post-operatorio. È presto per parlare di disco dell’anno? A pochi giorni dalla pubblicazione del nuovo album, il combo bolognese sbarca al Pippo Stage (venerdì 29 marzo, ore 21) per una delle date del lungo tour che lo porterà a calcare i palchi di tutta Italia. Abbiamo scambiato due parole con Matteo Dicembrio, cantante e tastierista del gruppo.
“Urna Elettorale” arriva quasi 3 anni dopo “Are You Crazy or Crazy Crazy”. Un lungo tour in mezzo e cos’altro? Come siete arrivati al nuovo lavoro in studio?
Dopo il lungo tour a supporto del nostro primo album, abbiamo pubblicato il terzo album del nostro progetto parallelo Eveline. Anche per questo progetto abbiamo sostenuto circa 80 concerti tra Italia ed Europa a supporto dell’uscita. Si può dire che il nuovo disco dei Crazy Crazy sia nato on the road, le idee di massima erano già presenti nelle nostre teste, abbiamo solo dovuto arrangiarle e registrarle.
Dal punto di vista musicale, “Urna Elettorale” gioca di sottrazione, puntando all’essenziale. Penso che questo sia il frutto di un lungo lavoro di gruppo e di un’intesa profonda tra i componenti. Come lavorate in fase di composizione dei pezzi?
Noi componiamo i nostri pezzi in piena democrazia. I pezzi sono scritti, arrangiati ed eseguiti a tre, compresi i testi. In genere partiamo da una serie di idee di base, poi sviluppate in lunghe improvvisazioni in sala prove. Le impro poi vengono successivamente riviste, riarrangiate ed ordinate. Una volta sistemato il materiale abbiamo poi registrato più sessioni al Locomotiv di Bologna con Lorenzo Loz Ori (sound engineer di Massimo Volume, A Toys Orchestra e altri), fino al risultato finale.
La matrice di fondo rimane il post-punk, però emergono sempre forti le aperture etniche, elettroniche, ambient, industrial, noise, folk, blues… Vengono in mente nomi come PIL e Pop Group, ma anche i Talking Heads. Rientrano nella vostra genealogia artistica?
Sicuramente sì, il mondo post punk è sempre stato tra le nostre influenze. Anche se in questo album le matrici elettroniche ed etniche, almeno per noi, si sono prese nettamente il centro della scena. Gli scheletri dei pezzi si reggono su elettronica e percussioni. Il nostro lavoro è partito da lì.
Le “derive etnografiche” non sono mai pure e di maniera, sono sempre innestate in un’estetica contemporanea tutt’altro che solare e pacificata, potremmo dire post-industriale. Che significato ricoprono queste nella vostra poetica? Mi pare non rappresentino mai una fuga dalla realtà, non si tratta mai di mero “esotismo”.
Dici bene e ci fa piacere tu l’abbia notato. Il primo album poggiava su un approccio più giocoso, anche se certe tematiche erano già presenti e ben approfondite. In questo il taglio è più descrittivo e le tensioni raccolte durante i nostri tour dovevano essere ben spiegate ed approfondite. Per questo non c’è nessuna fuga dalla realtà, tutto vero.
Dal punto di vista tematico, c’è un riferimento forte all’Italia contemporanea, in “La nona rivoluzione” ad esempio l’analisi è impietosa. Qual è la diagnosi e qual è la prognosi?
Il titolo e la copertina dell’album sono tratti da una foto che abbiamo scattato a Napoli, prima di un concerto. C’era immondizia ovunque e su un cassonetto che abbiamo incontrato per strada compariva la scritta “Urna Elettorale”. La foto è poi stata trasposta su carta dall’artista Gianni De Val. Quello che vogliamo passare non è un messaggio antipolitico, ma un’analisi di quello che abbiamo incontrato per strada parlando con la gente. La bolla di sfiducia è assolutamente viva e presente, anche dopo le recenti elezioni. Ci è sembrato doveroso descriverla con parole nostre.
Meravigliosa la rilettura di “Live in Punkow” dei CCCP, spettrale, ipnotica. Risultato di una conoscenza profonda dell’opera di Ferretti e compagni, è così?
Crediamo che nulla come la frase “Europa persa in trance” usata dai CCCP in “Live in Punkow” possa descrivere al meglio lo stato in cui versa attualmente il nostro paese. In generale poi, crediamo che i testi di Ferretti restino ancora oggi uno dei punti massimi raggiunti dalla produzione culturale italiana. L’importanza dei CCCP sul nostro lavoro e sul panorama musicale italiano è indiscutibile. Quindi sì, è così.
La chiusura di “E’ tempo di..,” stupisce e spiazza per l’atmosfera sognante, rilassata e luminosa, fa quasi l’effetto di un lieto fine: la ritrovata serenità dopo un “bad trip”, la visione rincuorante di una possibile via d’uscita?
“E’ tempo di…” non è un lieto fine, tutt’altro. Abbiamo scelto un’atmosfera sospesa e sognante per descrivere l’argomento dell’emigrazione. Il testo è ispirato ad una canzone partigiana in cui si parlava della bellezza del partire (inteso come viaggio verso la lotta per i propri ideali) ma anche della sua tristezza (l’abbandono della famiglia e delle persone care e la possibilità di morire sul campo). Ci sembrava un bel modo per descrivere l’attualissimo fenomeno dell’immigrazione, carico di speranze, ma anche di grande tristezza. Un modo per parlarne a modo nostro, visto che proprio in campagna elettorale se n’è parlato così poco.