L'obiettivo come taccuino
Fotografare le Alpi #18. Intervista ad Andrea Aschedamini

"Hai paura del buio?" © Andrea Aschedamini
Andrea Aschedamini, milanese di 54 anni, vive al confine tra Milano e Bergamo, lungo l'Adda, con la compagna Cristina Locatelli, sua socia in affari. Rappresenta la terza generazione della Litografia Solari di Peschiera Borromeo. "Mi piace definirmi foto-litografo - racconta -. Abbiamo una piccola azienda che stampa dal 1960 e oggi siamo ancora fieramente attivi nonostante le difficoltà". Ha sempre affiancato il padre nel lavoro della stampa, partendo dall'analogico per approdare al digitale; ma la fotografia è stata il suo sfogo artistico fin da bambino, quando lo zio gli regalò una Olympus OM-1 che conserva e usa tutt'ora.
Da dieci anni si occupa di fotografia e grafica per clienti istituzionali e aziendali, ma è la montagna la vera valvola di sfogo creativa. Anni fa, Aschedamini ha pubblicato un libro fotografico in bianco e nero dedicato all'Engadina con l'editore Alpes: il titolo in romancio è "Umauns sainza amur sun ervas sainza flur", gli umani senza amore sono come i campi senza fiori. Ora sta lavorando a un nuovo progetto con la sua Fujifilm X Pro3, una mirrorless che porta sempre con sé. "Uso la macchina come un taccuino: è piccolina, la porto ovunque - spiega -. Ho compagni di montagna che conoscono tutte le valli e le vette; io non mi ricordo niente. Uso la macchina fotografica per avere memoria visiva e storica quando torno a casa". Il progetto, ancora senza nome, ha una linea definita e potrebbe presto diventare un nuovo volume fotografico.

Andrea, come nasce questo progetto fotografico?
Come voglia di esplorare il paesaggio, alpino ma non solo, attraversarlo e interpretarlo a modo mio. Lo faccio guardando le montagne a est e ovest ogni mattina e, appena posso, "fuggendo" verso la montagna per camminare, pedalare o sciare. Da 10 anni raccolgo immagini, da quando ho acquistato questa fotocamera che ha acceso una scintilla. Ricordo il primo scatto: fotografai la Presolana durante una camminata con mio figlio. Era dicembre, con pochissima neve, solo una lieve spruzzata che chiamai "neve digitale". Non avevo il teleobiettivo a cui ero abituato e feci uno scatto tecnicamente imperfetto ma che mi colpì molto. Da lì ho iniziato a raccogliere immagini simili.

Come si declina il tuo progetto alpino?
L'editore e amico Daniele sa trovare connessioni tra immagini e testi di autori che hanno viaggiato negli stessi luoghi. L'idea sarebbe riunire questo mio mondo visivo con testi di scrittori che parlano di montagna, come Rumiz o Cognetti, in assonanza con le mie immagini. Le foto non sono pianificate: il mio sforzo è cogliere ciò che mi colpisce nel momento esatto in cui lo incontro: può essere un dettaglio, un ritratto, oppure vecchi impianti dismessi o architetture ultra futuristiche. L'unico elemento comune è che uso quasi sempre la stessa ottica: un 35 o un 50 mm.


Dal punto di vista temporale, la prima e l'ultima sono in apparenza simili ma molto diverse. Sono immagini fatte in un cantiere per un cliente di cui seguo i lavori in stabilimenti giganteschi e mi lascia fotografare ciò che mi piace: materiali, forme, persone che lavorano. La prima inquadra detriti: una "montagna" di terra marrone che, presa con il 35 mm, sembra una vetta con il cielo blu di Buccinasco. L'ultima è il ritratto della Biancograt, famosa cresta del Piz Bernina. Con mio figlio e Cristina siamo saliti con gli impianti fino alla terrazza panoramica a 3.300 metri, trovando la cresta perfettamente perpendicolare all'obiettivo. Queste due foto iconiche sono state scattate senza fatica, a differenza del mio solito percorso caratterizzato da grande impegno fisico con obiettivi fissi: per un ritratto devi avvicinarti, per un panorama allontanarti.
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Principalmente l'utilizzo del 35 mm: un obiettivo "normale", non estremo. Le foto, avendo quasi sempre la stessa ampiezza visiva, si integrano facilmente in un progetto. Perseguo anche un editing minimale: mentre oggi va di moda il dynamic range molto spinto, la mia idea è l'opposto. Uso vecchie lenti della mia prima Olympus perché hanno un'incisività minore sui file digitali. Il mio approccio alla montagna è lo stesso che ho in cantiere o con l'architettura: privilegio linee dritte, parallele, togliendo piuttosto che inserendo elementi nell'inquadratura.

Come nasce l'idea di indagare le Alpi?
Sono stato portato in montagna appena nato: non ricordo vacanze di Natale che non fossero in montagna e i miei primi tentativi sugli sci risalgono agli anni '70, quando avevo 5-6 anni, nelle valli bergamasche. La montagna si intreccia con la mia storia personale, l'ho frequentata in tutte le fasi della mia vita. Le Alpi sono state la mia palestra perfetta per sviluppare il mio modo di vedere. Ho vissuto infanzia e gioventù in Val Seriana, dove i ragazzi della valle mi hanno insegnato ad andare in montagna non da milanese.
Riconosci un'evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Il cambiamento è netto: dal libro in bianco e nero sono passato a scattare esclusivamente a colori, un ribaltamento di finalità. Ho attraversato anni di studio della fotografia – sono autodidatta, ma divoro libri – centrati sulla trilogia di Ansel Adams. Vengo da quel mondo di immagini super classiche in bianco e nero, perfette e pattinate. Ora vado in direzione opposta, verso una sorta di reportage fotografico di montagna. Collaboro con la rivista "Orobie" e ho raccontato con la mia piccola macchina il viaggio risalendo l'Adda dalla foce alle sorgenti. I miei scatti attuali sono meno studiati, oggi. Chi guarda le mie foto incontra me, il mio personale modo di vedere e interpretare il paesaggio.

Con quale approccio hai scelto di immortalare l'arco alpino?
La mia idea è di non giudicare, ma trovare qualcosa di bello da poter riproporre a chi osserverà il mio lavoro. È l'opposto di un lavoro di denuncia, anche se mi indigno quando vedo spazzatura in posti meravigliosi. La mattina cambio spesso strada per andare al lavoro, ma ovunque vada trovo incuria, insegne orrende. Sto riprendendo anche quello, cercando di farlo diventare "bello"; come nei paesaggi di Luigi Ghirri. Potrei definirlo un approccio laico.
Che cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
La montagna, la fotografia, il turismo, la gente che abita le vette: tutto è una scoperta meravigliosa. A Saint Moritz andiamo spesso e senza giudizio – perché ognuno vive la montagna come preferisce – mi piace attraversare quei luoghi e osservarli. In una vetrina ho fotografato un orso impagliato e ingioiellato. Di contro, c'è San Simone in Val Brembana, dove sciavo con mio padre negli anni '70: da 15 anni hanno dismesso gli impianti, lasciando morire questo anfiteatro bellissimo a 1.700 metri. Ho una foto dell'anno scorso con la scritta "Benvenuti a San Simone" che sembra Sarajevo dopo il bombardamento. Molte famiglie portano lì i bambini con i bob; è diventato un paradiso per scialpinisti. Ho scoperto luoghi diametralmente opposti che possono comunque darmi qualcosa fotograficamente.

Com'è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Un amore maturo. Non ho mai avuto fretta di arrivare: il mio è un approccio tranquillo, da escursionista. Non ho necessità di compiere imprese: spesso con gli sci, quando gli ultimi 50 metri sono i più tecnici, mi fermo prima. Ora amo soprattutto attraversare i boschi alti, al confine, perdermi un po'. Mi piace camminare, starci dentro, magari portando un'amaca per fare una pennichella tra i larici in camminate senza meta. Mi è capitato in Val d'Ultimo, un posto che amo vicino Merano. In montagna mi sento quasi a casa. Sto nella mia zona di comfort, che include arrivare in bicicletta e montare la tenda di notte nel bosco.

Quale consideri il tuo scatto migliore?
Per affezione, sceglierei uno scatto del libro sull'Engadina. Ho due o tre scatti che amo: una foto super grafica del Piz Bernina, una del Piz Palü e una del Bellavista, dei bianco e nero che sembrano quasi disegni. Nella prima, con prospettiva frontale della montagna iconica delle Alpi Retiche, l'effetto è simile a un disegno a china giapponese.

Senti desiderio di catturare un'immagine ancora mai scattata?
Forse no, ma ci sono posti dove vorrei andare: sciare a Hokkaido, in Giappone, è un sogno da una vita. Però non andrei per fotografare quel posto, ma per godermi il luogo e solo dopo immortalarlo. Non ho mai avuto l'ansia di arrivare a tutti i costi in un posto per fotografarlo. Non avendo un committente, faccio ciò che amo. Probabilmente la prossima sarà la foto desiderata, ma senza pianificazione. Invece vorrei chiudere questo progetto entro fine anno, dopo quasi dieci anni con questa macchina che mi dà continuità stilistica. Solo allora potrò capire cosa è successo al mio sguardo in un decennio, se è cambiato.