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October 3, 2012

People I know. Karin Comploi: una vita offshore sulle piattaforme in mezzo al mare

Anna Quinz

Karin Comploi ha 32 anni, è nata e cresciuta a Como, ma ha passato l’adolescenza a Bolzano, città che considera “casa”. Ha studiato ingegneria chimica industriale a Milano, ha lavorato a Ravenna, Londra, Dubai. Oggi vive a Jakarta, in Indonesia, e lì è ingegnere progettista di impianti di produzione Oil & gas per l’Eni. Fin da ragazzina, per carattere e loquacità, Karin sembrava essere destinata a fare l’avvocato. Ma poi, la scoperta della chimica e la passione per essa, l’hanno portata a fare ciò che fa, ad interessarsi di petrolio, a lavorare in mare, nei cantieri, sul campo, insomma. Spiegare i dettagli del suo lavoro non è semplice per un profano, ma ascoltandola appare chiaro che per Karin, oltre che essere una professione da svolgere al meglio, è prima di tutto, una vocazione.

Lei lavora in cantiere e in offshore, può spiegare di che si tratta, e perché le piace?

Quasi tutti siamo ingegneri perché ci piaceva giocare col lego! È quindi emozionante di vedere qualcosa che era solo un disegno, diventare un impianto vero e proprio. Il cantiere significa questo. L’amore per l’offshore è nato inatteso ma profondissimo dal primo momento. A Ravenna ero nel gruppo che si occupava dei nuovi progetti di sviluppo dei campi in mare (appunto offshore). Normalmente i processisti (ingegneri chimici o meccanici che si occupano di definire i processi necessari per ottenere dal fluido che arriva dai pozzi, un prodotto secondo specifica di vendita) non amano l’offshore. Io invece mi sono innamorata delle difficoltà che comporta. È un gioco di strategia: devi aver ipotizzato i problemi per essere in grado di risolverli, altrimenti è già troppo tardi.

Vive in un luogo lontanissimo. Come è stata accolta dalla gente del posto? Si sente integrata?

Le persone del posto sono fra le più cordiali e ospitali che si possano trovare sul pianeta. Ma l’integrazione è un’altra cosa. Le barriere culturali sono troppe. Un esempio: in Indonesia circa l’86% della popolazione è musulmana. Nonostante questo sono riconosciute altre 5 religioni e vi è un profondo rispetto per tutte. Un’altra cosa molto sentita è la suddivisione in classi sociali. Tu, come expat (espatriato), sei considerato di una classe altissima, quindi diverso dalla maggior parte di loro. Quando racconto che a casa faccio fatica a pagare il mutuo, pensano che scherzi. Non ultima è la difficoltà di comunicazione. Non parlo solo della lingua, che ovviamente non aiuta. Parlo del loro modo di essere. Per cultura cercano di non farti rimanere mai male. La prima cosa che devi imparare in Indonesia è che SÌ, non necessariamente vuol dire sì.

Cosa ama di Jakarta? Quali le prime impressioni quando è arrivata?

Si sente di essere al centro del nuovo mondo. Sono in crescita, una crescita talmente veloce e impressionante che non sono in grado di gestirla. Noi veniamo da un mondo agonizzante e in crisi. Appena ti sposti da Jakarta (città bruttarella) ti ritrovi in mezzo a paradisi incredibili. Purtroppo però vincono le brutte impressioni: hanno un paradiso che non meritano. Un esempio: non hanno la minima cultura di gestione dei rifiuti. La gente accumula e brucia l’immondizia in giardino o la butta dove capita, mare compreso. E ti trovi a fare il bagno in una delle più belle barriere coralline al mondo, nuotando tra tartarughe e sacchetti di plastica!

Da donna, com’è l’ambiente lavorativo?

Diciamo che era difficile complicarmi di più la vita. Lavoro come ingegnere dell’ Oil & gas, ambiente da sempre estremamente maschilista, per una società italiana e quindi di mentalità ancora conservativamente misogina. Per scelta ho deciso di occuparmi di realizzazioni. Il cantiere non è esattamente un ambiente per signorine, men che meno offshore. A Dubai eravamo 3 donne in un cantiere di oltre 200 persone. Offshore sono stata per 2 mesi l’unica donna a bordo dell’equipaggio. Non è sempre facile. Soprattutto quando sei in una posizione gerarchicamente superiore e nascono attacchi biechi per minare la tua credibilità. Credo che per accettare tutto questo serva essere caratterialmente portati: devi sapere esattamente chi sei e deve importarti poco del giudizio degli altri, quando così superficiale. Incredibilmente comunque, i maggior problemi di accettazione li ho avuto in Italia o con gli italiani, piuttosto che qui.

Le manca l’Alto Adige? Cosa in particolare?

L’alto Adige mi manca da sempre. Da quando ero semplicemente a Milano. Mi mancano le mie montagne, i prati del Talvera, poter girare in bicicletta, i miei amici d’infanzia, la qualità di vita. Ora poi che abito in una città dove è impossibile camminare (non ci sono marciapiedi), in bici rischi la morte e c’è un tasso di smog impensabile, tutto ciò mi manca ancora di più.

Quali prospettive per il futuro? Restare, andare?

I prossimi due anni li passerò qui. Se non avessi una famiglia che mi reclama, continuerei a girare, scoprire, mettermi in discussione in posti nuovi. Ma non siamo isole, quindi è una discussione che dovremo affrontare io e mio marito nel prossimo futuro. Sicuramente ho la fortuna di fare un lavoro che continuerà a portarmi in giro, magari per intervalli più brevi, anche se dovessi rientrare in Italia. Incatenata a una scrivania non mi ci vedo proprio!

 Pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 30 settembre 2012

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