I suoni elettronici di Simon Fisher Turner sonorizzano The Epic of Everest e aprono il Trento Film Festival

I suoni elettronici di Simon Fisher Turner sonorizzano The Epic of Everest e aprono il Trento Film Festival

Il nome di Simon Fisher Turner non risulterà nuovo a chi ha seguito il Trento Film Festival negli ultimi anni: in occasione della serata d’apertura dell’edizione 2012 aveva condotto la sonorizzazione dal vivo della versione restaurata di The Great White Silence, il film di Herbert Ponting sulla spedizione antartica – senza ritorno –  guidata nel 1910-12 da Robert Falcon Scott, impressionando non poco per ricerca sonora e resa delle atmosfere.
Quest’anno Simon Fisher Turner farà ritorno al Trento Film Festival, sempre in occasione della serata d’apertura della 62^ edizione, venerdì 25 aprile all’Auditorium Santa Chiara, con un lavoro nuovo e a un tempo analogo al precedente, l’esecuzione dal vivo della colonna sonora realizzata per la nuova versione restaurata del documentario di un’altra spedizione, The Epic of Everest, di John Noel.
Girato dal capitano John Noel in condizioni atmosferiche avverse con tecniche pionieristiche e leggere per l’epoca (una macchina da presa a manovella fin dove fu possibile trasportarla, dopodiché un teleobiettivo), The Epic of Everest documenta la spedizione del 1924 sulla vetta più alta del mondo degli alpinisti britannici George Mallory e Andrew Irvine, terminata tragicamente con la scomparsa di questi ultimi in una tempesta a 8500 metri di quota.
Con un’operazione che restituisce fascino e valore alle immagini di John Noel – le sequenze girate a Phari Dzong (Pagri), Shekar Dzong (Xegar) e al monastero di Rongbuk sono tra i primi documenti filmati sulla vita delle popolazioni tibetane – nel 2013 il British Film Institute ha restaurato The Epic of Everest, commissionando contestualmente una nuova partitura sonora a Simon Fisher Turner, che si è avvalso del contributo di musicisti di estrazione diversa come Cosey Fanni Tutti (Throbbing Gristle, Chris & Cosey), Andrew Blick, James Brooks, Asaf Sirkis, Peter Gregson e la famiglia di musicisti nepalesi Thapa. Ne è risultata una colonna sonora dove la commistione tra suoni elettronici e varietà degli strumenti si alterna a momenti in cui si rasenta il silenzio, ai quali subentrano con prepotenza elementi ambientali. Atmosfere che si legano bene al velo di mistero che ancora oggi avvolge la vicenda di Mallory e Irvine.

simone fisher turnerLa quarantennale carriera di Simon Fisher Turner – che, premettiamo, non è affatto riassumibile in poche righe – lo ha visto passare da teenage star, prima della TV e poi della canzone pop, ad artista coinvolto nella stagione post-punk / new wave con, tra gli altri, The The e il folle e bellissimo progetto del finto duo di adolescenti francesi rimaste orfane durante un viaggio a Lourdes, Deux Filles, fino al fondamentale incontro con Derek Jarman, da cui sono nate una ricerca e una sperimentazione sulla musica per film che non si sono mai interrotte e ne hanno anzi influenzato le parallele e successive produzioni musicali.
Nei giorni scorsi abbiamo avuto la fortuna di scambiare alcune opinioni con Simon Fisher Turner: quello che segue è quanto ci ha detto sullo spettacolo a cui assisteremo venerdì sera, sul suo lavoro con la musica per film, sull’influenza di Derek Jarman, sulla natura e una serie di altre cose.

Prima di comporre la colonna sonora di The Epic of Everest aveva curato la sonorizzazione di The Great White Silence di Herbert Ponting, eseguita dal vivo all’edizione 2012 del Trento Film Festival. Ci sono molti aspetti comuni tra questi due film, su tutti il fatto che si tratti in entrambi i casi della testimonianza di una spedizione finita in tragedia, di una sorta di eroico fallimento. Cosa l’ha portata a lavorare su queste storie?

Lavoro con il British Film Institute, che mi ha commissionato delle nuove colonne sonore per entrambi i film, sin dagli anni Ottanta, ma ogni volta che mi viene chiesto di realizzare delle musiche per film rimango sorpreso. Ho come l’impressione di essere finito incidentalmente in questi progetti di restauro, a cui amo prendere parte soprattutto per l’unicità e la forza di quelle immagini.

Ha lavorato secondo metodi diversi ai due film?

All’inizio del lavoro per The Epic of Everest avevo in mente di comporre le musiche secondo la stessa impostazione adottata con The Great White Silence, dunque sotto un punto di vista proprio di un’archeologia del suono, ma poi ho preferito abbandonare quest’idea e ripartire da zero. Quindi ho cercato di fare dell’improvvisazione pura, basandomi sui suoni che io stesso avevo creato e scoperto.
Su queste basi, avendo a disposizione oltre 14 mesi per lavorare alle musiche, ho avuto la possibilità di studiare a fondo il film e tentare numerose soluzioni, che in molti casi si sono ovviamente rivelate fallimentari.

 

simone fisher turnerIl film di John Noel attribuisce già di per sé una certa importanza alla musica (per esempio, in alcune sequenze si possono vedere alcuni abitanti della zona cantare e suonare huqin e altri strumenti tradizionali tibetani – chiaramente senza sentirne il suono, ndi). Un aspetto che ho apprezzato della sua colonna sonora è la commistione tra suoni concreti e suoni elettronici “puri”. C’è molto synth in The Epic of Everest, ma c’è anche una varietà di strumenti, che pur non essendo propriamente riconducibile alla tradizione locale contribuisce a ricreare un certo contesto, senza peraltro finire nell’etnico o nel tradizionale. Ha fatto delle ricerche sulla musica e gli strumenti tradizionali tibetani prima di comporre questa colonna sonora?

Un aspetto importante nei miei lavori è il fatto che io usi regolarmente suoni reali, ma non li intenda mai come suoni “concreti”. Compongo in modo molto naturale, ma spesso sbagliando ottengo la combinazione di suoni perfetta per le immagini per cui la stavo ricercando. È un modo strettamente personale di fare musica, e in questo mi ritengo piuttosto tenace e ostinato. Nel caso di The Epic of Everest non volevo in nessun modo fare musica etnica, ma volevo ottenere un certo contesto, un’ambientazione. Ho cercato alcuni musicisti tibetani a Londra e ho incontrato questa famiglia di musicisti nepalesi, che sono stati così disponibili da introdurmi nella loro cerchia – con loro è anche nata un’amicizia – e mi sono stati d’aiuto per alcune questioni musicali.

Non volendo finire in nessuna categoria, ho dovuto evitare molti stili: volevo solo fare una musica che rispettasse profondamente le immagini e il sentire del film.

Ci sono poi stati parecchi e bellissimi incidenti di percorso, di cui ho ovviamente mantenuto traccia.

Come ha selezionato i musicisti coinvolti nel progetto?

Seleziono i musicisti in base alle loro caratteristiche individuali,  sapevo già come ognuno di loro suonasse e avevo una precisa idea di come sarebbero stati parte del progetto. E del resto non hanno deluso le mie aspettative: ognuno ha contribuito portando il proprio specifico suono e le proprie texture per il film a cui stavo lavorando.

Quali sono le difficoltà nell’eseguire dal vivo una colonna sonora come quella di The Epic of Everest?

Nel caso di The Epic of Everest abbiamo deciso di aggiungere dell’ulteriore strumentazione alla musica esistente, in modo da rendere il concerto una sorta di versione arricchita della colonna sonora. 

Facciamo un passo indietro. Ha collaborato a lungo con Derek Jarman: è stata la sua prima esperienza con la musica per film? Ci vuole raccontare di quell’esperienza e di come l’ha influenzata?

Non avevo mai espressamente voluto realizzare musica per film. Derek me lo chiese, così provai a realizzare qualcosa per il suo film in super 8 Sloane Square e poi per Caravaggio, lui continuò a chiedermelo e io collaborai. Mi piace l’aspetto collaborativo di realizzare musiche per film. Suono e visione.

Sia dal punto di vista artistico che umano, Derek è stato l’influenza più importante. Mi ha dato la forza e delle risposte sincere.

Come è nato il suo interesse per la registrazione dei suoni?

Quando avevo 13 anni mio padre mi regalò un registratore a cassette. Iniziò così. Avevo scoperto che potevo trasportare un suono da uno spazio ad un altro. Amo la tecnologia di oggi, essendo cresciuto con i nastri e passato per Ampex 456 reel to reel, minidisc, DAT, e ora i formati wav e quei fantastici file audio che abbiamo a disposizione. Registro parecchio con l’iPhone e con un piccolo registratore Edirol. Mi troverò senz’altro a registrare quando sarò in giro per Trento, non appena sarò arrivato nella mia stanza d’albergo.

Leggendo della sua performance al Mute Short Circuit Festival 2011 (in cui ha processato live dei suoni provenienti da video e registrazioni delle Primavere arabe pubblicati su YouTube, ndi) e ascoltando l’album Soundescapes realizzato in collaborazione con Espen J. Jorgensen, si hanno due ulteriori e recenti esempi della sua fascinazione per materiali pre-esistenti come field recordings o più generici “oggetti sonori ritrovati”.

Mi piace processare suoni reali e allo stesso tempo mi piace scegliere di NON processare suoni reali. Semplicemente non amo troppo ripetere quello che faccio, e da questo punto di vista la natura non mi deluderà mai. Il verso di un uccello non sarà mai lo stesso due volte, un fiume che scorre non si ripeterà mai. Sono innamorato dell’ascolto.

Parlando di musica elettronica oggi, ci sono degli artisti che sta ascoltando più di altri in questo periodo?

L’elettronica è solo uno dei generi di musica che apprezzo, ma per quest’anno finora i miei artisti preferiti sono Klara Lewis, Delphine Dora, Mira Calix. Sto collaborando con tutti e tre, quindi da questo punto di vista mi ritengo fortunato. Mentre per quanto riguarda le cose meno recenti apprezzo molto Kraftwerk, Throbbing Gristle. Beaver & Krause, Aphex Twin, Terre Thaemlitz. Ecco, se avessi un’etichetta discografica pubblicherei senz’altro Terre Thaemlitz. 

Lo spettacolo si terrà venerdì 25 aprile alle 21, presso l’Auditorium Santa Chiara in via Santa Croce, 67 a Trento.

Per maggiori informazioni: trentofestival.it/highlights/the-epic-of-everest

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