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September 24, 2012

People I know. Chiara Visca e i suoi modi diversi di fare teatro

Anna Quinz

Il teatro si può fare in tanti modi. Chiara Visca, 34enne bolzanina – un viso aperto e sempre pronto alla risata, una voce che svela la sua professione e un corpo morbido e aggraziato che riempie consapevolmente e intensamente lo spazio circostante – ha trovato il suo modo di fare teatro, divenendo attrice a tutti gli effetti. Ma non pensate all’attrice sul palco, con costume di scena, fari puntati e uno Shakespeare mandato a memoria. Il suo percorso, in partenza, è quello tradizionale, dopo il diploma, infatti, Chiara entra in una delle più prestigiose scuole teatrali d’Italia, la Silvio D’Amico di Roma, dove si immerge nel più accademico dei percorsi, lavorando a stretto contatto con i grandi mostri del teatro. Nel frattempo, la notte, con un gruppo di amici e colleghi, crea un piccolo progetto indipendente, e poi frequenta per 6 mesi la scuola UDK di Berlino, “per recuperare le due anime sudtirolesi”, racconta. Ma Chiara, oggi, lavora con il teatro antropologico, il teatro di viaggio e di contatto, il teatro come mezzo per entrare in relazione e per conoscere diverse realtà e culture, portato negli angoli dimenticati del mondo, per costruire piccole esperienze umane, prima che artistiche. E poi, lo storytelling, una sorta di teatro zero, dove si raccontano storie all’impronta, e dove “sei molto nudo, senza sovrastrutture”, dice. Ecco, questo è il fare teatro di questa donna del mondo, ancora non troppo in pace con la sua Bolzano, ma in pace con le persone che la circondano e con il fare teatro, che può essere, se lo si desidera, prima di tutto una chiave fondamentale di contatto con il reale, anche quello più duro. Ma, racconta Chiara, un naso rosso da clown, apre tutte le porte, e lei di certo quel naso e quella chiave, le porta sempre con sé.

Chiara, come è arrivato il teatro nella sua vita? Le piace quel che fa? Che ingerenze ha, nella sua vita privata, l’essere attrice?

Ho iniziato, come molti, al festival studentesco. Ma “da grande” volevo fare la veterinaria, così ho lavoricchiato per un po’, facendo di tutto, presso uno studio. La dottoressa però mi ha consigliato di andare a fare altro e così… se mi piace quello che faccio? Si e no. Al mio livello il teatro non è arte, ma artigianato, un mestiere che dopo anni padroneggi e che ti permette di sviluppare un sistema per raccontare e leggere la realtà. Però rimane il mio lavoro, e lo tengo molto separato dalla vita privata.

Con il suo gruppo di teatro, prima in Brasile e poi in Africa, per progetti forti e importanti. Può raccontare qualcosa di queste esperienze?

In brasile lavoravamo con un popolo indigeno che si sta estinguendo, concentrandoci sul tema del suicidio infantile. Laggiù credono che dopo la vita c’è la terra senza male, e così se suicidarsi non è considerato un’onta. Con loro, abbiamo fatto il primo tentativo di usare il teatro di gruppo e la clownerie per arrivare alla conquista della fiducia dell’altro. Un’esperienza forte e bellissima, ma anche dura, perché quando sei lì, sai che non costruisci case né pozzi e riparti con il senso di essere stato solo una goccia nel mare. Siamo tornati più volte, ma poi – noi viaggiamo sempre in gruppo – la gente del posto ci ha detto che con i soldi con cui pagavamo i biglietti aerei, loro potevano vivere 2 anni e così abbiamo capito che questo tipo di intervento deve arrivare, portare un momento magico e sparire cercando però di lasciare un segno indelebile. In Malawi dunque, siamo stati una sola volta. Lì ci era stato chiesto di fare prevenzione all’hiv. Il nostro spettacolo è stato replicato 30 volte in 28 giorni, e per vederlo arrivava gente da tutti i villaggi vicini.

Cosa le hanno lasciato, nel ritorno, queste esperienze forti, non solo dal punto di vista teatrale?

Mi hanno cambiato la vita, e il rientro, ad esempio dalle riserve brasiliane al natale bolzanino, è stato difficile. Oggi non viaggio più come prima, un turista perde troppe cose. Noi siamo stati accolti in casa delle persone del luogo, è molto diverso. Arrivi disarmato e attivi un vero baratto, non vai a vedere cose, ma scambi cose. Poi ti porti dietro storie, leggende, formule magiche, io ad esempio, ho un nuovo nome, datomi in Brasile, vuol dire “ragazza felice”.

E il ritorno a Bolzano? Come e perché?

Sono tornata un po’ per la forte crisi che si respirava a Roma e un po’ perché il mio tempo lì mi sembrava finito, ma all’inizio è stato uno shock… Anche se non avevo mai staccato del tutto, vivevo comunque tra qui e Roma, e il dovermi adeguare a ritmi e abitudini altoatesine, al concetto di lavoro fisso o il dover rientrare in determinate categorie, è stato difficile. Poi tornare proprio l’anno del censimento ha reso tutto più duro. Io personalmente rifiuto questo sistema, sono obiettrice etnica per principio, credo che il dover scegliere “da che parte stare”, sia una violazione dei diritti umani. Certo, la gente è molto più avanti della politica, ma mi pare che il processo naturale di convivenza sia impedito e questo mi pesa moltissimo.

Pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 2 settembre 2012

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