NatureCulture Special day #06: le Dolomiti risuonano ancora?

Rifugio Segantini, Presanella, agosto 2005. Un incendiario John Zorn si esibisce al sax di fronte ai pochi (ma motivati) spettatori di uno dei suoi rari solo show, nonché molto probabilmente l’unico finora ad essersi tenuto sopra i 2.300 metri di altitudine. Spettacoli come questo sono stati la ragione che ha spinto occasionalmente un frequentatore di concerti come me, privo di un rapporto stretto con la montagna benché viva in Trentino dall’infanzia, a imbarcarmi in escursioni in più o meno alta quota e apprezzare l’assunto alla base di una rassegna come i Suoni delle Dolomiti: portare la musica di qualità e gli artisti in location naturali e insolite, unendo l’amore per l’arte a quello per la natura e sensibilizzando il pubblico al patrimonio naturalistico che lo circonda. Queste erano per sommi capi le premesse, o comunque le caratteristiche che tuttora sono ravvisabili almeno in parte della programmazione dei Suoni delle Dolomiti. Negli anni ci sono state numerose altre occasioni che hanno confermato questo apprezzamento, e parallelamente il festival è cresciuto, sia in termini di risonanza mediatica, sia per quanto riguarda le scelte artistiche degli organizzatori che ne hanno ampliato gli orizzonti. Consultando l’archivio delle precedenti edizioni (è interamente disponibile on line), si può notare l’evoluzione del festival, che Trentino SpA organizza ogni anno dal 1995, da manifestazione per così dire di nicchia (prendete la definizione con delle grosse pinze) a fenomeno culturale che non disdegna di ammiccare ai gusti del grande pubblico, facendo peraltro leva sul potenziale bacino di spettatori costituito dai turisti che durante l’estate popolano le valli trentine. Scorrendo i nomi degli ospiti dal 1995 ad oggi si possono individuare tre tendenze principali nelle scelte artistiche degli organizzatori. La programmazione orientata alla ricerca artistica e musicale e alle proposte non scontate, predominante nelle prime edizioni, non è scomparsa (ne sono una testimonianza la presenza, quest’anno, di Ballaké Sissoko, Cristina Donà, Gianmaria Testa, o di Gilberto Gil, probabilmente il vero headliner di questa edizione), tutt’al più appare oggi sensibilmente ridimensionata. Nel contempo si è manifestata sin da subito, consolidandosi in seguito come cifra culturale e chiave di lettura della rassegna stessa, un’attenzione a quelle forme di autorialità media che, recuperando una categoria vecchia di cinquant’anni ma a quanto pare sempre attuale nel panorama culturale nostrano, fanno riferimento all’universo midcult. Apro una parentesi di sociologia dei processi culturali: il critico Dwight Macdonald volle identificare con questa definizione un prodotto culturale medio ad uso e consumo del ceto – per l’appunto – medio, dal carattere apparentemente autoriale (e dunque “di qualità”, secondo la logica che vi è sottesa) e sovente consolatorio nei confronti di un pubblico desideroso di conferme. Una sorta di mistificazione culturale ben confezionata e operata attraverso l’impressione del sigillo della cosiddetta cultura alta su prodotti in realtà ben meno complessi e significativi. Il fenomeno è quanto di più diffuso nel panorama culturale nostrano e vi rappresenta oggi qualcosa di molto vicino al pensiero unico dominante: se ieri poteva essere midcult La ragazza di Bube di Carlo Cassola, oggi lo sono i libri di Erri De Luca, di Alessandro Baricco (entrambi già ospiti della rassegna trentina), i film di Ferzan Ozpetek e di Michele Placido, mentre più di recente sono entrati a fare parte della categoria i programmi di Fazio/Saviano e tutta la galassia che vi fa riferimento. Chiudo la parentesi. La programmazione dei Suoni delle Dolomiti ha progressivamente dato spazio a elementi riconducibili a questa forma di autorialità impropriamente detta (cito parzialmente e alla rinfusa dalle edizioni precedenti: Fiorella Mannoia, Daniele Silvestri, Goran Bregovic, oltre ai già citati De Luca e Baricco) sino a farne il principale veicolo di risonanza mediatica della manifestazione, e di conseguenza la linfa vitale: si capisce che la stessa possibilità di programmare un solo show di Trilok Gurtu o di John Zorn è legata alla presenza in cartello di spettacoli più normali e digeribili per il pubblico che i Suoni delle Dolomiti si è formata negli anni. Il che è tutto sommato più che comprensibile, considerate le dimensioni del festival: se la dittatura del pensiero unico midcult ha fatto e continua a fare danni nell’industria culturale italiana (soprattutto al cinema, viene da pensare – ma questo è un altro articolo), va riconosciuto ai Suoni delle Dolomiti il merito di essere stata negli anni una manifestazione in grado di equilibrare l’offerta (anche grazie al rapporto instaurato con una serie di artisti ormai di casa e la cui presenza è ogni anno data per scontata, come Stefano Bollani, Paolo Fresu, o Mario Brunello). Ovviamente anche l’elemento naturalistico ha giocato un ruolo fondamentale nel riservare al festival una unicità che l’ha tenuto lontano dal girone infernale mainstream delle mille rassegne estive. Con le più recenti edizioni la tendenza midcult sembra spingersi oltre e assumere in alcuni casi uno slancio dal vago retrogusto nazionalpopolare, con l’introduzione di artisti di risonanza diversa: lo si può notare scorrendo il programma di quest’anno, in cui compaiono gli spettacoli di Samuele Bersani, Simone Cristicchi, Enrico Ruggeri, Irene Grandi (anche se quest’ultima in collaborazione con Stefano Bollani). Ai Suoni delle Dolomiti si riconosce, si diceva in apertura, il merito di aver fatto conoscere, toccare con mano e rispettare la montagna e gli scenari naturalistici a un pubblico più vasto di quello dei trentini, che notoriamente già la frequentano. Tuttavia, riesce difficile pensare che vi sia la stessa compenetrazione con la natura e l’ambiente in un unplugged di Samuele Bersani che nelle percussioni di Trilok Gurtu o nelle composizioni di Giovanni Sollima. Scelte così ammiccanti, più che a un ampliamento di orizzonti fanno pensare a una rinuncia progressiva all’identità che il festival è andato costituendosi in sedici anni. Se per assurdo queste scelte dovessero diventare la dominante della programmazione del festival, qualcuno dovrebbe spiegare dove stanno il senso e lo stimolo culturale nel partecipare a una versione alpestre della stagione musicale del S. Chiara. Con questo è evidente che chi scrive sta esprimendo un personalissimo giudizio di valore sullo spessore artistico dei vari Bersani, Cristicchi e Grandi. Ma il giudizio riguarda soprattutto una tendenza dell’industria culturale: la tendenza a ricorrere ai grandi nomi non appena un formato si rivela vincente, da cui nemmeno i Suoni delle Dolomiti sembra essere immune.