Il caso Schwazer tra Forrest Gump e Good Will Hunting

Se uno corre, insegna Forrest Gump, fermarsi può essere un problema. Se a quella corsa, poi, sono legati talento, successo, ambizione, aspettative, volontà di non deludere, desiderio di stupire… la prospettiva di fermarsi, anche solo per respirare, per guardare il cielo, regalarsi un gelato, una passeggiata con la ragazza, può rappresentare un problema enorme: qualcosa di impossibile, di impensabile. Fermarsi equivale, giunti a quel punto, a scomparire. Infatti qualcosa, in quella testa, si era rotto. Un tarlo aveva iniziato a scavare e a scavare senza sosta. Queste migliaia di centimetri di asfalto che ogni santo giorno della mia vita percorro fino a consumare le suole, in che misura corrispondono alla mia felicità? Marciare, marciare, marciare, senza mai perdere il contatto con il terreno, ma perché, per chi?
Quando domande come queste si affastellano nella mente, tecnicamente si parla di burnout. Le persone vicine, a quanto pare, non avevano compreso il dramma che si stava consumando in quella testa. Le gambe giravano sempre che è una meraviglia, ma la testa? Nessuno si accorse di nulla e lui non fu in grado di dire niente. Le prestazioni, i minuti, i chilometri, erano il solo metro di giudizio di un’esistenza consacrata alla competizione. Di una vita schiava del riscontro cronometrico. L’ossessione dei successo, feticcio per amici e parenti e tifosi e giornalisti ed esperti, alterava qualsiasi giudizio obiettivo sullo stato di salute del ragazzo. Allenatori, preparatori atletici, dirigenti sportivi, tutti proiettati verso l’ennesimo exploit. Verso il prossimo grande gesto atletico. Fieri dell’enorme talento che avevano per le mani.
“Se la centralina funziona, posso vincere qualsiasi gara”, ha detto Schwazer l’altra sera in tv. Ha usato il temine centralina per riferirsi a quel groviglio di pensieri, emozioni, istinti e desideri che si proietta, ogni giorno, dentro la sua scatola cranica. E questo la dice lunga su come ragiona un atleta imbevuto di fondamentalismo agonistico. Un’idea terrificante, avulsa dalla realtà umana, che riduce la verità di una persona al funzionamento di una caldaia. Un’idea malsana che uno psicologo serio avrebbe dovuto estirpare da tempo. Perché inquadrare la propria esistenza dentro a uno schema di quel tipo non può che portare, alla lunga, ad effetti rovinosi.
La via d’uscita è stata, infatti, l’auto-boicottaggio. Drogarsi per essere sbattuto fuori da quella folle corsa, finalmente libero dalla schiavitù di un talento fuori dal comune e da tutto il circo che vi si agitava attorno: è questo, insomma, quello che mi pare di aver capito dalla bella intervista di Alex Schwazer a “Le Invasioni Barbariche” di mercoledì scorso. Ho capito che l’atleta che si dopa per sette anni per vincere sette Tour de France è un’altra storia. Quella una storia di truffa, pianificazione e furbizia, questa di paura, solitudine e angoscia: un po’ come quella raccontata da Gus Van San in Good Will Hunting. Questa differenza non credo possa costituire un’attenuante per la giustizia sportiva, molto severa nel caso di Schwazer. Penso, però, possa costituire una differenza sostanziale nella formulazione di un giudizio comprensivo sul comportamento, ugualmente stupido e sbagliato, dell’atleta di Vipiteno. E questo, a me, non pare poco.