“Italianesi”, Saverio La Ruina: “Quanto dolore dietro a un’identità negata”

29.01.2013
“Italianesi”, Saverio La Ruina: “Quanto dolore dietro a un’identità negata”

Nascere in un luogo sapendo di non appartenervi. Parlare una lingua sapendo che non è la propria. E poi, tornare nel luogo e alla lingua d’origine, senza potere, ancora una volta, sentirli come propri. Un destino amaro, una lacerante privazione dell’identità, un tradimento grande e insormontabile. Questa è la triste storia degli “italianesi”, raccontati da Saverio La Ruina. Italiani in Albania, albanesi in Italia, queste persone hanno vissuto per un tempo immenso  in un interstizio dimenticato della storia, costretti nei campi in Albania, accolti malamente in Italia quando finalmente hanno potuto farvi ritorno. Sui libri questa storia non esiste, è tristemente trasparente ai nostri occhi, eppure, l’Albania è così vicina, e viene da chiedersi come tutto questo sia stato possibile. Saverio La Ruina, raffinato attore e autore teatrale, porta sul palcoscenico (mercoledì 30 gennaio a Bolzano e venerdì 1 febbraio a Trento) le storie di queste persone, dando loro voce e raccontando in pochi attimi teatrali, anni e anni di vita di tanti. Un lavoro delicato e attento, quello di La Ruina, che racconta di anni di lavoro sul tema, di indagini profonde, a livello storico e umano.
Così parte a Bolzano la rassegna “Altri Percorsi” del Teatro Stabile, che come ogni anno apre a tutti noi spiragli sui linguaggi e sui modi altri di fare teatro. Quest’anno in tandem con Arte della diversità, gli Altri Percorsi indagano l’universo magmatico dei dimenticati, del diverso, dell’altro da me, che grazie al linguaggio teatrale diventa potentemente “cosa anche mia”.
Partendo dal dramma dimenticato degli Italianesi, passando per molte altre storie toccanti, un percorso nel teatro e nella vita, grazie anche ai migliori autori e interpreti del teatro di oggi. Inutile dire che si tratta, partendo da questo di La Ruina, di spettacoli da non perdere.

Ed ecco l’intervista, densa e intensa, che abbiamo fatto a Saverio La Ruina.

Saverio La Ruina, quella che lei racconta è una storia tristemente dimenticata. Come ne è venuto a conoscenza?

Ho saputo di questa storia in modo banale, ascoltando una trasmissione nazionalpopolare di Alda Deusanio. Mi sembrava una cosa assurda, pensavo fosse romanzata, impossibile pensare che fosse successo davvero, così vicino a noi. I racconti di uno dei “protagonisti” di questa vicenda mi hanno toccato, così mi sono iscritto al forum del programma, ho cercato questa persona, le ho scritto, senza avere risposta per 4 mesi. Poi la risposta è arrivata, sospettosa dubbiosa. Ho cercato di spiegare che ero stato colpito profondamente, che ero un teatrante e che volevo approfondire questo tema e forse pensare ad una trasposizione scenica. Pian si è sciolto e aperto, ci siamo incontrati, ho conosciuto altre persone vittime della stessa sorte.

Una volta capito e conosciuto, perché ha deciso di farne uno spettacolo teatrale?

Sono stato colpito da alcune cose di questo tema che sono enormi. Questa gente è sta per un periodo immenso intrappolata, internata in campi di prigionia. Certo ci sono situazioni peggiori, l’olocausto i campi di sterminio, però in questa storia la cosa terribile è il tempo: alcuni ci sono rimasti per 40 anni e oltre. Una persona che nasceva lì, innocentemente, non poteva scegliere, era la storia a determinare la sua situazione, doveva crescere lì totalmente privato del libero arbitrio. In una situazione simile il cervello si atrofizza, non potevi decidere nemmeno di andare in bagno senza permesso. Dunque mi sono chiesto, cosa succede a una persona che vive così per 40 anni e poi gli si dice “sei libero”? Quanto conta il valore della libertà, che noi diamo scontato? Questo era un tema che mi interessava.

La libertà, un tema enorme. Altri spunti che l’hanno motivata a proseguire in questa impresa?

Per me era importante il tema dell’identità. Questa gente dimostra un amore per la patria enorme, la mitizza, con un patriottismo che noi “italiani” non riusciamo a vivere, anzi, l’Italia ha oggi grandi problemi a riconoscersi in un sentimento nazionale. Dunque è stato un modo per guardare all’Italia con uno sguardo esterno, ma comunque di italiani. La maggior parte di queste persone sono figli di italiani, con un cognome italiano e hanno vissuto a lungo nel sogno dell’Italia. Sono nati in Albania, parlano albanese, e sono stati rimpatriati nel ’91, insieme all’ondata di albanesi in cui veniva risaltata soprattutto la criminalità. Dunque, pur da italiani hanno avuto un’accoglienza negativa. Si sono sentiti traditi, finalmente facevano ritorno nell’eden tanto sognato, la patria, e invece la loro identità è stata negata. Un’identità, che tocca la radice profonda e la sostanza della persona, se non ce l’hai. Sono temi che mi hanno sempre toccato. Mi stupisce quanto si possa amare la madre patria. Quanto è importante avere radici, per chi non le ha, e quanta fragilità e dolore lancinante si prova quando questa è negata. Inoltre questo sradicamento è un problema anche tutto italiano, per tutti i figli di immigrati, che sono nati qui, che parlano italiano, ma che non sono considerati italiani, a volte per sempre. Ritengo che tenere le persone in questo limbo identitario sia folle.

1Ha portato lo spettacolo anche lì dove “successe il fatto”, in Albania. Quali reazioni ha avuto?

Facendo lo spettacolo in Albania, ho trovato un paese italiano, dove le persone parlano italiano, ci sono italiani mai rientrati a casa anche se avrebbero potuto. Non l’hanno fatto perché sapevano cosa avrebbe potuto aspettarli a casa, o perché lì, in Albania hanno creato situazioni affettive da cui non staccarsi. La reazione del pubblico è stata forte, ci sono stati applausi liberatori, la tensione era palpabile, l’aria si tagliava con il coltello.

Quanto ha lavorato a questo progetto, prima della prima apertura del sipario?

Ci sono voluti 2 anni. La materia è enorme, labirintica. Essendo un teatrante, ho lavorato anche di fantasia, e a volte mi bloccavo perché questa materia che mixa storia e microstorie, non era semplice da trattare, senza perdere nulla. E dovevo riuscire a concentrare in poche battute “teatralmente valide” una storia che magari occupava 15 pagine.

Crede sia importante che il teatro si infili in questi interstizi della storia, per renderli noti? E in che modo il teatro può raccontare temi del genere?

La materia è delicata, con un lavoro del genere si entra dentro la storia, ma si usa anche la fantasia propria del teatro, dunque tutto deve essere verificato. Serve essere molto rispettosi. Quello che mi motiva fortemente a lavorare su questo tema – che è diventato poi un compagno di vita per anni – è lo slancio emotivo forte. Certo è che il mio lavoro è fatto di linguaggio teatrale: in una frase devi dire il tuo concetto, ma poi ci lavori ancora per settimane, perché quel concetto deve avere da un lato l’efficacia teatrale e dall’altra deve veicolare il tuo messaggio. Non basta trattare un tema importante per fare teatro importante. Alla fine di tutto, è il linguaggio teatrale che eleva o affossa il messaggio – importante o meno che sia – che vuoi portare allo spettatore.

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