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September 20, 2024
Le fogge delle rocce: la collettiva metamorfica di Dolomiti Contemporanee
Francesca Fattinger
Il paesaggio, dicevamo, che è un sistema delle permutazioni, una perturbazione, mica un’illustrazione: e questo vale anche per la lingua, e per i linguaggi, quando sono vivi.
Gianluca D’Incà Levis
Una mostra che munisce visitatrici e visitatori di lenti e di picconi e di mantelli ribollenti: ecco l’immagine che mi insegue, mi abbraccia, mi invade, strumenti per corpi, menti, carne e pensieri ribollenti appunto, vivi, vibranti, che danno vita, restituiscono vita, la riformano, la rimodellano.“Le fogge delle rocce”, la collettiva metamorfica di Dolomiti Contemporanee al Nuovo Spazio di Casso al Vajont, che, coerente con tutto ciò che fa ormai dal 2011 nelle Dolomiti, si inserisce nell’ampio progetto di arrampicata culturale che rifiuta il principio di inerzia e si fa promotore di “progetti polimorfi e multiprospettici per iniettare idee e pensieri praticanti” che si instaurano nella realtà e come strumenti fattivi ricostruiscono relazioni di senso tra enti e persone, cose e natura, paesaggio naturale e paesaggio umano.
Così tra i temi della stagione di Dolomiti Contemporanee 2024 c’è la geologia, eccolo il piccone e la lente, per scavare nelle specificità del territorio e quindi della montagna: “scienza per fare conoscenza”, perché “serve il pensiero, serve il logos come modalità pratica sulla realtà”, per creare “programmi di rigenerazione per strutture complesse e non succhiatori di memorie” dei luoghi: “luoghi dei vivi, non riservati alla commemorazione”, e nemmeno al turismo che appiattisce, stereotipa, banalizza. Un progetto che vuole creare occasioni ricerca: ed eccolo allora che appare il mantello ribollente, il motore, il pensiero praticante, che co-genera il paesaggio, ben lontani dal pensiero di un paesaggio incontaminato, ma all’opposto consci di una relazione strutturale tra l’azione umana e il paesaggio.
La mostra in questione quindi è una nuova occasione per Dolomiti Contemporanee di operare in luoghi della criticità per riattivarli come oggetti complessi e centri propulsori e quindi per riconfermarsi come “vettore e processo culturale che riprocessa le risorse e i paesaggi” in una visione trasformativa attraverso la tecnica e il linguaggio del contemporaneo. “L’artista da noi è un ricercatore, deve darsi il tempo di comprendere dov’è, prima di agire e creare”: 54 sono gli artisti e le artiste nazionali e internazionali che sono state invitate a fermarsi in residenza ed entrare in dialogo con il paesaggio con la collaborazione scientifica sugli aspetti geologici di Emiliano Oddone di Dolomiti Project. Lontani dallo specismo professionistico e la compartimentazione dei saperi si è creata l’occasione di un “cross over di ibridazioni tra scienza e arte e viceversa”: l’interazione con la conoscenza scientifica degli artisti tesa a una visione di responsabilità pubblica, a farsi scandaglio nella profondità del sapere e farsi “vibranza” di pensieri ed azioni per fondare un ragionamento critico libero.
Artisti e geologi quindi fianco a fianco, occhio a occhio, corpo a corpo, immaginazione a immaginazione, per cogliere la straordinaria ricchezza delle “crode”, rocce sedimentarie tipiche del Veneto, che come macchine del tempo trattengono, stratificano e concentrano la storia, la evocano e la spalancano, e solo se le si sa guardare e ascoltare si mostrano “gravide del senso delle cose”. Per capirle, e attraverso di loro addentrarsi anche solo all’inizio del lungo percorso della comprensione della montagna tutta, serve una postura dell’essere, serve una postura del pensiero fatta innanzitutto di domande: “cos’è una roccia, cos’è montagna? Quali sono i caratteri fisici e intellettuali che caratterizzano gli strati sedimentari? Quando una roccia è fatta? Come e cosa stratifica l’uomo? (…)”.
Questo per intraprendere un percorso di comprensione di cosa sono per gli artisti e le artiste “le fogge delle rocce” e quindi anche per noi pubblico che osserviamo, viviamo e ci relazioniamo alle loro opere interrogarci su che forma diamo alla montagna e a noi stessi, come la leggiamo e ci leggiamo, come la abitiamo e quindi ci abitiamo come esseri umani. Il titolo stesso della mostra permette una lettura multipla di queste pluri-relazioni sfaccettate mai ferme, vibranti. Se è da quando Dolomiti Contemporanee esiste che gli artisti si sono messi a captare la montagna, utilizzando e raccogliendo rocce, registrando, mutando, innestando, liberando in un campo esplorativo quelle rocce, pietre e montagne di cui l’arte si è da sempre fatta spazio di apparizione e presenza, questa mostra è il luogo dell’opportunità in cui si accenna a un percorso di amplificazione comparativo tra storia dell’arte e geologia: da Sol LeWitt a Leonardo, da Giacometti ad Albrecht Dürer, da appunti più realistici ad estetiche geometrizzanti, fino alla contemporaneità.
Ma quindi in che senso “fogge delle rocce”? Le dimensioni sono plurime ed è come voler dar spiegazione di ogni sfaccettatura di un prisma, missione difficile per me, anzi quasi impossibile. Si può però ridurre la questione, seguendo la riflessione di Gianluca D’Incà Levis, con cui ho dialogato per comprendere il senso della mostra e del progetto e di cui potete leggere il concept della mostra, che ne indica tre: una che esplora il tempo, addentrandosi in una profondità che la mente umana difficilmente afferra, l’altra che esplora la contemporaneità attraverso le Dolomiti, con la loro struttura ed eredità geologica unica al mondo, e un’ultima, la dimensione 0, che ci riporta all’astronomia e che riguarda gli assetti fisici del nostro pianeta. L’attraversare le fogge delle rocce in questo senso, anzi in questi plurimi sensi, diventa un “passare oltre le soglie del sé”, attraversare quella membrana permeabile e mobile che divide e unisce natura e presenza umana.
Vi invito a seguirmi in un accenno ad alcune delle opere in mostra per abbracciarne anche solo superficialmente la varietà e l’ecclettismo. Mi piace cominciare con Stefano Caimi e il suo “Lithochronos”, installazione di sonic art che restituisce le stratificazioni geologiche dell’arco dolomitico, cosicché i fenomeni di solidificazione, erosione e incarsimento delle rocce diventano materia sonora, rivelando il tempo profondo che ne ha dato forma, oppure con l’installazione concepita e realizzata da Roberto De Pol in cui, durante l’inaugurazione, tre blocchi di ghiaccio sono stati sovrapposti alle opere di Focacci Menchini, Fung e Radak: lo scioglimento ha man mano svelato i lavori e i disegni riportati su diversi supporti. I sassi di quest’ultima opera vengono tutti da Val d’Oten che i quattro artisti hanno scelto come luogo comune d’origine, le opere singole raggruppate su un’unica tavola sono come i sassi di una colata detritica e saranno il prodromo di future collaborazioni. Federica Clerici invece con “Aperture”, forme scultoree irregolari che delineano un ambiente in continua definizione e apertura apre alla dimensione spaziale: sono spalancate queste forme della montagna, sono uno scavo, un ridisegno. Suleman Khiljii, che, da anni si interessa all’uso di superfici e oggetti ritrovati, qui in mostra porta la copertina di un libro di poesie “Gabriel’s Wing” pubblicato nel 1935 da un poeta influente del subcontinente, Allama Mohammed Iqbal: l’immagine proviene da una scena di pausa da un test nucleare avvenuto su una montagna vicino alla sua città natale e riconduce al ricordo della montagna trasformatasi in oro pochi secondi prima del test, una risposta all’idea dell’ala di Gabriele, in un cortocircuito di somiglianze e contraddizioni attraverso la pittura. Simone Cametti invece ci porta all’interno della cava Acqua Biancha, situata in Alto Adige, a 1567 metri di quota, un giacimento di marmo tra i più ricchi al mondo, in cui appare la scritta, con vernici fluorescenti, “NIX”: l’arancione in questione è ripreso da una scultura come invito a riflettere su un uso consapevole delle risorse naturali. Andrea Grotto infine con “Brucialuce”, un grande lavoro realizzato nel 2018 in un momento importante per la sua ricerca sul paesaggio e sui suoi mutamenti, propone una visione delle stratificazioni minerali e vegetali che si ergono fino a suggerire una linea d’orizzonte in mezzo alla luce che brucia.
Le 54 artiste e gli artisti in mostra sono tante, nel mio tuffo veloce ne ho sfiorati alcuni, a voi la lista completa, un invito per assaggiarne la varietà già solo nello snocciolarne i nomi, e per incuriosirvi ulteriormente nel visitare la mostra e immergervi totalmente nelle loro opere: Nancy Allen, Sara Antonellis, Ilze Aulmane, Emmanuel Awuni, Josephine Baker, Lorenzo Barbasetti Di Prun, Mattia Barbieri, Fungai Benhura, Alberto Bettinetti, Gino Blanc, Max Boyla, Stefano Caimi, Simone Cametti, Iside Calcagnile, Federica Clerici, Stefano Comensoli_Nicolò Colciago, Kristīne Daukšte, Nanni De Biasi, Roberto De Pol, Cristiano Di Martino, Bruno Fantelli, Pierpaolo Febbo, Cristiano Focacci Menchini, Gusty Ferro, Adam Fung, Enej Gala, Silvia Giordani, Massimiliano Gottardi, Andrea Grotto, Suleman Khilji, Minji Kim, Evelyn Leveghi, Silvia Listorti, Harry Jones London, Marco Mastropieri, Stefania Mazzola, Monica Mazzone, Philipp Messner, Alessandro Pagani, Sebastiano Pallavisini, Valeria Pin, Nelly Radak, Giacomo Segantin, Caterina Erica Shanta, Alan Silvestri, Norberto Spina, Kristian Sturi, Fabio Tallo, Fabiano Vicentini, Moe Yoshida, Nezka Zamar, Federica Zanlucchi.
La mostra resterà aperta fino al 31 dicembre. A settembre la mostra è aperta dal mercoledì alla domenica, nei seguenti orari 10:00-12:30 e 14:00-18:30. Da ottobre a dicembre invece nei fine settimana quando segnalato e su appuntamento.
La mostra è parte del programma dei Dolomiti Days 2024, iniziativa promossa dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, che si realizza in collaborazione con la Fondazione Dolomiti Unesco, la Magnifica Comunità di Montagna Dolomiti friulane Cavallo e Cansiglio, insieme al Comune di Erto e Casso.
Credits: (1-8) Teresa De Toni
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