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February 7, 2014

Sport contro cultura: 1 – 0.
Partono le Olimpiadi invernali 2014

Anna Quinz
Al via oggi le Olimpiadi invernali. Tutto il mondo è in allerta, ogni paese pronto a fare il tifo per i propri atleti, tutte le telecamere del pianeta puntano Sochi. Va tutto bene, certo è che la quantità di comunicazione intorno allo sport è esponenzialmente squilibrata rispetto a quella intorno alla cultura. Potrebbe essere diversamente?


Io non ho nulla contro lo sport. Anche se non lo frequento personalmente.

Però oggi che gli occhi di tutto il mondo sono puntati sull’inizio delle (anche un po’ controverse) Olimpiadi invernali di Sochi 2014, una riflessione sullo sport mi nasce spontanea.

Anche se quest’anno le gare non si vedranno in diretta Rai, Sky offre un pacchetto olimpico speciale, che prevede ore e ore di trasmissione (sotto la guida di Alberto Tomba, e questo meriterebbe una riflessione a parte, ma per ora soprassiederò) per la gioia degli appassionati.

Nell’essere appassionati di sport, non c’è nulla di male, mai mi permetterei. E chissà che qualche gara non me la veda pure io (anche solo per l’orgoglio di avere più o meno la metà degli atleti italiani provenienti dall’Alto Adige, con Armin Zöggeler come portabandiera). Però, da operatrice culturale non posso non pensare che ci sia una grandissima disparità comunicativa, e un’ingiustizia di fondo: sport contro cultura: 1 a 0.
Va detto che – sempre Sky – a noi cultura dipendenti ha regalato Sky Arte, un canale dedicato dove la qualità dei programmi è buona e dove ci si può fare una bella scorpacciata di concerti, documentari ecc.

Questo canale però è – diciamocelo – per un pubblico di nicchia, già formato, già appassionato, che già sa, insomma.  Mentre resta il fatto che la potenza mediatica e di penetrazione dello sport nelle case degli italiani è n volte più grande. Tutti ne parlano, tutti sanno, tutti hanno un’opinione, tutti al bar una battuta sull’ultima gara o medaglia vinta o persa, se la fanno.

E allora io mi domando come siamo arrivati a questa disparità impressionante. Capisco che una gara di sci sia più semplice e diretta rispetto al nuovo spettacolo di Pippo Delbono, ma lo è anche perché non se ne sa abbastanza, non si ha la possibilità di vedere lo spettacolo se non a teatro e se non sei uno che non pensa sia cosa noiosa e difficile a teatro non ci vai mica e il circolo vizioso diventa infinito e irrisolvibile. Questo porta alla conseguenza che non se ne parla abbastanza (non di Delbono, dei fenomeni culturali in generale), per esempio al bar davanti a un cappuccino, se non nei circoli chiusi di operatori e addetti ai lavori.

Si continua a pensare che l’arte e la cultura in genere siano cosa per pochi. E lo sono (per un motivo, mica a caso), sarebbe assurdo pensare il contrario. Ma – come giustamente ieri mi facevano notare in una discussione davanti a un involtino primavera – è tutta una questione di pratica. Mi spiego. Per praticare uno sport bisogna mettersi le scarpe giuste, andare nella palestra o pista o quel che è, sudare, sforzarsi, gareggiare, vincere o perdere, a seconda dell’occasione. Praticare la cultura invece è anche e soprattutto fruirla. Andare a teatro, in un museo, al cinema, a un concerto. Perché è questo tipo di pratica che attiva (se non endorfine, acido lattico e quelle robe del fare sport) una serie di riflessioni, pensieri, movimenti cerebrali ed emotivi che fanno fare al “praticante” un personale passo in avanti nella conoscenza di sé e del mondo circostante.

Guardare una partita di calcio o una discesa sciistica, non è un male, ci mancherebbe. È di certo – se vi piace – un’attività divertente e appassionante, dove si può poi gioire o rattristarsi per gli esiti del proprio beniamino, piangere per un gol mancato o bestemmiare per un arbitro poco lungimirante. Ma la riflessione che poi ne consegue, non può essere altro che sul senso filosofico del fuorigioco. Tutta roba buona e giusta, ma talmente buona e giusta da meritare cotanta attenzione di ogni singolo media del pianeta e di ogni cittadino che abbia accesso a un televisore, un giornale o una connessione internet?

Secondo me no. siamo tutti molto educati alla cultura dello sport (che ha effettivamente – ma di nuovo nella pratica diretta – tanto da insegnare: dedizione, passione, spirito di squadra, sfida, determinazione, sacrificio ecc), ma troppo poco alla cultura della cultura.

Perché è vero quanto sopra che magari non è per tutti, ma se fin da piccoli fossimo più preparati (grazie alla formazione scolastica e alla comunicazione mediatica) ad ascoltare e curiosare dentro i linguaggi dell’arte, del teatro e di tutte le altre infinite forme del fare cultura contemporanea, forse le ore e ore di diretta le avremmo – anche – dalla Biennale di Venezia o dalla Berlinale, con un pubblico appassionato che guarda, scopre, domanda e al bar davanti al cappuccino chiacchiera della curatela più o meno convincente di Gioni, dopo aver chiarito che lì c’era davvero un fuorigioco.

 Nella foto, un’immagine della performace “Trash” di Mara Oscar Cassiani  

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There are 3 comments for this article.
  • Stefania Demetz · 

    Ecco qui un articolo che lucidamente pone un problema serio. Per me, poi, che mi occupo di eventi sportivi, ma frequento eventi culturali, le parole di Anna Quinz toccano nel vivo. Spesso mi chiedo: perché lo sport esibito in televisione ha intorno a sé una macchina da guerra in termini di business? Agenzie di sponsorizzazione, agguerrito mercato sui diritti televisivi, competenze altamente specializzate, professionisti di alto livello? Penso spesso che tanti miei amici che lavorano negli eventi sportivi farebbero volentieri lo steso mestiere negli eventi culturali. Ma non potrebbero, probabilmente, pagare le bollette a fine mese se lo facessero. Non esiste cioè un’”industria della cultura” tale da attirare e arruolare persone appassionate. Kevin Roberts, CEO di Saatchi & Saatchi, aveva detto tempo fa che lo sport è di per sé passione e che il marketing dello sport per questo è agevolato a patto che sappia lavorare sul return of involvement e non solo sul return of investment. Ecco, io mi chiedo: anche la cultura è passione. Emozione. Eppure non ce la fa ad avere la stessa forza dello sport. Il perché forse è troppo complesso da capire, forse perché affonda dentro aspetti sociologici non tanto lontani dal concetto del panem et circenses. E lo dice una che si emoziona in uno stadio di discesa libera, ma anche davanti a una fotografia di Ghirri.

    • IMG_8151
      Anna Quinz · 

      grazie stefania, mi fa piacere che tu condivida il mio punto di vista. soprattutto perché appunto, più a 360% del mio che sono puramente culturale e per nulla sportiva. se si riuscisse anche in minima parte a attivare meccanismi mediatici simili a quelli sportivi anche nella cultura – come dici tu – penso che tutti ci guadagnerebbero. in termini economici, ma anche e sopratutto emotivi, riflessivi e di passione, elemento che come sottolinei di certo accomuna i due mondi apparentemente tanto distanti.

  • Boracco · 

    Ma cara la mia signora Quinz, quest’articolo si scusa troppe volte con coloro i quali vivono con passione la passività sportivo-televisiva (che tanto non lo leggeranno) mentre in realtà quello che dovrebbe dire è. Punto. La frase è finita. Il perché e il percome lo sport vinca alla stragrande sopra la cultura (diciamo cultura e basta va’, che dell’arte si potrebbe dire così tanto che. Punto. Anche questa frase è finita. Poi le foto di Ghirri fanno cagare, ma questa è un’altra storia) sono talmente lapalissiane che mi sembra stupido porsi così tante domande a riguardo: le risposte sono già di fronte a tutti quelli che stanno tifando Camus in questo momento.