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September 20, 2024

INNER – Sotto la superficie: un’intervista al collettivo WAC

Stefania Santoni

Sotto la superficie della città, tra le pietre antiche e le tracce del tempo, si apre uno spazio di riflessione e intimità. “INNER – Sotto la superficie”, in mostra fino al 5 ottobre 2024 presso l’Area Archeologica di Palazzo Lodron, a Trento, invita a un viaggio che attraversa le profondità del passato per interrogare la complessità dell’interiorità contemporanea.

Le opere di Francesca Fattinger, Elisa Fontana, Ruben Gagliardini, Marta Giacomin, Federica Gottardello, Sofia Rasile, Giorgia Ruele e Aurora Zampedri si intrecciano con le stratificazioni romane e medievali del sito di Tridentum. Questo dialogo tra passato e presente si snoda in un percorso che diventa metafora della casa, intesa non solo come spazio fisico, ma come luogo delle relazioni, della cura e dei contrasti che animano l’esistenza quotidiana.

Curata dal collettivo WAC – nato dall’esperienza laboratoriale What if you were a curator e composto da Davide Berteotti, Alessia Frerotti, Caterina Invernizzi, Stefania Pace, Emma Panella, Chiara Silvestrini, Francesca Weber e Aurora Zampedri – la mostra esplora con delicatezza e profondità le dinamiche interpersonali che si svolgono negli spazi abitativi. Non solo mura e oggetti, ma un tessuto emotivo fatto di legami, scontri, assenze e ricongiungimenti. L’intimità si svela e si nasconde, si offre e si ritira, in un equilibrio fragile ma potente che caratterizza l’esperienza umana.

INNER, termine inglese che significa “interno”, diventa qui un simbolo di ciò che si cela sotto la superficie visibile: la vita interiore, i pensieri non detti, i sentimenti che scorrono sotto la pelle. Il titolo stesso è un invito a guardare oltre, a cercare nel profondo delle cose, proprio come il sito archeologico ci richiama a una stratificazione non solo fisica, ma anche emotiva e temporale. È un richiamo al doppio livello dell’abitare: quello materiale e quello immateriale, fatto di affetti, di tensioni e di intese.

Le opere esposte, realizzate con tecniche diverse – dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al video, passando per la parola poetica e il cinema – dialogano con lo spazio espositivo in una tensione continua tra visibile e invisibile, tra ciò che appare in superficie e ciò che rimane nascosto. Ogni lavoro diventa un varco, una possibilità di esplorare le molteplici declinazioni dell’interiorità e delle relazioni umane. L’ambivalenza delle emozioni che abita gli spazi domestici emerge con forza: l’apertura e il desiderio di dialogo si scontrano con la distanza e l’assenza, il contatto fisico e verbale si intreccia al conflitto, mentre la cura reciproca convive con l’unilateralità. Le opere sono specchi di queste tensioni, frammenti di un discorso che si costruisce nell’alternanza tra presenza e mancanza, tra vicinanza e isolamento La pandemia di COVID-19 ha reso più acuto il senso di questa ambivalenza, costringendo molte persone a confrontarsi con l’intimità forzata degli spazi domestici. È in questo contesto che molte delle opere in mostra trovano il loro humus: nel confronto con la complessità delle relazioni vissute durante l’isolamento, tra la riscoperta del legame e la fatica della convivenza prolungata. Le tensioni e le fragilità emerse in quel periodo sono riflessi nelle opere, che diventano testimonianze visive di un tempo in cui il dentro e il fuori, il vicino e il lontano, si sono ridefiniti.

L’Area Archeologica di Palazzo Lodron, con i suoi resti di case romane, si fa custode di questa narrazione, ricordandoci che la casa è da sempre uno spazio di legami, un luogo in cui si intrecciano storie di vita, affetti e conflitti. Le antiche domus che abitavano il sottosuolo di Trento sono ora testimoni silenziosi di un nuovo dialogo, in cui passato e presente si confrontano e si rispondono.

Ma per immergerci al meglio nella mostra, addentriamoci nelle parole del collettivo WAC. Aurora Zampedri, 23, scatola per urna, Bambina morta, trecce di tessuto, album, 2024, ph Marco Deavi

Come nasce questa mostra?

Prima della mostra nasce in realtà il collettivo, e prima ancora il percorso “What if you were a curator”, un laboratorio aperto rivolto a studentesse e studenti universitari. L’iniziativa è stata organizzata dalle associazioni Tiring house e Art to Art, le quali sostengono la ricerca artistica da molti anni, in occasione della Giornata del contemporaneo AMACI 2023, data in cui ha avuto luogo il primo dei quattro incontri previsti a cadenza mensile. “What if you were a curator” ha aperto uno spazio laboratoriale grazie al quale abbiamo potuto guardare ad alcune delle pratiche artistiche contemporanee attraverso un processo di ricerca collettiva da cui far emergere un discorso curatoriale comune tra il gruppo di lavoro, artiste/i, e persone che si occupano della produzione e diffusione dell’arte visiva. A partire dai contesti relazionali e dai riferimenti culturali di ogni partecipante, il gruppo è stato sollecitato a sviluppare una metodologia di ricerca comune per indagare il lavoro di artiste/i individuati durante il percorso laboratoriale con l’obiettivo di produrre un progetto finale. 

Questo percorso di ricerca e confronto con la supervisione tecnica di Alessandra Benacchio, Luca Bertoldi e Giusi Campisi, ha preso forma gradualmente in un progetto curatoriale che si è concretizzato nella mostra finale.  La domanda ipotetica “What if you were a curator” si è dunque pian piano trasformata in realtà attraverso vari incontri di discussione (molti più dei quattro inizialmente previsti!), in cui – tra le altre cose – si è costituito il nostro collettivo WAC. La sigla è l’evoluzione della domanda iniziale, trasformatasi in un’affermazione: We Are Curators. Il nostro obiettivo è sostenere il lavoro di artist emergenti promuovendolo attraverso mostre ed eventi come questo.

Il tema dell’esposizione è frutto di un input iniziale, proveniente ancora da uno dei primi incontri del workshop, in cui Alessandra, Giusi e Luca ci avevano chiesto di scegliere artisti e opere secondo una tematica. Due di noi avevano presentato un piccolo progetto sull’argomento della casa e dell’abitare, che era piaciuto a tutt. Da lì il discorso si è quindi ampliato nell’analisi delle sue tante sfaccettature. Più andavamo avanti però, più ci rendevamo conto che ci stavamo troppo allargando, rischiando di far entrare i vari aspetti in contraddizione tra loro. Abbiamo deciso quindi di dare un taglio specifico alla questione, concentrandoci su qualcosa che accomuna tutt* noi: le relazioni interpersonali che avvengono all’interno dello spazio abitativo, che noi intendiamo sia in senso fisico che emotivo. 

Un punto di partenza importante per il nostro ragionamento sul tema è stata un’analisi dell’evento COVID-19. Abbiamo deciso di partire da dei dati reali, quelli di Istat e Ispat, da cui è risultato un chiaro calo della qualità delle relazioni familiari e amicali a un anno dallo scoppio della pandemia e una lenta risalita ai livelli pre-pandemia negli anni a seguire. Oltre a questo, i rapporti Psycare sui dati relativi al progetto bonus psicologico e quello del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), hanno rilevato come la richiesta di assistenza psicologica (soprattutto fra i più giovani e in particolare nella fascia minori di 18 e 25-35 anni) sia più che raddoppiata rispetto alle richieste pre-pandemia e per quanto riguarda i dati del Bonus psicologo, il 39,4% di chi ha fatto richiesta l’ha fatta per motivi di disagio legati alle relazioni in famiglia. Il quadro che ne emerge è quindi una generazione di giovani – soprattutto, ma non solo – che optano sempre di più per un percorso di terapia che per fortuna, anche grazie alla pandemia, ha perso quello stigma sociale che ancora persisteva fino a pochi anni fa. 

È stato singolare notare come le date di produzione delle opere degli artist coincidessero quasi tutte con gli anni del Covid/post-Covid e come l’età di quasi tutti loro rientrasse nella fascia 25-35 di cui abbiamo accennato. Pur non essendo stati (anno di produzione ed età) criteri attraverso cui scegliere le opere è stato interessante notare che forse non a caso proprio in quel momento storico questi artist abbiano optato per una produzione più introspettiva, che andasse a scavare nei legami e ricordi più intimi.Elisa Fontana, Due anni di differenza, album, 2023, ph Marco Deavi

Come si relazionano le opere esposte con le stratificazioni archeologiche presenti nell’Area di Palazzo Lodron?

 Negli ultimi anni in Italia si è sviluppato un dibattito sulle possibili interazioni tra arte contemporanea e archeologia, nato dall’incontro tra artisti e patrimonio archeologico durante fasi di ricerca, produzione e mostre. Molte opere si confrontano con il tema in modo diretto (pensiamo al Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti), altre nei processi e nella metodologia, per cui si può parlare di “visioni parallele” tra artisti e archeologi.

L’area archeologica di Palazzo Lodron comprende parte di uno dei quartieri della Tridentum romana. Nei vani interrati del palazzo quattrocentesco sono visibili tratti della cinta muraria della città, un cardo minore, i resti di una torre, una bottega vinaria e, in particolare, parti di abitazioni private.

Le relazioni familiari, i rapporti, le sensazioni e le emozioni che proviamo oggi tra le nostre mura domestiche e che sono espresse tramite le opere che abbiamo scelto, si connettono con un mondo lontano e antico, quello delle domus romane, i cui abitanti tessevano legami comunicativi e relazionali, così come noi facciamo anche oggi. Questi modi di abitare lo spazio ci accomunano alle società del passato e ci hanno fatto immaginare la vita che doveva esserci all’interno di quei resti che oggi vediamo sotto forma di pietre.

Ecco che quindi anche la scelta del sottotitolo “Sotto la superficie” rappresenta un’indagine di cosa accade veramente oltre le facciate delle nostre case, dietro la superficialità delle relazioni, in una discesa nel passato verso il sottosuolo di Trento, ma anche dentro la nostra intimità presente. 

Le opere riflettono sulla dualità delle relazioni interpersonali. Come questa ambivalenza viene rappresentata nei vari lavori? Ci sono opere che esplorano in modo particolare il conflitto, l’assenza o il desiderio di connessione?

Le sfaccettature rappresentate in mostra sono molto diverse tra loro, così come i media stessi delle opere. Abbiamo incluso aspetti sia negativi che positivi, che vanno dai ricordi d’infanzia al conflitto interiore.

Le opere rappresentano una comunicazione interpersonale non semplice e diretta, ma sempre ostacolata o intermediata: il tentativo di una connessione con un familiare può scontrarsi con la sua assenza o con la sua lontananza, o al contrario, l’aiuto di una presenza importante in un momento di difficoltà può risultare cruciale per un percorso di cura. Ecco, noi troviamo che il filo conduttore di tutte le opere sia proprio la cura: possiamo sempre imparare qualcosa che ci faccia stare meglio con noi stessi e con gli altri attraverso le esperienze che viviamo, sia positive che negative.Marta Giacomin, Mia sorella Irene, libro d’artista, 2023, ph Marco Deavi

Quali sfide o vantaggi ha comportato l’allestimento delle opere in un contesto archeologico come questo? Quali considerazioni curatoriali sono state prese in considerazione nel disporre le opere in un sito con così tanta storia?

La mostra non vuole sovrapporsi al percorso archeologico: abbiamo cercato di renderlo comunque fruibile, ricercando un delicato equilibrio tra la valorizzazione delle opere e del sito. Ciò ha comportato naturalmente la ricerca di un allestimento non invasivo o che potesse compromettere i reperti, e questa è stata una bella sfida, che ha stimolato però anche la nostra creatività nella ricerca di soluzioni e materiali. In ciò è stata molto d’aiuto l’esperienza allestitiva di Giusi, Luca e Alessandra.

Come le diverse tecniche artistiche utilizzate arricchiscono la narrazione della mostra?

Le scelte espressive e formali delle artiste e artisti riflettono la fluidità tra discipline e la ricerca continua di nuovi linguaggi che caratterizza il contemporaneo. Abbiamo voluto spaziare nei diversi media perché le relazioni di cui parliamo sono molteplici e differenti e agiscono su diversi livelli di sensibilità e sensorialità: visiva, spaziale, tattile, di ascolto, emotiva. Abbiamo ricercato questa varietà anche per ottenere un maggiore coinvolgimento attivo del pubblico nell’interazione con le opere, aspetto che ci premeva molto.

 Ruben Gagliardini, CASA-LOVEYOU, video, 4’30’’, 2024, ph Marco Deavi

Crediti Fotografici: Marco Deavi 

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