People I know. Manuela Baldassarri, il flamenco per vivere meglio
Mentre in questi giorni natalizi si aspetta la neve, i freddi più rigorosi, e l’arrivo sul calendario dell’inverno “vero”, sentir parlare di “tablao”, “bailaòras”, “cante” e “aficionados”, fa piacevolmente andare la mente verso luoghi più caldi, dove l’aria è rossa e rovente, le persone piene di passioni forti e travolgenti, e la musica struggente e appassionata avvolge ogni cosa. Questo è il flamenco, questa la Spagna “caliente”, questo il mondo di Manuela Baldassarri, 33enne nata in Svizzera, che dal 2003 vive e lavora a Bolzano, dove insegna con entusiasmo e dedizione questa danza tradizionale. “La Malita” è il suo nome d’arte, e proprio come il flamenco, il solo suono di questa parola, descrive Manuela e la sua essenza, libera, appassionata, determinata. Forte ma delicata nei tratti, Manuela incarna, pur venendo dal nord (ma la famiglia ha origini marchigiane), la bellezza tipica della danzatrice flamenca, dagli occhi caldi e fieri, le mani mobili e morbide, i piedi decisi, a tenere il ritmo incalzante di una vita completamente dedicata all’inseguimento di una passione totalizzante. È il flamenco, signori, passione pura. Come Manuela.
Vive a Bolzano ma non è di Bolzano. Cosa la tiene qui?
Il mio lavoro mi porta a viaggiare molto, soprattutto in Spagna. Dunque la sensazione è di non avere una casa, ma molte. E in effetti è così, ho la fortuna di poter vivere in più posti contemporaneamente e in ognuno trovare una sorta di “famiglia” che mi aspetta e mi accoglie con tutto l’affetto possibile. Per il momento ciò che mi tiene qui è la sensazione che a Bolzano ci sia ancora molto da fare. Incrementare la divulgazione del flamenco in Alto Adige è diventata per me una specie di missione. Me ne andrò quando sentirò che ciò che dovevo fare qui sarà compiuto.
Lei ha vissuto in Svizzera, terra trilingue. Quali le similitudini e le differenze con il trilingue Alto Adige?
Quando sono arrivata qui ero già abituata al mix di culture. Anche in Svizzera questo porta da una parte a un interessante scambio, a un arricchimento generale per tutta la popolazione, che gode dei lati positivi di una e dell’altra mentalità. Dall’altra parte porta però anche tensioni e la tolleranza tra la gente a volte è al limite. Dalla mia esperienza ho percepito che il popolo altoatesino, in confronto a quello svizzero, è comunque più aperto, ha più voglia di svago e ha sicuramente più senso pratico. L’arte dell’arrangiarsi non è propriamente una caratteristica del popolo svizzero, che abituato al lusso e alla comodità, facilmente viene messo in crisi davanti a minimi cambiamenti. Per quel che riguarda la cultura, mi sembra che sia svizzeri che altoatesini, educati e rispettosi, apprezzino e sostengano tutto ciò che viene fatto con qualità e attenzione. Per questo noi artisti amiamo il pubblico dei “vari nord”.
Perché e quando è nata la passione per il flamenco?
Quando: circa dieci anni fa, dopo un viaggio in Spagna dove ho potuto conoscere questa splendida forma d’arte appartenente a un popolo diverso ma al contempo simile al nostro. Il perché invece è difficile da definire, ancora oggi trovo nuove risposte. Chissà se alla fine di questo percorso saprò davvero perché proprio io e perché proprio il flamenco. Però, in fondo, ho scelto per esprimere me stessa il “baile” flamenco perché condivido il suo forte senso di libertà – dagli schemi, dalle catene – e il bisogno di autenticità. Questo la rende la migliore forma che potessi incontrare per arrivare ad avere una vita professionale coerente con la mia vera natura, sincera e umana, passionale e romantica.
Il flamenco è la danza tradizionale di un paese molto lontano dall’Alto Adige. E molto più caldo, in tanti sensi. Come è percepito qui?
È percepito esattamente per ciò che è, una danza piena di passione, orgoglio, forza ed energia pura. E il calore che emana non può che incantare chi vive in luoghi dove il clima, e non solo, sono piuttosto freddini. In generale, è vero che la gente del nord è più fredda, ma questo non vuol assolutamente dire che dentro queste persone non ci sia il il desiderio di calore e di relazioni umane, anzi è il contrario.
In che modo, secondo lei è importante per noi altoatesini preservare le nostre tradizioni?
È importante per tutti i popoli, e in questo noi italiani non siamo certo un buon esempio. Io stessa promuovo una cultura che appartiene a un altro popolo, perché le generazioni precedenti non mi hanno trasmesso la nostra tradizione musicale e popolare. Cosa che invece sta molto a cuore agli andalusi. Dovremmo prendere esempio. Per preservare le tradizioni bisogna trasmetterle e farle conoscere alle nuove generazioni, prima di tutto all’interno della famiglia, e poi con l’organizzazione di festival ed eventi aperti a tutti. Nelle valli forse è ancora un po’ così, ma è nelle città che manca questa mentalità.
Ha mai provato la danza locale?
Purtroppo la mia carriera nel flamenco non ha lasciato fino ad ora spazio allo studio di nessun’altra disciplina. Ma spero, in futuro, di essere più libera e allora, perché no….
Pubblicato su “Corriere dell’Alto Adige” del 18 dicembre 2011