Parlando di regia con Maura Delpero

Intervista alla regista di "Vermiglio", che con 7 premi (tra cui spicca quello per la Miglior Regia, assegnato per la prima volta ad una donna) trionfa (anche) ai David di Donatello

08.05.2025

Ritratto di Maura Delpero ©Kering

Ho avuto l’occasione di chiacchierare con Maura Delpero qualche settimana fa, poco prima della sua partenza per una serie di viaggi in giro per il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, per presentare il suo bellissimo film Vermiglio, che rappresenterà l’Italia agli Oscar 2025 per la categoria Miglior Film Internazionale e già vincitore del Leone d’Argento a Venezia. Nel frattempo non sono mancate le belle notizie: è recente l’annuncio che Vermiglio ha vinto il Gold Hugo 2024 per il Miglior Film, il premio più prestigioso del Chicago International Film Festival e che è candidato agli EFA 2024 (European Film Awards) per la categoria Miglior Film e Miglior Regista, entrando a far parte della cinquina finalista. La proclamazione dei vincitori degli EFA avverrà il 7 dicembre a Lucerna, mentre le prossime tappe in vista della cerimonia di premiazione degli Oscar del 3 marzo 2025, saranno l’annuncio della quindicina finalista il 17 dicembre e della cinquina, il 17 gennaio 2024. Tantissimi sono gli appuntamenti che attendono Vermiglio. Maura mi ha raccontato che, da qui a fine anno il film parteciperà a una trentina di festival internazionali, mentre prosegue il suo tour nelle sale italiane dove, grazie anche all’ottima comunicazione e al passaparola, Vermiglio sta avendo un box office d’eccezione per un film italiano d’autore o meglio d’autrice.

Vermiglio è un film che ti entra dentro e che fa vibrare a lungo le sue voci, le sue immagini, le sue storie. Qualche critico, non a caso, ha parlato di cinema dell’incanto: una cristallo delicato che non si infrange mai, anche quando il film arriva a veicolare vicende dolorose e drammatiche che sconvolgono le vite dei protagonisti. Un film di poesia, nato dall’immaginazione e da un sogno legato al padre della regista e che prende lo spettatore per mano, guidandolo con estremo rigore in un mondo lontano storicamente, ma che non smette di risuonare nel presente. Al centro c’è la numerosa famiglia Graziadei (madre, padre, otto figli, tra cui le tre sorelle Lucia, Ada e Flavia, il piccolo Pietrin, una zia vedova e suo figlio reduce) e la comunità del paese di Vermiglio in Val di Sole, nell’anno che segna la fine della seconda guerra mondiale, il 1944. Ma c’è anche la natura forte del paesaggio montano non meno protagonista di donne, uomini, bambini e animali e che impone la sua presenza viva e pulsante all’interno del film, secondo l’incedere e i mutamenti delle quattro stagioni, così come del giorno e della notte. 

About the authorMaria QuinzDentro di me è piuttosto affollato. C'è quella che scrive, traduce e adora leggere, ritagliandosi attimi di quiete e [...] More
Ho visto Vermiglio due volte e credo che lo rivedrò ancora. Sono così tante le stratificazioni al suo interno, così come le trame e le sequenze che emozionano, ingenerando anche tante riflessioni. E altrettanto affascinante è parlare con Maura Delpero. Si possono passare ore ad ascoltarla. Per quello che dice, ma anche per come lo dice. Tra le cose che colpiscono di più conversando con lei c’è la profondità della sua voce, unita alla ricchezza dell’eloquio e al rigore del suo pensiero. Maura possiede una personalità intensa, riflessiva e al tempo stesso passionale e intuitiva, ma sempre con i piedi ben piantati a terra. Durante la nostra conversazione, la regista usa parole puntuali, evidenziando una volta di più, quanto lavoro meditato e vissuto in profondità ci sia dietro il suo cinema. In occasione dell’intervista ho voluto porle, in particolare, qualche domanda sulla sua regia, più che sulle vicende al centro di Vermiglio, un po’ perché su questo tanto è già stato scritto e da fonti molto autorevoli, un po’ perché mi sembrava interessante raccogliere qualche esperienza di un’autrice di talento così sensibile come Maura, a proposito di  quello che è uno dei mestieri artistici più complessi e affascinanti. Un mestiere che richiede tanta dedizione e passione, in stretta commistione tra arte e vita e che oscilla tra poli opposti: tra libertà creativa individuale e i vincoli del lavoro collettivo, tra cura del particolare e un’ampia visione d’insieme.
Foto dal backstage di Vermiglio © Cinedora Production, Lucky Red Distribution

Maura, l’idea del film si lega alla tua storia familiare. Ti sei domandata – e in che termini – se tale vissuto fosse in grado di parlare ad altri?
In generale ritengo sia sempre doveroso porsi questo interrogativo quando si fanno film e altrettanto importante – almeno per quanto mi riguarda – è riflettere su quanto un film riesca a coniugare il particolare con l’universale. A maggior ragione, in un film come questo, in cui la materia trae origine dal vissuto personale. Nella lavorazione di Vermiglio, dopo una sceneggiatura e strutturazione iniziali, ho avuto l’opportunità di partecipare alle application dei laboratori internazionali di TorinoFilmLab, confrontandomi con colleghi di tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Bulgaria, all’Africa, e mi sono tolta ogni dubbio al proposito: ho capito, sulla base dei riscontri, che stavo lavorando su tematiche con un potenziale universale. Laddove invece c’erano questioni che sentivo potessero scivolare nel privato, ho aggiustato il tiro. Mi sono anche accorta che la sceneggiatura del film si strutturava su due scelte rilevanti in tal senso. La prima era la collocazione della vicenda in un’annata precisa, il 1944: un momento storico, segnato dalla fine del secondo conflitto mondiale, che sentivo avrebbe potuto incarnare un crocevia tra antico e moderno, tra un mondo passato e il mondo che abbiamo ereditato. Dall’altra mi sono resa conto che stavo raccontando un universo piccolo ma centrato su eventi forti della vita, come la nascita e la morte: questioni capitali e quindi anche universali. 

Sono tanti i temi che attraversano “Vermiglio” e che trascendono il contesto, penso ad esempio al tema del desiderio e dell’amore…
È vero. Anche per quanto riguarda l’amore, credo che rispetto al 1944 siano cambiate le modalità e il lessico, ma che le dinamiche profonde che contraddistinguono la relazione tra innamorati siano rimaste le stesse. Mi è sempre piaciuto il saggio di Roland Barthes “Frammenti di un discorso amoroso”. Ricordo che in alcuni passaggi è descritto lo stato d’ansia in cui versa l’innamorato in attesa di una telefonata e, venendo al film e al personaggio di Lucia che attende un biglietto da Pietro, non vedo grande differenza tra lei che aspetta un messaggio scritto a mano e una ragazza che attende un whatsapp. Credo che non sia difficile immedesimarsi in Lucia e provare empatia per lei. Si tratta semplicemente di vedere le cose in un’altra luce. Quello che ci scorre davanti è pur sempre qualcosa che ci appartiene, anche se collocato in uno spazio-tempo lontano. Il film del resto non racconta un mondo esotico, ma un mondo in cui affondano le nostre radici, con cui ancora dialoghiamo.
Anche tanti altri temi, che critici e spettatori hanno colto, come la questione del femminile e del maschile, la complessità della maternità e del rapporto genitori e figli, il patriarcato, sono condizioni ancora attuali nella nostra società, seppur con tratti di diversità rispetto al 1944 e di cui ne riconosciamo le origini, la genesi e gli sviluppi nel presente. All’interno della stessa famiglia si vede, per esempio, come tra le tre sorelle ci sia un cambio generazionale dall’una all’altra e anche come il padre, seppur incarnando un uomo di altri tempi, abbia già in sé dei tratti di modernità. Vermiglio, secondo me, è un film che arriva agli spettatori perché riesce a trascendere il privato per diventare pubblico, così come il tempo e lo spazio. 

Frame di Vermiglio © Cinedora Production, Lucky Red Distribution

Si coglie in “Vermiglio” una fusione tra luoghi e personaggi. Come hai lavorato con gli attori? E che peso ha avuto la cosiddetta “magia del set”, nelle scelte di regia…
Mi verrebbe da dire che tutto avviene in fase di ripresa, perché il cinema è una arte che, per suo statuto, ha a che fare con l’estemporaneità. Però personalmente credo molto nella preparazione e sono molto meticolosa, anche perché finora non ho avuto il lusso di girare con tempi lunghi. Sono arrivata sempre preparatissima sul set, non solo per il poco tempo a disposizione, ma anche perché lavorando con materiale “fragile”, come i bebè, i bambini, gli animali e con condizioni climatiche difficili, come la neve, ho dovuto essere il più possibile concentrata e decisa. Ho dedicato quindi molto tempo alla preparazione, con l’obiettivo di arrivare tutti – io, gli attori, le maestranze – molto “oliati” sul set, relazionandoci tra noi come fossimo una grande famiglia che si ritrova a fare quello che ha sempre fatto. Questo era un po’ il mio obiettivo e quindi ho lavorato a fondo perché gli attori diventassero famiglia, perché nei letti e nei diversi ambienti del film, dalla casa alla stalla, al bosco, ci stessero in maniera naturale, in particolare i più piccoli. 

Come è stato lavorare con i bambini?
Lavorare con i bambini è difficilissimo da una parte, ma dall’altra, se ci si lavora bene, riserva grandi soddisfazioni. I più piccoli hanno un diverso sguardo sulle cose, più lieve e fiducioso. E questo era un elemento preziosoche sarebbe stato un peccato non fare emergere in un contesto duro come quello raccontato in Vermiglio. I bambini hanno anche un loro modo irriverente e tenero di dire le cose. Penso alla figura di Pietrin, colto in quell’età in cui si vive ancora la gioia della ripetizione e ci si emoziona ascoltando per l’ennesima volta la stessa storia prima di dormire, a differenza di noi che ci annoiamo. Lui e gli altri piccoli hanno dato molto al film, costituendo una sorta di coro greco, con una propria visione degli accadimenti, sulla base di ciò a cui avevano accesso tramite la mediazione degli adulti ma anche attraverso il loro particolare filtro sul mondo delicato e tenero. Raccontarli in Vermiglio ha significato dare vita a un racconto nel racconto all’interno del film. Quando da piccola ascoltavo parlare gli adulti, coglievo solo alcune parti dei discorsi e poi mi ritrovavo a fantasticarci sopra ricreandone delle storie tutte mie e che sono un po’ anche quelle che cerco di raccontare oggi attraverso il mio cinema.

Frame di Vermiglio © Cinedora Production, Lucky Red Distribution

E invece in fase di montaggio, che obiettivi ti sei prefissata?
Da diversi anni lavoro con lo stesso montatore Gianluca Mattei, che ha montato il mio primo documentario, vent’anni fa, e con cui c’è un’ottima intesa. Gianluca sostiene che le mie sceneggiature sono diventate con il tempo sempre più “montate”, perché già nel girato si indovina il taglio che intendo dare alle immagini. Devo dire che sempre di più mi interessa arrivare a un’immagine “sinestetica”, con una sua densità, che contenga in sé quanto necessario e che non richieda ulteriori sequenze, passaggi didascalici di commento per esprimersi appieno. Anche per questo motivo non amo particolarmente i piani, che uso di rado. Lavoro sempre molto per arrivare a girare quell’immagine che sia capace di fermare il tempo in maniera sinergica. In Vermiglio ho anche avuto la fortuna di lavorare con il direttore della fotografia russo Mikhail Krichman, un professionista di lunga esperienza che ho sempre ammirato nei suoi film. Anche con lui non è mancato il confronto e il dialogo approfondito nella fase di pre-produzione. Abbiamo passato del tempo insieme, visitando le location del film, gli interni e gli esterni in natura, studiandone le luci e i colori secondo le diverse stagioni e nei differenti momenti della giornata. 

Anche il sonoro è una presenza viva in “Vermiglio”, che rivela grande cura, dalle scelte musicali all’uso narrativo del fuori campo…
Anche nel sonoro c’è stato un lavoro alla base con l’idea che tecnica e narrato, in qualche modo, si corrispondessero. Abbiamo voluto inserire in più sequenze dei fuori campo visivi e sonori con l’intento di rispecchiare la scelta di quello che è il grande fuori campo narrativo: la seconda guerra mondiale. Il conflitto è il grande off, che non si vede mai a Vermiglio, ma che si sente sempre, e le cui schegge influenzano la vita di tutti o arrivano attraverso gli occhi muti dei soldati che scappano dal fronte. Per me è sempre importante che ci sia una corrispondenza tra forma e contenuto e una ricerca di dialogo, il più possibile integrata, tra le due dimensioni. Anche le decisioni musicali, con la scelta di avere solo musiche diegetiche (cioè interne alla narrazione) anche quando le abbiamo fatte scivolare sulle sequenze successive, hanno sempre un’origine interna al racconto, come il grammofono del padre o i canti dei Cantori da Verméi nelle feste di paese.
Questo scivolare della musica, che da interna alla narrazione diventa esterna, è frutto anche dell’idea di inanellare le scene tra loro, facendo da eco alla narrazione della vita di una grande famiglia, in cui i destini di uno influenzano, a domino, quelli degli altri e in cui ogni membro è un individuo, ma anche comunità: per cui questo inanellarsi delle relazioni rimanda all’inanellarsi dei ponti sonori e viceversa. Ci sono poi degli anticipi sonori di voci, che scivolano nelle scene successive e che quindi da extra-diegetici diventano diegetici. Per esempio si parla di una persona e mentre si discute sul suo conto, nell’immagine successiva la vediamo inquadrata. Anche questo era un aspetto che mi interessava: ripetere tecnicamente quello che avviene nelle grandi famiglie, quando un avvenimento è materia di discussione intorno al tavolo della cucina e diventa poi un problema che coinvolge tutti, cosa che forse, non avviene più nella contemporaneità dove si tende all’atomizzazione e le famiglie sono sempre meno comunità.

Frame di Vermiglio © Cinedora Production, Lucky Red Distribution

Il film ha iniziato il suo viaggio nelle sale in giro per il mondo. Come vivi questo momento e quali feedback hai avuto?
In generale quando promuovi un film, la sensazione è un po’ quella di quando tuo figlio inizia ad andare all’asilo e comincia a staccarsi da te… In Vermiglio quest’impressione è stata molto forte, anche perché ho curato tantissimi aspetti del film: miei sono il soggetto, la sceneggiatura, la regia e sono anche co-produttrice con Cinedora. Poi c’è da contare il legame personale con i luoghi, il coinvolgimento di mio marito come attore e produttore e la presenza di mia figlia appena nata, che ho allattato sul set… Diciamo che non mi sono fatta mancare nulla: volevo esserci “dalla gestazione e gravidanza fino all’ingresso all’asilo” del film! 
Per quanto riguarda i feedback, aldilà della soddisfazione legata ai premi e ai risultati al botteghino, sono felicissima perché quando ho presentato Vermiglio nei cinema e ho conversato con il pubblico in sala, ho sentito grande calore e empatia e questa è sempre una grande magia. Sono uscite poi tante recensioni, dalle più autorevoli a quelle indipendenti, da parte di critici come di singoli spettatori che mi hanno scritto, e ho trovato degli interlocutori davvero attenti, che hanno notato molte sfumature su cui abbiamo lavorato nel tempo. Il film ha risvegliato nelle persone tanti vissuti condivisi, penso alla complessità della maternità o al dolore della perdita, ma anche a ricordi e racconti di famiglia legati ai nonni o ai bisnonni. Io tengo sempre conto dello spettatore quando faccio un film, prevedendone una partecipazione attiva e auspicandomi che il film diventi qualcosa nella sua vita. Ogni film quando entra in sala diventa di tutti, diventa cittadino pubblico. È quindi è stata una grande gioia sentire che Vermiglio, attraverso il filtro personale degli spettatori è diventato un po’ cosa loro.

SHARE
//