Contemporary Culture in the Alps
Contemporary Culture in the Alps
Since 2010, the online magazine on contemporary culture in South Tyrol and beyond in the Alpine environment.

Sign up for our weekly newsletter to get amazing mountain stories about mountain people, mountain views, mountain things and mountain ideas direct in your inbox!

Facebook/Instagram/Youtube
© 2025 FRANZLAB
Centrale Fies

Agitu Ideo Gudeta fellowship. La breve e lunga storia di un’Affirmative action

20.06.2025

 

Nel 2023 la Agitu Ideo Gudeta Fellowship[1], è arrivata alla sua terza edizione. In questo tempo abbiamo imparato molto rispetto a ciò che manca, a ciò che stiamo facendo, e all’impatto di una pratica simile negli spazi e nelle vite di chi ne è coinvolto. 

La Fellowship si configura come una discriminazione (o azione) positiva (affirmative action), ovvero una pratica volta a promuovere l’uguaglianza attraverso la creazione di opportunità riservate a soggetti appartenenti a gruppi storicamente minorizzati, come le donne o le persone che non godono del privilegio etno-nazionale. La Agitu Ideo Gudeta Fellowship infatti è riservata ad artistɜ italianɜ (con o senza cittadinanza) razzializzatɜ, con background migratorio o appartenenti a minoranze interne (come le comunità Rom Sinti e Caminanti). Nello specifico, la borsa da accesso ad un periodo di residenza a Centrale Fies, a un tutoraggio, un’accompagnamento verso la definizione del proprio progetto, e un budget per la realizzazione del lavoro. 

Le affirmative action possono essere di diversi tipi: possono prevedere che nella selezione vengano aggiunti punti relativi ad aspetti legati alla biografia individuale per privilegiare persone appartenenti a gruppi svantaggiati, può darsi una preferenza nella selezione, possono venirsi a creare percorsi e di formazione e mentoring ad hoc, per aumentare le possibilità di inserimento delle soggettività marginalizzate. La Agitu Ideo Gudeta Fellowship va ad affiancare il progetto Live Works Free School of Performance, già attivo da undici anni, condividendone la struttura e le opportunità. Il risultato materiale è quello di una sorta “quota”, ovvero la creazione un’opportunità riservata unicamente ad artistɜ razzializzatɜ in Italia. In questo senso si afferma una presenza minima, senza precludere al contempo una partecipazione maggiore di artistɜ italianɜ razzializzatɜ tra le fila di Live Works.

 
 

Avventurarsi nella costruzione di un’affirmative action in assenza di riferimenti, istituzionali e non, a livello locale e nazionale, significa incontrare delle contraddizioni a cui non si poteva essere preparate. Questo perché per quanto il dibattito statunitense possa anticipare alcune delle difficoltà o delle resistenze che possono darsi, questo stesso dibattito risulta insufficiente nel contesto italiano, a causa delle diversità che caratterizzano i due paesi. In Italia infatti non solo non vi è una tradizione di discriminazioni positive – fatta eccezione per alcune politiche relative all’inclusione di genere come le cosiddette “quote rosa” – ma manca anche un riconoscimento trasversale della dimensione di svantaggio sistemico in cui versano i gruppi marginalizzati. Lo stesso UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), l’equality body italiano, non contempla le affirmative action tra le politiche che promuove. E del resto anche negli stessi Stati Uniti queste pratiche sono sotto attacco da decenni. Questo significa che, pur dotandoci di alcuni strumenti che provengono dal contesto US, ci troviamo di fronte a incognite e interrogativi che possono essere sciolti solo attraverso l’esperienza.

Alcune di queste difficoltà sono state evidenti sin da subito, e hanno richiesto lunghi momenti di confronto e scambio tra le realtà che hanno costruito la Fellowship – Centrale Fies, Razzismo Brutta Storia e Black History Month Florence. Altre invece si sono palesate nel percorso.

Innanzitutto, è stato necessario chiarire che la scelta di intraprendere un’azione politica come questa non doveva ricadere sull’artista in termini di opportunità di parola. Riconoscere che un soggetto appartiene ad una determinata storia e che di essa porta le tracce nel proprio percorso e nel quotidiano non significa dover costringere questo stesso soggetto a farsi portatore esclusivamente su questa esperienza. Si tratta infatti di un meccanismo subdolo di essenzializzazione, in cui il soggetto viene forzato a vestire (unicamente) determinati panni per compiacere un sistema che lo assegna ad uno spazio preciso che non può eccedere. Le persone Nere possono parlare della pioggia se lo desiderano, e le persone Rom dell’arcobaleno. È importante che non si confonda l’azione politica della costruzione di una affirmative action come la Agitu Ideo Gudeta, con la dimensione politica del lavoro di un’artista, perché se lo spazio che si crea è uno spazio “condizionato” non solo non si da realmente un’opportunità, ma al contrario si riproducono dinamiche di assoggettamento della persona.

Una difficoltà con la quale ci siamo misurate da subito riguarda il linguaggio utilizzato nel bando. La necessità di produrre un documento ufficiale ed esaustivo, che adottasse una terminologia adatta a una call pubblica ha posto non pochi dilemmi. Questo perché i diversi soggetti non si identificano necessariamente nelle categorizzazioni sociologiche né tantomeno in quelle istituzionali. La dimensione del bando erode quel diritto all’opacità che caratterizza le esperienze di marginalizzazione, e impone un coming out. Inoltre, spesso le parole scelte in contesti simili risultano passivizzanti e possono essere rifiutate in toto. Ne è un esempio la parola razzializzazione, che per quanto abbia in sé la potenzialità di raccogliere soggettività diverse accomunate da processi di discriminazione su base etno-razziale, viene rifiutata da alcunɜ perché descrive un’identità a partire da qualcosa di subito e non agito o incarnato. 

La soluzione che abbiamo trovato è stata quella di moltiplicare i modi possibili di dirsi, affinché fosse possibile un riconoscimento più allargato. Una soluzione non senza contraddizioni, che mostra come non sia possibile adottare una strategia unica, ma al contrario, divenga necessario giocare contemporaneamente più significati al fine di poter comprendere identità complesse.

Nonostante la cura nella scrittura del bando, in molti casi il bando non è stato compreso. Dalla prima alla terza edizione abbiamo ricevuto numerose candidature non valide. Non solo di persone razzializzate provenienti da altri contesti – la cittadinanza italiana non è ovviamente un requisito, ma la borsa è dedicata a persone che intrattengono una relazione privilegiata con l’Italia, perché ci sono cresciute, perché ci vivono, indipendentemente dal loro status giuridico – ma anche e soprattutto di gruppi misti – come compagnie teatrali dirette da italiani bianchi autoctoni che vedevano persone razzializzate come performers – e italiani bianchi da molte generazioni. Abbiamo letto questa difficoltà di comprendere il target del bando all’interno di una cornice generale di inconsapevolezza rispetto alle affirmative action e alla natura politica di esse. 

 

Un ulteriore elemento di difficoltà è nato dai canali di diffusione del bando. Sappiamo che per la stessa ragione per cui è necessario operare discriminazioni positive nel mondo dell’arte, i canali di diffusione usuali quali accademie, università, centri artistici, risultavano insufficienti nell’intercettare le persone a cui la Fellowship era dedicata. Abbiamo tentato dunque di diffondere la call anche attraverso reti amicali e gruppi di interesse, come collettivi e spazi dedicati a soggetti razzializzati. A tre anni di distanza questo lavoro di ampliamento dei network di diffusione è tutt’altro che terminato. Al contempo, abbiamo compreso i limiti di un’azione singola come quella da noi intrapresa, e realizzato (pragmaticamente e non solo teoricamente) l’impossibilità di abbattere determinate barriere in assenza di una struttura più ampia atta ad includere nei percorsi artistici – a tutti i livelli – le persone razzializzate.

Infine, sin dall’elaborazione della prima edizione ci siamo interrogate sui rischi e sui problemi che potevano derivare dalla ricezione di un’affirmative action in assenza di politiche strutturale. Questa preoccupazione non era indirizzata a possibili accuse o ripercussioni sulle realtà che la promuovono – come la fantasia di un “razzismo al contrario” – bensì a come poteva essere vissuta dalle persone che si trovavano, per la prima volta, ad essere investite di un’opportunità che le individua irrimediabilmente come portatrici di uno svantaggio collettivo strutturale e, per contro, come ricettrici di un vantaggio singolare. Infatti, se negli Stati Uniti nel tempo si sono sviluppati discorsi, strumenti e strategie che permettono alle persone di attraversare le affirmative action in maniera più consapevole e sicura, il carattere di novita dell’Agitu Ideo Gudeta Fellowship nel panorama italiano porta con sé un elemento di sfida per le stesse persone che decidono di parteciparvi. Questa preoccupazione ha preso corpo, forma e sostanza durante questi primi anni di sperimentazione.

 

Innanzitutto, prendere parte a un progetto simile espone le persone su più fronti. Espone rispetto alla comunità (allargata di riferimento): le altre persone e artistɜ razzializzatɜ. In secondo luogo, espone nei confronti del mondo dell’arte, nei confronti di tutti quei soggetti che si scoprono meno pronti di quanto era opportuno mostrare, impreparati nonostante il panorama artistico ami raccontarsi come uno spazio libero, progressista e consapevole – qualcuno l’ha chiamato “il campo innocente”. Ma soprattutto costringe l’artista a confrontarsi con sé stessǝ, con la propria pratica in relazione a un’identità che è – anche – subalterna. 

Quello che un’artista razzializzatǝ deve affrontare infatti è una pressione dei pari: “Era ora che si iniziasse a fare queste cose, ora DEVI parlare di noi, per noi, a noi.” Una bella responsabilità. Al contempo può capitare – o meglio accade –  che le persone esterne svalutino il riconoscimento ottenuto: “Ah ecco, era RISERVATO a quellɜ come te”. Il sottotesto è chiaro: non sei abbastanza bravǝ per competere in un’arena più ampia. Questo è sicuramente un elemento di continuità con il contesto statunitense e mostra la totale ignoranza nei confronti della dimensione sistemica del razzismo e delle azioni positive come politiche attive nell’ottica delle pari opportunità. Non di meno, questo atteggiamento è particolarmente significativo se pensiamo a qual è la narrazione che il mondo dell’arte propone di sé stessa. Infine – ma di una fine che è principio – vi è una pressione esercitata istintivamente dall’artista nei suoi propri confronti, proprio perché schiacciatǝ tra le aspettative delle comunità e la sanzione esercitata dalla maggioranza, posizionare sé stessǝ e la propria pratica diviene essenziale alla sopravvivenza. C’è un carico psicologico ed emotivo che viene assunto da chi si fa sperimentatore di una pratica come questa. Diviene dunque imprescindibile riflettere sulla cura ed elaborare strumenti di tutela dei soggetti coinvolti. 

In questi anni sul panorama nazionale si sono affacciando attori che hanno deciso di adottare politiche prefigurative, di inclusione e riparazione, nonostante a livello istituzionale non ci sia un riconoscimento della necessità di questi mezzi. Siamo convinte che percorrere questa strada possa aprire a trasformazioni strutturali, che mostri una possibilità di azione a istituzioni ancora troppo timide e impreparate a fare i conti con una società segnata da ingiustizie storiche che si riproducono oggi senza soluzione di continuità. Il razzismo – così come il sessismo, il classismo, l’abilismo e tutte le forme di gerarchizzazione sociale che si basano su appartenenze identitarie reali, supposte, imposte o rivendicate – è un fenomeno pervasivo, rispetto al quale l’arte e le realtà che la producono non sono “innocenti”. Rimane dunque solo da sperimentare alternative, inventare possibilità, osservare quali effetti producono e prendersi cura del processo. Farlo significa aprirsi all’errore. Non farlo, condannarsi all’esistente. 

da TELL MUM THE SPELL WORKED #0, Centrale Fies 2023

 _

Agitu Ideo Gudeta fellowship è una affirmative action curata da Barbara Boninsegna e Simone Frangi per artist3 italian3 razzializzat3, ideato con Mackda Ghebremariam Tesfau’ di Razzismo Brutta Storia e Justin Randolph Thompson di BHMF, con l’appoggio della famiglia di Agitu Ideo Gudeta. La borsa di studio è nominata ad Agitu, giovane vittima di femminicidio, dedita a una pratica ecologica illuminata, alla giustizia sociale così come allo sviluppo di un’economia di montagna immaginata in un’ottica visionaria, coraggiosa e controcorrente. Grant, residenze e mentoring curatoriale dell3 artist3 selezionat3 conducono alla presentazione pubblica del lavoro nell’ambito di Live Works, di fianco alle produzioni dell3 alumn3 con l3 quali condividono anche i momenti collettivi della Free School of Performance.

La prima edizione della fellowship ha supportato l’artista Silvia Rosi e il suo progetto di installazione Omissions, focalizzata sull’esplorazione delle idee di memoria, migrazione e diaspora attraverso fotografia, testo e video. Fellow 2022 è Soukaina Abrour, con il suo Mra7ba (mrhba)*, azione ambientata in uno scenario postumano di decadenza, che trae la sua ispirazione immaginativa da Al-Halqa (nota anche come “Al-Halqa al-Safiya” o “il Cerchio Puro”), una forma d’arte tradizionale di narrazione che ha avuto origine nel mondo arabo, per innescare una riflessione sull’incomunicabilità e la perdita di senso e sul loro legame con le varie trasformazioni del sé nella collettività. 

L’artista Valerie Tameu è fellow 2023 con il suo progetto performativo BodyBuilding, ispirato alle narrazioni postumaniste e afrofuturiste, e che indaga l’alieno e l’alterità come luoghi di possibilità e tentativi di riappropriazione della propria immagine. 


[1] La Fellowship è dedicata ad Agitu Ideo Gudeta, una donna di origini etiopi, un’attivista ambientalista divenuta simbolo di inclusione sociale ed ecologica, impegnata nella conservazione della capra Pezzata Mòchena. Nel 2021, a soli quarantadue anni, Agitu è stata vittima di femminicidio.

 

SHARE
//
ARCHIVE