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September 5, 2024
Fotografare le Alpi. Beatrice Citterio: contrasti montani tra neve e cemento
Silvia M. C. Senette
La silente maestosità delle Alpi, le cime tese a sfiorare il cielo, i segreti della terra che risuonano nelle valli: panorami incantevoli che, da sempre, ispirano fotografi di ogni dove. Solo rari scatti, però, rivelano un universo di visioni inedite. Nella serie “Fotografare le Alpi” franzmagazine incontra fotografi che, con sguardo unico, obliquo, hanno saputo trasformare le montagne dell’arco alpino in poesie visive: ogni immagine cattura un frammento di eternità, è un’opera d’arte che trascende il paesaggio per rivelare l’anima profonda delle Alpi. Attraverso queste interviste, un viaggio oltre il visibile, esploriamo l’intima connessione tra fotografia e natura, scoprendo storie fatte di luci e ombre, silenzi e suggestioni che solo l’obiettivo di un vero maestro può catturare.
Beatrice Citterio è una talentuosa fotografa che, a soli 26 anni, ha già saputo imporre la sua voce artistica nel mondo della sesta arte. Nata e cresciuta a Milano, ha studiato Design del prodotto al Politecnico di Milano: un percorso che si è rivelato presto alienante. “Non era il mio mondo – confessa -, mi sentivo persa tra linee, progetti e oggetti che non riuscivo a sentire miei”. È stato con il trasferimento a Bolzano, dove ha seguito un master in Design ecosociale, che la sua passione per la montagna e l’interesse per le dinamiche legate al turismo di massa hanno iniziato a prendere forma. “Ho sempre frequentato la montagna come turista – racconta -. Le Dolomiti erano per me un rifugio, un luogo di svago. Ma a Bolzano ho iniziato a guardare queste vette maestose con occhi diversi, non più come una semplice scenografia delle vacanze invernali ma come un ecosistema fragile, minacciato da uno sfruttamento turistico insostenibile”.
La sua tesi di master, incentrata sul turismo di massa in montagna, segna la svolta decisiva nel suo percorso. “Dovevo documentare l’impatto del turismo sulle Alpi e, senza pensarci troppo, ho chiesto a un’amica di prestarmi la sua macchina fotografica. Ho capito che attraverso l’obiettivo potevo raccontare molto di più di quanto non riuscissi a fare con le parole”. Oggi Beatrice vive stabilmente a Bolzano, dove continua a esplorare il rapporto tra città e montagna, sfruttamento turistico e salvaguardia ambientale, uomo e paesaggio. Il suo progetto più recente, “Spazi Liminali”, si concentra sugli impianti sciistici immortalando la metamorfosi dei paesaggi alpini dal caos della stagione invernale alla quiete estiva. “Fotografo gli spazi vuoti, i momenti di transizione, perché è lì che la vera essenza del luogo emerge”, anticipa. Con sguardo critico e appassionato, cerca di far luce sulle contraddizioni che spesso sfuggono agli occhi di chi vive la montagna solo come una parentesi vacanziera.
Beatrice, come nasce questo progetto fotografico?
È stato un po’ una chiamata interiore. Guardando le Dolomiti con occhi nuovi ho iniziato a provare un senso di colpa, quasi un obbligo morale nel voler proteggere quel mondo che avevo sempre visto solo come un luogo di vacanza. Ho sentito la necessità di fare la mia parte, di tutelare quei luoghi che avevo imparato ad amare non più solo come turista, ma come parte di una comunità montana che stava subendo le conseguenze di uno sfruttamento sconsiderato.
Come si declina il tuo progetto alpino?
Inizialmente scattavo per puro interesse personale; la comunicazione visiva è sempre stata per me un modo per far emergere le contraddizioni e le verità nascoste. Il progetto è diventato invece qualcosa di più strutturato: non è solo fotografia, ma un’indagine multimediale che sarà parte integrante del mio dottorato, un sistema di ricerca ampio che indaga la relazione tra le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 e le dinamiche sociali, economiche e ambientali del territorio.
Quali le due immagini più “estreme”, i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Per me i veri poli opposti sono la città e la montagna. Ma c’è una coppia di foto che genera un cortocircuito. Sono le immagini di due campagne pubblicitarie: una dell’Unesco, una di Audi. L’etichetta Unesco tutela le aree senza eccessiva antropizzazione, come alcune cime dolomitiche, ma è spesso utilizzata per promuovere tutto il territorio circostante e questo contribuisce e un aumento turistico incontrollato. Uno dei problemi maggiori di questo afflusso è la mobilità: lunghe code di auto ferme ore su tornanti di montagna. Nel frattempo, però, Audi - main sponsor della Federazione Italiana Sport Invernali – e il Comune di Cortina, che ospiterà parte delle Olimpiadi Invernali 2026, hanno stretto una partnership di promozione reciproca e, tra le iniziative, c’è “Audi Experience”, che offre test di guida tra i panorami dolomitici innevati. Una campagna che puntella strade e piste da sci, tanto che c’è chi ha ribattezzato la località “Cortina d’Audi”.
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Nelle mie foto tendo a includere sempre la presenza umana o le tracce materiali dell’uomo. Non mi interessa il paesaggio incontaminato, perché per me è importante mostrare la verità di un luogo vissuto, abitato, modificato. Se vedo un ambiente pazzesco, senza presenza umana, preferisco godermelo senza scattare. Le mie foto vogliono raccontare una storia. E la storia della montagna non può prescindere dall’impatto che l’uomo ha su di essa.
Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Il design mi ha insegnato l’estetica, la grafica, la composizione, ma la fotografia mi permette di comunicare in modo diretto ed efficace quello che voglio trasmettere. Ho scoperto di essere brava a fare foto e mi piace come riesco a rendere i miei pensieri attraverso l’immagine. La fotografia mi permette di arrivare a un pubblico più ampio, anche a chi non si interesserebbe mai di certi temi se li leggessero su un giornale. Le infrastrutture per accogliere le Olimpiadi, racontate dai media sono noiose. Con le immagini anche di piccoli particolari, con un certo tipo di linguaggio fotografico, riesco a interessare e a raggiungere più persone.
Riconosci un’evoluzione nei tuoi scatti alpini?
All’inizio scattavo tantissime foto, accumulavo immagini ma non sapevo ancora cosa volevo davvero catturare. Ora ho imparato a essere più selettiva, a immortalare solo ciò che ha senso per me, e a volte anche a godermi il panorama senza il bisogno di catturare tutto. Mi capita anche di uscire e camminare per tre ore senza mai tirare fuori la macchina fotografica.
Con quale approccio hai scelto di immortalare l’arco alpino?
Sicuramente analitico. Scelgo ciò che mi interessa veramente, spesso infrastrutture piuttosto che paesaggi idilliaci. Lascio, però, la denuncia ad altri. Per me è più importante informare, far conoscere ciò che accade piuttosto che puntare il dito. La mia fotografia mira a documentare e a offrire uno spunto di riflessione, mai a giudicare. Poi, certo, c’è una critica di base nel mio approccio, perché critico un certo tipo di atteggiamento.
Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Parlando con amici di città, mi rendo conto di quanto sia ancora radicata una visione turistica e superficiale della montagna, spesso inconsapevole quando non addirittura negata di fronte all’evidenza dei comportamenti. È difficile far capire, anche ai giovani, come certe pratiche, come lo sci di massa, abbiano un impatto negativo che va oltre l’immediato. Ma ammetto che anche il mio non è un atteggiamento cristallino: non ho un manuale del “turista civile”.
Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
È cambiato radicalmente. Prima mi avvicinavo alla montagna come scialpinista, con l’adrenalina e il desiderio di conquista. Ora ho imparato a rispettare la sua forza e a cercare la tranquillità nei miei approcci morbidi e rispettosi. Le mie escursioni sono più lente, mi piace fermarmi, osservare, sentire il luogo prima ancora di decidere se scattare o meno. La montagna è enorme, non va sfidata, ma non mi fa paura; sapere che ci sono parti irraggiungibili mi fa sentire meglio, mi dà umiltà e mi mette di fronte a qualcosa di più grande che non sono io. Mi dà il senso della prospettiva.
Quale consideri il tuo scatto migliore?
Quello scattato sulla testa del Vallone delle Cime Bianche con due stambecchi che, spaesati, guardano questo corridoio naturale incontaminato che si estende a monte di Saint Jacques fino allo spartiacque tra la Val d’Ayas e l’alta Valtournan. Un luogo minacciato da un progetto di impianto a fune che, se realizzato, distruggerà un pezzo di natura intatta ma il collegamento funiviario viene presentato come una riduzione del traffico veicolare nelle valli. Questa immagine rappresenta per me un grido d’allarme, una testimonianza della bellezza fragile e della necessità di proteggere ciò che abbiamo ancora. Non sono contro l’industria dello sci, ma consapevole dei limiti delle attività dell’essere umano e conscia dei processi che ci portano verso un futuro climatico che non prevede altro che neve artificiale.
Senti il desiderio di catturare un’immagine ancora mai scattata?
Gli scatti di cui sono più orgogliosa sono sempre arrivati per caso, durante le esperienze della vita, e me li porto dentro. Negli ultimi mesi mi sono resa conto di soffrire di una certa ansia nell’ipotizzare cosa avrei potuto scattare in un certo luogo e, paradossalmente, questa ansia di catturare qualcosa di unico mi sta spingendo a vivere di più il momento, a non avere sempre l’ansia di documentare. Sono curiosa di vedere dove mi porterà questo percorso, se resterò nella fotografia o esplorerò altre forme di comunicazione, magari video. L’importante, per me, è continuare a raccontare storie che meritano di essere ascoltate.
Foto Credits: Beatrice Citterio
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