Se il Rock racconta di quel periodo di storia dimenticato: ecco, Südtirock – Suoni di confine
Da appassionata di musica ed ex rockstar wannabe, non ho potuto non amare questo racconto per immagini che arriva forte come un riff di chitarra, che ha dell’incredibile e un po’ sconcerta, disturba. Sto parlando di Südtirock – Suoni di confine, il film documentario nato da un’idea dell’eclettico scrittore e giornalista Jadel Andreetto insieme al regista bolzanino Armin Ferrari, che racconta i quindici anni di storia del Sudtirolo e della scena musicale fiorita tra gli anni ’80 e ’90. Attenzione però, non si tratta di una celebrazione sterile. La musica è il tema centrale, ma anche un pretesto per raccontare quegli anni di fuoco, quando il terrorismo infiammava la provincia e la paura serpeggiava tra la popolazione. Il documentario riunisce interviste con storici, linguisti, giornalisti e musicisti, dove la musica fa da cassa di risonanza ad un capitolo di storia locale troppo spesso dimenticato, forse rimosso dalla coscienza collettiva. I gruppi coinvolti sono così tanti, che se prendete carta e penna durante la visione, otterrete senza troppo sforzo una playlist eterogenea, tra gruppi che ancora calcano palchi internazionali e altre chicche da riscoprire.
L’ascesa di gruppi punk, heavy metal e dalle sonorità sempre più dure, si intreccia con la vicenda complessa di un territorio che è tutt’altro che tranquillo, delicato e bucolico come lo si potrebbe immaginare dall’esterno. L’immagine del paradiso turistico da spot pubblicitario, viene spazzata via a colpi di materiali d’archivio, dove (ri)scopriamo una Bolzano che probabilmente non esiste più ma che, per fermento musicale e atmosfere cupe, pare somigliare a una Seattle degli anni ’90. Una Bolzano operaia, grigia, violenta, arrabbiata; una città fatta anche di quartieri sorti dalla parte sbagliata del Talvera e spaccata in due dalle tensioni sociali, ma dove stranamente la musica può essere l’unico contatto tra due gruppi etnico-linguistici che vivevano separati. Come quando, si racconta, ai concerti di Chuck Berry, bianchi e neri finivamo per ritrovarsi insieme, superando i confini infami della segregazione per scatenarsi a suon di rock n’roll . Del film documentario Südtirock – Suoni di confine, visibile qui in streaming su Rai Alto Adige, continuiamo a parlare in dialogo con il suo creatore Jadel Andreetto.

Scrittore, giornalista e anche traduttore: Jadel, da dove arriva la tua passione per la scrittura, il raccontare storie e, più in generale, per la comunicazione?
Da quando ho memoria, ho sempre avuto la passione per la scrittura. Già da bambino scrivevo temi strampalati in classe e alle superiori, anziché prendere appunti, scrivevo racconti che poi distribuivo ai compagni di classe. Ho sempre avuto questa spinta, questa voglia di esprimermi con la parola scritta. All’università, anche se ho preso altre strade, non ho mai smesso di scrivere e all’inizio degli anni 2000, ho iniziato a pubblicare per case editrici come Mondadori, Rizzoli e Bompiani. Contemporaneamente ho iniziato a scrivere per alcune testate giornalistiche locai e poi nazionale e poi è diventato lo scrivere è diventato a tutti gli effetti una professione. Diciamo che sono riuscito a mettere insieme tante cose che riguardano la scrittura e farne qualcosa di cui viverne. Certo non navigo nell’oro, ma sono felice.
Si, esatto non vivo più a Bolzano dagli anni ’90; praticamente ho vissuto metà della mia vita in Alto Adige e forse un po’ più della metà a Bologna e in giro per il mondo. Il rapporto con la mia terra d’origine è un po’ strano perchè, paradossalmente, da quando non vivo più lì ho cominciato a guardarla con altri occhi e a percepirla con altre sensibilità. Ogni volta che dicevo di essere di Bolzano, la gente si incuriosiva: un posto un po’ periferico, strano. E allora provavo a raccontare la mia città e la storia del territorio; questo mi ha spinto a cercare di capire cosa ci fosse davvero di così strano e diverso tra queste montagne. Per chi vive lì è tutto normale, ma è ovvio che non è così: basta mettersi nei panni di qualcun altro e osservare le cose da un altro punto di vista. Io ho un po’ una “doppia visione”, la capacità di vedere le cose come chi è nato, cresciuto e ha vissuto parte della propria vita adulta in un posto, ma anche di chi guarda da fuori quella stessa realtà. Ultimamente devo dire che sto indagando parecchio la mia terra d’origine, perchè è un posto dove l’alterità è un concetto quotidiano, carico di contraddizioni che non poi così nascoste e difficili da individuare. È sicuramente un luogo interessante di cui scrivere. Forse ritornare con la scrittura da quelle parti è un anche un modo per chiedermi, qual’è stato il motivo che mi ha spinto ad andarmene e anche a non tornarci, se non sporadicamente.
E ad oggi sei riuscito a darti una risposta?
No, decisamente no. La sto ancora cercando nei libri e nei film che scrivo.
Come hai detto tu, un luogo carico di contraddizioni e in cui c’è sicuramente anche una certa mistificazione. Montagne mozzafiato, mele e mucche al pascolo, ordine e cordialità, masi pittoreschi, ricamini e via discorrendo. Questa è l’immagine stereotipata che molto spesso si ha della provincia di Bolzano dall’esterno. Eppure quello che emerge nel tuo documentario Südtirock è un’immagine decisamente opposta e, se vogliamo, anche disturbante.
Certo. Alle presentazioni dei miei libri o del podcast che abbiamo prodotto per la Rai, tra i non-bolzanini lo shock è una reazione comune. Penseranno: “Ma come? Io quel posto lo collegavo ai mercatini, ai balconi con i gerani e alla social democrazia”. L’immagine dell’Alto Adige che viene continuamente proposta è quella di un paradiso turistico. Infatti quando racconto di una Bolzano che fino a qualche decennio fa era a tutti gli effetti una città operaia, dedita all’industria pesante, o che a 14 anni sono stato svegliato nel cuore della notte da quello che sembrava essere un tuono che squarciava l’aria ma non lo era; che la prima bomba è scoppiata negli anni ’50 e l’ultima del 1993, quasi non possono crederci. Quando racconto che tanti finiscono la loro vita arenati al bancone di una bar e che tra gli anni ’70 e ’90, altro che piste da sci e neve sintetica, a nevicare in città era l’eroina, nell’espressione di chi ascolta non puoi non notare perplessità, stupore e un senso di estraniamento totale.

Secondo te, sulla storia recente dell’Alto Adige c’è più un’ignoranza a livello nazionale o un certo intento locale di omettere un certo tipo di passato?
Mah, forse un po’ entrambe le cose. Sicuramente a livello nazionale c’è una diffusa ignoranza sul tema. “Ah si, dove si parla tedesco. Ma siete in Veneto, no?”. Si è spiacevole, ma d’altronde sfiderei qualsiasi bolzanino a raccontarmi qualcosa di Isernia. La verità è che, anche se in Alto Adige –o Südtirol che dir si voglia– c’è la tendenza a credersi al centro del mondo e per cui tutti dovrebbero conoscere la nostra storia, in realtà nessuno ci caga fuori dai confini provinciali (ride). A livello locale non credo ci sia volontà politica e sociale così netta di nascondere il passato, quanto piuttosto un grande rimosso psicologico. Anche durante le interviste che abbiamo raccolto per Südtirock, che si concentra sulla scena musicale tra gli anni ’80 e ’90, e parlavamo di terrorismo e bombe molti pensavano a un tempo più lontano, agli anni ’60. È come se una fetta di storia, di passato, di coscienza collettiva fosse stata rimossa. Se vogliamo, un po’ come il colonialismo italiano, quei 100 anni di storia di cui nessuno parla mai; un altro grande rimosso. Colonialismo che forse a che fare un po’ con la regione; se ci pensi Bolzano è un po’ l’ultima colonia rimasta.
Possiamo davvero parlare di colonialismo anche in regione?
Uno storico rigoroso direbbe di no perchè la colonie in realtà erano fuori dal territorio nazionale e con una tassonomia precisa, ma secondo me il Südtirol è una colonia a tutti gli effetti. In Alto Adige, c’è stata un colonizzazione forzata, culturale e linguistica che ha portato a tutta una serie di conseguenze devastanti non solo per la sia popolazione locale, ma anche per quelli che si sono trasferiti qui per necessità.
Prima mi raccontavi di essere sempre stato appassionato di musica e che hai iniziato a suonare giovanissimo. Raccontami di questa tua altra passione e di come ha influenzato la scelta dell’argomento cardine di Südtirock.
Anche se è sbocciato più tardi con l’adolescenza, l’amore per musica mi accompagna da tanti anni, così come quello per la scrittura. Diciamo che ad un certo scopri il punk e poi basta, la tua vita cambia per sempre (ride). Ho cominciato a suonare il basso da ragazzino e attorno ai 14 anni scrivevo anche i testi della canzoni della band di cui facevo parte all’epoca. Adesso che ho i miei anni ascolto un po’ di tutto, ma continuo ad ascoltare ed esplorare quel tipo di musica derivante da una matrice rock, sono ancora oggi un vecchio punkettone (ride). Questa passione per la musica ha sicuramente influenzato la scelta dell’argomento del documentario e il rapporto tra scena musicale e questioni sociali mi incuriosiva molto. Tuttavia, all’epoca dei fatti pero io ero in medias res, nel mezzo della cosa, e non riuscivo a distaccarmi; così come i tanti musicisti che hanno partecipato al documentario, ho cominciato a ragionarci più approfonditamente durante le interviste. Mi sono chiesto se tutta quella violenza in cui eravamo immersi tra gli anni ’80 e ’90, il terrorismo feroce, i due serial killer a piede libero, la droga, avessero in qualche modo influenzato la contro-cultura giovanile e, di conseguenza, la scena musicale. Ė curioso che a Bolzano e in tutta la provincia, in quegli anni ci fu un fiorire di band che di dedicavano a generi sempre più estremi. Se fino agli anni ’70 il massimo della spinta sull’ acceleratore era il blues rock, da lì in poi molti gruppi che si diedero al punk e al post-punk, poi metal, all’heavy-metal e versioni sempre più violente come il brutal, il death metal e via dicendo. Tutta quella violenza che veniva sublimata nei garage a suon di chitarre distorte non aveva forse a che fare con la violenza che c’era fuori? Forse quella musica sempre più dura era una valvola di sfogo per buttare fuori e affrontare quella situazione di disagio che non capivamo perchè c’eravamo in mezzo? Quello che Timothy Morton definirebbe come iperoggetto.
Ovviamente, io la riposta definitiva a queste domande non ce l’ho, però mi sembra di capire che inconsciamente è stato proprio così.
Molti dei feedback che ho ricevuto da persone extra regione coinvolte nel mondo musicale sottolineavano il fatto la scena era particolarmente florida. In tanti mi hanno detto: “pazzesco, voi avevate in tanti, mentre da dove venivo io c’erano due band e venivano guardati come deficienti.” È vero, eravamo così tanti che ho raccolto 30 ore di interviste per 60 minuti di film e con le band che non sono riuscito ad inserire avrei ancora materiale per Südtirock 2 e forse anche 3. Negli anni che raccontiamo in Südtirock, è vero, c’era una scena pazzesca di cui noi stessi non eravamo pienamente consapevoli. Una scena che purtroppo però ha fatto fatica ad uscire dai confini regionali, se non verso il nord Europa.

Armin Ferrari è il tuo partner in crime in questo progetto. Anche lui bolzanino e anche lui musicista e appassionato di musica. Come si è sviluppato il progetto e quali sono state le sfida più impegnative che avete dovuto affrontare?
Ho conosciuto Armin sul set di A noi rimane il mondo, un film documentario dedicato al collettivo Wu Ming e alle loro varie collaborazioni. Io e Armin abbiamo giusto qualche anno di differenza, ma sono quegli anni che costituiscono già uno stacco notevole: a Bolzano non ci siamo mai incrociati anche se entrambi suonavamo; io ero già a Bologna quando lui frequentava gli stessi posti che avevo bazzicato anche io precedentemente. Anche i nostri riferimento musicali hanno circa un decennio di distanza: io punk, lui grunge. Nella mia testa il nome Südtirock esisteva già, e sapevo di voler raccontare questa storia ma non sapevo ancora come. Un romanzo, un podcast… non avevo ancora capito quale forma avrebbe assunto. Quando ho scoperto che anche Armin era di Bolzano, ho iniziato a parlagli dell’idea e gli ho chiesto se farci un film fosse un’idea poi così assurda. Con (in)coscienza lui si è buttato subito entusiasta nel progetto: abbiamo iniziato a lavorare insieme e ci siamo trovati subito bene. Le nostre affinità di Bolzanini sono emersi e abbiamo scoperto di avere anche una compatibilità di visioni e progettualità. Rompendo le scatole a tantissimi musicisti che conoscevamo e chiedendogli di ripescare registrazioni dalle cantine, abbiamo raccolto tantissimo materiale d’archivio. Abbiamo spulciato nastri e digitalizzare cose al limite del digitalizzabile, tanto erano consumato e distrutte. Da altri archivi provinciali che non c’entravano nulla con la musica e dall’archivio Rai, poi, abbiamo recuperato cose preziosissime, inedite e anche piuttosto potenti dal punto di vista del linguaggio visivo. Successivamente abbiamo iniziato ad inviare una bozza di progetto con la poetica del documentario alle varie persone che volevamo coinvolgere, spiegando loro che non si trattava di un progetto celebrativo della musica dell’epoca. In tantissimi hanno aderito subito: musicisti, giornalisti, storici e critici musicali affrontano la telecamera dietro cui io e Armin ci celiamo. Il documentario poi si è costruito un po’ anche in corsa, in base agli spunti e riflessioni che emergevano durante le riprese. La più grande difficoltà che abbiamo incontrato è stata proprio rompere il ghiaccio con gli intervistati: la domanda iniziale, che poi è finita anche nel trailer del documentario, così diretta non se la aspettava nessuno.
So che c’è un aneddoto particolare riguardo alla citazione con cui si apre Südtirock che vorresti raccontarci…
Quando abbiamo finito il film stavo cercando un citazione d’apertura, e valutavamo diverse cose: un pezzo di canzone di qualche gruppo coinvolto, una citazione colta per fare bella figura spulciando tra i miei filosofi e letterati di riferimento o altre citazioni di rockband. Non riuscivo a trovare niente che mi convincesse. Il documentario si apre proprio in un luogo simbolo della città e ho cominciato a ragionare sul fatto che noi abbiamo un’anomalia: non credo ci sia un’altra città italiana nella cui piazza principale c’è la statua di un musicista. Ho iniziato a leggermi un po’ i testi del cantore medievale Walter von der Vogelweide. Quando ho trovato la frase che chi vedrà il documentario leggerà all’inizio, sono rimasto di pietra. Era perfetta. I colori di cui parlava e quello che diceva rappresentano una delle tesi sottostanti al documentario. Questi secondo me sono i particolari, quella serendipità che aggiunge quel tocco in più. Walter aveva già capito tutto.

“Südtirock – Suoni di confine” è stato presentato lo scorso Giugno e pochi giorni dopo è andato in onda anche su Rai Alto Adige. Qual’è stata la risposta del pubblico?
Mio nonno diceva sempre “chi si loda, si imbroda”, però devo essere sincero: la risposta è stata eccezionale. Il documentario è stato presentato in prima mondiale al Biografilm Festival di Bologna, uno dei più grandi festival di documentari di tutto il mondo. Su 600 documentari è stato selezionato anche il nostro Südtirock, una cosa che sia io che Armin non ci aspettavamo assolutamente. Il sabato di Giugno in cui c’è stata la prima proiezione, nonostante in Tv ci fosse la prima partita dell’Italia agli Europei, e a Bologna l’apertura del festival di Repubblica e un concerto dei Tropical Factor, la sala era piena. Il documentario ha un ritmo abbastanza incalzante e tante delle persone presenti non conoscevano la storia e sono usciti dalla proiezione stupiti, meravigliati, pieni di domande ma sorridenti. In molti mi hanno avvicinato per ringraziarmi di avergli fatto scrivere una storia che non conoscevano e non potevano nemmeno immaginare. Ecco, io sono uno che racconta storie per vivere credo di proprio di poter dire di aver raggiunto il mio obbiettivo. Sempre a Bologna è stato poi riproposto in una piccola rassegna estiva e anche qui il pubblico si è dimostrato interessato. In regione, so che il documentario è andato in onda sulla Rai e anche qui sono arrivati molti commenti positivi. A Bolzano non c’è ancora stata una vera e propria proiezione, ma vorrei che fosse qualcosa di più… chissà magari un evento punk! C’è stato anche qualche contatto in merito alla diffusione sulle piattaforme di streaming, ma al momento non posso dire altro. Intanto ad Ottobre, tra pochi giorni in realtà, saremo a Berlino perché il progetto è stato selezionato anche dal festival Too Drunk to Watch e prossimamente voleremo anche oltreoceano, fino a Los Angeles.
La cosa che personalmente mi è piaciuta subito dai primi minuti, è la contrapposizione tra le immagini della Bolzano attuale, (ri)pulita e contemporanea, e quelle di una città tormentata che emergono granulose dai materiali d’archivio restaurati, che arrivano forti come un pugno allo stomaco e sfondano la superficie patinata di cui parlavamo prima. La Bolzano operaia, la case semirurali, l’architettura razionalista, il Talvera che taglia la città in due senza carezze, la separazione etnico-linguistico. Chi ci legge forse lo avrà già capito: In Südtirock – Suoni di Confine, la musica è si il tema principale, ma è anche un pretesto per raccontare un territorio. Non mi resta che porti la famosa domanda che tu stesso hai posto ai tuoi ospiti. Jadel, che cos’è il Südtirol per te?
E io ti rispondo come hanno riposto loro (ride). Non mi puoi vedere in faccia, ma sono basito anche io come loro. Eh…Che cos’è il Südtirol? Non lo so, continuo a non saperlo e continuo a chiedermelo. Ho trovato tante risposte tutte legittime, ma tutte parziali. D’altronde la verità non è mai una sola, no? Forse, piuttosto che “Che cos’è?” dovrei chiedermi “Com’è il Südtirolo?”. Però questa me lo tengo per il prossimo documentario.