Contemporary Culture in the Alps
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Il Ballo del Qua, incanto e stupore

23.07.2012
Emilia Campagna
Il Ballo del Qua, incanto e stupore

Tra nebbie e ombre compaiono bambini: lenti, prudenti, enigmatici come visioni oniriche. Si apre rarefatto (e cresce poi in mille direzioni), il “Ballo del qua”, applauditissimo spettacolo della Compagnia “Abbondanza Bertoni – I bambini” e che vede in scena sette piccolissimi danzatori. Tobia Abbondanza, Jacopo Bertoldini, Naima Fiumara, Matilde Laezza, Emily Manica, Federico e Francesco Petrolli per tre anni hanno frequentato la Scuola d’Azione di Michele Abbondanza e Antonella Bertone. “Dopo trent’anni di palcoscenico” spiegano i due ballerini e coreografi “abbiamo iniziato a provare a trasmettere quello che sapevamo”: e “Il ballo del qua” per la prima volta svela i frutti di quel lavoro, sostenuto dalla consulenza scientifica del pedagogista Marco Dallari, in uno spettacolo che non è il saggio di una scuola di danza ma un’opera intensa che ha per protagonisti degli straordinari interpreti bambini capaci di dominare lo spazio grande di un Melotti incantato e fiabesco. Si ride e ci si commuove, continuamente e imprevedibilmente e il “Ballo del qua” regala uno spettro di emozioni che vanno dalla tenerezza allo stupore. Lo spettacolo inanella una serie di quadri i cui organizzazione spaziale e creazione del gesto pescano dall’astrazione così come dal mondo del gioco infantile, quello che si fa in strada e che ha bisogno di pochi oggetti e molta fantasia: tra lentezza misurata, urlo liberatorio e numeri di insieme, c’è tutta la generosità del duo trasferita nei piccoli danzatori, con citazioni da “Romanzo d’infanzia” che aggiungono emozione all’emozione. Non c’è infantilismo, né i bambini di Abbondanza e Bertoni non sono quelli atteggiati da adulti dal voyeurismo dei grandi: sul palco agiscono bambini che il pubblico – di mente e cuore aperto – può vedere come dei propri “io” integri di purezza e libertà, capaci di assaporare il bello e di pensare nella lingua in cui parlano i sogni.

Articolo pubblicato sul giornale L’Adige l’1 marzo 2012

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