L'intervista ai registi Margherita Giusti Hazon e Alex Scarpa

© La ragazza d'argento, Margherita Giusti Hazon e Alex Scarpa
La ragazza d’argento non celebra soltanto l’epoca del muto, ma rende omaggio al cinema nella sua interezza, come linguaggio universale capace di attraversare epoche differenti, riuscendo sempre a innovarsi, ispirare ed emozionare intere generazioni di spettatori.
Dopo il successo ottenuto al San Benedetto International Film Festival, dove ha conquistato il prestigioso Premio Sybila, La ragazza d’argento continua a incantare il pubblico e la critica nei principali festival cinematografici italiani. Di seguito potete affondare lo sguardo nelle voci dei due registi che si sono intrecciate per noi, creando un coro di risposte e approfondimenti sul dietro le quinte della realizzazione di un cortometraggio indipendente, nelle difficoltà e nelle soddisfazioni che questo comporta.

Come nasce La ragazza d’argento? Da quale immagine, suggestione o esigenza creativa siete partiti per dare vita a questa favola sospesa tra sogno e realtà? Vi ricordate il semino che è poi fiorito e ha dato vita al film?
Alex Scarpa: La ragazza d’argento nasce da quella che io e Margherita chiamiamo “la telefonata ispirata”: una scintilla capace di accendere un’esplosione di creatività alimentata dal nostro amore per il cinema. Era il 2023 e da tempo parlavamo del desiderio di realizzare un primo progetto insieme. Partendo da un’idea di Margherita, la macchina dei sogni si è messa in moto, trascinandoci in quel vortice tanto affascinante quanto privo di logica che è la produzione di un cortometraggio indipendente. Un viaggio libero da logiche commerciali e di mercato, in cui ogni scelta è stata guidata unicamente dalla passione e dalla ricerca di un linguaggio poetico. La ragazza d’argento racconta la storia di una giovane donna, protagonista di un film muto degli anni 20, che decide di prendere in mano la propria esistenza, affidandosi poi alla magia e alla sua voglia di vivere per davvero e non più in modo “ripetitivo e in bianco e nero”. Col suo agire la protagonista parte per un viaggio in un luogo dove il confine tra sogno e realtà è labile, ma nel quale riuscirà ad essere se stessa per la prima volta.

Perché la scelta del cinema muto e dell’omaggio più o meno esplicito a La rosa purpurea del Cairo? In che modo questo linguaggio ha influenzato la vostra narrazione?
Margherita Giusti Hazon: Perché il cinema muto è la forma più pura del linguaggio cinematografico. Io sono cresciuta con i film del cinema delle origini, sono laureata in cinema e ho lavorato per più di dieci anni nell’archivio storico di film più antico d’Italia, quello della Cineteca di Milano. La ragazza d’argento vuole essere un omaggio a un’epoca straordinaria, dove tutto era possibile, per questo abbiamo cercato di ricreare una narrazione fatta di gesti e sguardi, più che di parole. D’altronde il cinema muto ci ha sempre insegnato questo: che le parole non servono a nulla, se ci sono già le immagini. Che le immagini sono molto più potenti delle parole. Woody Allen in questo è un maestro assoluto: La rosa purpurea del Cairo è un sogno a occhi aperti, uno di quei film che ha cambiato il mio modo di vedere il mondo, il cinema e le storie in generale. Rompe la quarta parete con una semplicità tale da sembrare reale. Ci trasporta fuori e dentro a un film come se fosse la cosa più normale del mondo. Questa è pura magia di narrazione.

Siamo sempre più abituati a definirci per negazione, attraverso ciò che non siamo, urliamo contro nemici, ci opponiamo, ma spesso l’opposizione nasconde una non azione. Il vostro invece dite essere un film “elogio all’azione”, dove anche la lentezza e la delicatezza sono quasi un atto politico. Cosa significa per voi raccontare oggi questa storia?
Alex: Significa innanzitutto ribellarsi agli schemi che altri hanno costruito per noi. La ragazza d’argento è un film che non segue le logiche di mercato, ma nasce come un flusso di coscienza artistico scaturito dalla sinergia tra due autori. Con quest’opera abbiamo voluto prima di tutto essere liberi, concederci il tempo di emozionarci, di esplorare territori nuovi con lentezza e di indagare le sfumature interiori della protagonista, la quale trasforma la propria vita grazie a una magia. Questo cambiamento, però, non avviene per caso: si materializza infatti solo nel momento in cui lei decide di prendere in mano il proprio destino e quindi di agire. Il film infatti suggerisce una verità semplice e potente: ognuno di noi merita un po’ di magia nella propria vita; essa, però, non nasce da sola, ma si presenta in conseguenza alle scelte che compiamo. Gli incantesimi esistono, si manifestano più spesso di quanto crediamo, spetta però a noi agire, riconoscendoli e accogliendoli, per lasciarci poi avvolgere da essi.

Il film è stato realizzato in modo indipendente, tra Trento e Milano, con una troupe giovane e radicata nel territorio. Quali sono state le sfide e le soddisfazioni principali?
Margherita:
Mettere in moto tutta la macchina di produzione del film in modo indipendente, con pochi mezzi e ancora meno tempo, è stato difficilissimo, ma anche un’esperienza unica. Elettrizzante. Quasi adrenalinica. Qualcosa che ti riempie e poi ti svuota con la stessa forza. In realtà è andato sempre tutto liscio, come se da qualche parte il cosmo ci stesse osservando e facesse di tutto per allineare stelle e pianeti, per darci la possibilità di farcela. Una delle sfide più grandi è stata quella di riuscire ad avere una Milano semi deserta per creare quell’atmosfera un po’ surreale, magica e sospesa nel tempo di cui il film aveva bisogno. Per questo motivo alle cinque del mattino eravamo già in strada con la camera in spalla e poco dopo stavamo già girando. L’alba è uno dei rari momenti in cui Milano è silenziosa e ancora addormentata. Sicuramente essere in pochi è stato difficile, ma siamo riusciti a fare di questa “debolezza” la nostra forza. Sul set si è creata fin da subito un’atmosfera bellissima, di grande collaborazione e supporto, abbiamo costruito una vera squadra nel giro di pochissime ore. Qualsiasi problema ci capitasse, lo affrontavamo sempre insieme, e quando una volta non riusciva uno di noi, c’era l’altro. La soddisfazione più grande per me da scrittrice è sempre vedere personaggi che prima erano solo su carta prendere forma e muoversi su uno schermo. L’idea che un’intera troupe, seppur piccola, composta da persone diverse lavori a un’unica idea è sempre qualcosa che mi fa battere il cuore solo a pensarci. E poi vedere le persone emozionarsi nel buio della sala cinematografica… Non esiste niente di più bello per me.

La ragazza d’argento ha già conquistato premi e selezioni importanti. Che significato ha per voi questo viaggio nei festival e che sogno coltivate per il futuro del film?
Alex: Dopo la première di Milano, il nostro cortometraggio è stato proiettato finora ai festival di San Benedetto del Tronto, dove ha ricevuto il premio Sybila, a Ponza, Ferrara e più recentemente al Terra di Siena Film Festival. Siamo molto felici di questo percorso e curiosi di scoprire dove questa pellicola ci condurrà ancora. Ogni festival rappresenta un’occasione preziosa di incontro e confronto con persone che condividono la stessa passione per il cinema, un momento di scambio autentico che restituisce il senso più profondo del fare arte, ovvero condividere idee ed emozioni.
Credo che La ragazza d’argento abbia ancora molti sogni nel cassetto, e noi con lei. Il più grande resta quello di continuare a incontrare nuovi sguardi, con il desiderio di riuscire a emozionare più persone possibili e, perché no, di spingere magari qualcuno ad imitare Alba e mettere in pratica quell'azione che in qualche modo possa sbloccare la magia nella sua vita.

Perché fare cinema oggi? Perché sognare oggi? Le due cose sono collegate?
Alex: Quando si tratta di creare o di sognare, per me il tempo smette di esistere. Non c’è un ieri, non c’è un oggi e non c’è un domani: esiste soltanto uno spazio sospeso, un luogo dove poter dare forma alle idee e raccontare storie. Fare cinema all’interno di questa dimensione è per me una gioia. La settima arte è stata la porta attraverso cui, molti anni fa, ho iniziato il mio percorso creativo. Lo è ancora oggi: ho infatti già diversi progetti in programma per continuare questo viaggio senza una meta precisa, ma costellato di continue scoperte, dentro e fuori di me.
Nella tua domanda, però, si parla anche di sognare, un’azione che mi sta particolarmente a cuore e che cerco di mettere in pratica ogni giorno. Il sogno è per me il motore di ogni cosa, un ponte che unisce il mondo reale con quello immaginario, la fonte principale da cui nascono nuove idee e nuovi stimoli. Per esempio è stato proprio grazie a un sogno che, pur restando sempre fedele al cinema, ho iniziato a spingermi anche verso una nuova forma d’arte che mi affascina sempre di più, la narrative art. Sto preparando infatti un progetto che unisce parole e fotografie (ho un archivio composto da undici anni di miei scatti), con l'intento di esplorare il tema del lasciar andare, indipendentemente che si tratti di una persona, di un oggetto o di un luogo. Perché sognare, dunque? Perché per me farlo significa essere vivo, e perché credo sia uno dei modi più autentici per approcciarsi al mondo con gentilezza, delicatezza e una consapevole purezza d'animo.
Margherita: Secondo me chiunque crei qualcosa è in qualche modo un sognatore. Perché ci vuole una grande dose di visionarietà per riuscire a evadere dal mondo reale (soprattutto di questi tempi) e far volare alta la fantasia. Poi forse sognare non basta, perché per realizzare qualcosa di concreto ci vuole tantissima passione. Determinazione, capacità di rialzarsi, e anche talento, certo. Ma è il sogno il motore di tutto, la capacità di sognare a occhi aperti, anche mentre si compiono le azioni più banali e noiose la mente è altrove, in mondi immaginari. Io non potrei fare a meno di sognare, senza i sogni sarei persa, anzi: sarei morta. E credo che oggi più che mai sia importante sognare, costruirsi un rifugio interiore inespugnabile che ci possa salvare nei momenti bui della nostra vita e più in generale di questa epoca. Fare cinema oggi per me significa anche prendersi delle responsabilità. Perché saper raccontare storie attraverso le parole e le immagini è un grande potere magico. Ma come disse qualcuno una volta: da grandi poteri derivano grandi responsabilità.