Punta di qua, piccolo faro
Riverbera la luce dove vuoi
Ma fa' che un giro sia sempre per noi
Che abbiamo sete di navigare insieme
E non rientriamo al primo forte vento
Punta di qua e proteggimi dalle insidie del mare
E niente: le parole cedono il posto a un brivido che non ne ha più bisogno. Non c’è molto da dire, ma c’è molto da raccontare, come succede quando si incontra un vero artista. Sostare in compagnia di Iacopo Candela, in arte Candirù, ti fa solcare mari in tempesta, ti trasforma in pirata, ti fa combattere mostri meravigliosi per farci poi amicizia, capendo di non esserne altro che lo specchio. E il viaggio continua in una sorta di ciclone di musica e parole e ci si ritrova risucchiati su ring a boxare, diventare spine di un giardino di rose, visitare profeti e santi bevitori, mettere i piedi su piscine ghiacciate e sognare di finirci dentro e infilarsi in particelle minuscole, meravigliose, atomiche. I tentacoli polimorfi delle sue canzoni, fatti di musica e testi, lo rendono un vero e proprio candirù e se ti entrano dentro bisogna davvero stare attenti e attente, è impossibile rimanerne incolumi. Il piede si muove a tempo, il cuore anche, e si è scaraventati in un mondo dai contorni morbidi ma pieno di angoli bui e spine, alla ricerca del proprio piccolo faro che non ti fa rientrare al primo forte vento.
Ho avuto il piacere di fare due chiacchiere con lui (le trovate qui sotto) e poi di immergermi totalmente nel suo mondo durante il laboratorio “Dai suoni agli oggetti” a le garage gab, dove ci ha guidati tra leggi della fisica e gesti di manualità, sperimentazione ed esplorazione condivisa, fino a creare strumenti rumorosi e divertentissimi. Il giorno dopo, al Teatro di Pergine, ho assistito al concerto di presentazione di Miscela vol. 2, l’EP che raccoglie le sue ultime produzioni insieme a qualche novità.
La luce si spegne, il mondo tace, l’aria si fa densa, l’attesa rimbalza nel petto. Un faro si accende e diventa compagno di avventura, insieme ad amiche e amici, pirati ed esploratrici della musica e della voce, come lui e accanto a lui sul palco. Non è solo sulla nave che ci ha accompagnato in un viaggio narrativo, immaginativo e poetico, come sempre accade nei suoi concerti. Si salpa e la nave procede tra arrangiamenti inediti, racconti, parole e sorrisi, tra mondi evocati da chitarra e tamburo, violino e pianoforte, voci che si intrecciano e si sciolgono fino a diventare una sola.
Ed eccolo, il mondo: quello che non sappiamo di cosa sia fatto, ma che sicuramente “è fatto dei dubbi di tutti, è fatto dei dubbi di tutte” e di tanto, tanto altro, è fatto di un “basta” da gridare a tutto petto, ma anche di meraviglia da coltivare, proteggere, cantare a squarciagola, come Candirù ci invita a fare salpando con lui alla ricerca del filo invisibile che collega l’essere umano all’ignoto.
Era, by the way, anche uno dei parteciptanti del nostro storico BUSK Singer-Songwriter Festival Bolzano Bozen ben dieci anni fa – qui trovate l'intervista e la scheda di partecipazione di allora, vediamo cosa è cambiato...
Partiamo dal nome. Te l’avranno già chiesto centinaia di volte, ma da dove viene?
A un certo punto ho sentito la necessità di avere un nome che si leggesse esattamente come si scriveva. Negli anni in cui i nomi dei gruppi erano tutti in inglese e molto lunghi — il mio primo gruppo si chiamava The Golden Age of Piracy, un titolo infinito — volevo qualcosa di semplice, diretto, italiano, ma non troppo letterale. Ho guardato al mondo della pesca: non sono pescatore, ho provato ma non con costanza, però l’immagine mi affascinava. L’idea che l’essere umano sia legato all’ignoto da un filo trasparente mi sembrava poetica. Quel filo poteva essere la musica, una canzone. Così ho cercato tra i nomi dei pesci e ho trovato “Candiru”. Mi colpiva sia per la somiglianza con il mio cognome, Candela, sia per la sua particolarità: è l’unico parassita vertebrato, tristemente famoso perché si infila nelle branchie dei pesci… e, in alcuni casi, persino nell’uretra degli esseri umani nel Rio delle Amazzoni. È un’immagine forte, a metà tra il dolce e il terribile, e mi piaceva proprio per questo contrasto.
Proprio come te e i tuoi progetti, sempre in bilico fra mondi oscuri e luminosissimi. Ma quando è arrivata la scintilla per seguire la musica?
Non c’è stato un momento preciso. È stato un processo artigianale, passo dopo passo. Non avevo grandi obiettivi, solo piccole tappe: scrivere la prima canzone, fare il primo concerto, suonare all’estero… Per fortuna erano traguardi raggiungibili. Ero attratto da una forma-canzone apertamente pop, che risultava comprensibile anche a chi mi stava intorno, e questo mi ha aiutato. Poi c’è stato il teatro, che mi ha accolto come tecnico e, attraverso contaminazioni, mi ha permesso di scrivere testi per la scena.
E infatti tu sei musica e testi, ma anche teatro, luci… Io ti considero davvero uno scrittore meraviglioso, un poeta. Vedo sempre i testi come primo elemento, e poi la musica.
In realtà è un intreccio. Quando ho iniziato a scrivere in italiano, non avevo riferimenti diretti. Ho messo al primo posto la melodia e ci ho inserito i testi. All’inizio erano molto aulici, poi ho imparato a partire da piccole particelle di senso per costruire racconti più concreti. Di solito improvviso con la chitarra, senza nozioni musicali vere e proprie: metto le mani sulle corde, vengono fuori linee melodiche, e sopra ci costruisco le parole.
Prima parlavi di teatro. Io non sono mai riuscita a vedere La teoria dei colori, uno spettacolo in cui l’intreccio si fa ancora più evidente.
È un progetto nato durante il lockdown con la mia amica e collega Chiara Benedetti. Volevamo raccontare l’esperienza della contenzione attraverso le lettere di Van Gogh al fratello Theo. Lei è più lirica, io più pragmatico: ci siamo incontrati a metà strada e ne è uscito uno spettacolo a cavallo tra teatro e concerto. Alcuni dicono che non sia uno spettacolo perché c’è troppa musica, altri che non sia un concerto perché c’è troppo teatro. Questa ambiguità ci piace, e ci ha portato a fare già una trentina di repliche in giro.
Tu collabori spesso o sei più solitario?
Sono principalmente solitario. Però mi avvalgo di persone di fiducia, come Marco Sirio Pivetti di Metrò Rec, che mi accompagna nelle registrazioni. E per la presentazione del nuovo lavoro ho deciso di coinvolgere amici e colleghi: Esther Weger, Adele Pardi, Anna Libardi, Ardan Dal Rì, Alessandro Darsinòs… Suonare insieme mi mette in difficoltà, ma allo stesso tempo mi stimola. Chissà cosa accadrà sul palco!
E parliamo allora di Miscela Volume 2.
Sì, periodicamente raccolgo i brani usciti solo online e li trasformo in un oggetto fisico, perché credo sia importante dare alla musica un corpo. Questa volta ho scelto una cassetta-chiavetta USB con otto brani già pubblicati e due inediti che anticipano Castagne Matte, un progetto ispirato alla storia della psichiatria, molto legato al mio territorio.
Ultima domanda: c’è una canzone, una frase o un’ispirazione che in questo momento ti anima?
In questo periodo penso molto al futuro, perché quando incontri un artista lo vedi sempre nel passato: i progetti sono già finiti mentre lui sta già altrove. La mia tensione è verso un cambio di rotta musicale, che spero diventi anche sociale. La mia ispirazione recente sono i The Kills, duo voce e chitarra con drum machine: li ho visti in concerto e ho pensato “Anch’io devo fare così”. Un live più elettrico, diverso.