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August 27, 2024
Fotografare le Alpi: Teresa De Toni sguardi intimi sulle Dolomiti in cantiere
Silvia M. C. Senette
La silente maestosità delle Alpi, le cime tese a sfiorare il cielo, i segreti della terra che risuonano nelle valli: panorami mozzafiato che, da sempre, ispirano fotografi di ogni dove. Solo rari scatti, però, rivelano un universo di visioni artistiche inedite. In “Fotografare le Alpi” franzmagazine incontra fotografi che, con sguardo unico, obliquo, hanno saputo trasformare le montagne dell’arco alpino in poesie visive: ogni immagine cattura un frammento di eternità, è un’opera d’arte che trascende il paesaggio per rivelare l’anima profonda delle Alpi. Attraverso queste interviste, un viaggio oltre il visibile, esploriamo l’intima connessione tra l’artista e la natura, scoprendo storie fatte di luci e ombre, silenzi e suggestioni che solo l’obiettivo di un vero maestro può catturare.
Teresa De Toni, 27 anni, è nata a Valdagno, nelle “Piccole Dolomiti” vicentine. Dopo la laurea triennale in arti visive al Dams di Bologna, ha proseguito con la magistrale in storia dell’arte e il biennio di fotografia e nuovi linguaggi visivi alla Bauer di Milano. Nel 2022 frequenta il seminario “Anatomia e dinamica di un territorio”, il progetto di formazione e ricerca nato dalla collaborazione fra Giorgio Barrera e Dolomiti Contemporanee: “Una serie di residenze legate al “Progettoborca” che esplora il cambiamento del paesaggio, dal 2020 al 2027, in vista dei Giochi olimpici di Milano-Cortina – spiega l’artista -. Dopo la residenza per la mia tesi magistrale, sono rimasta: l’approccio sperimentale di Dolomiti Contemporanee si intreccia profondamente con le mie foto”.
E così da due anni vive a Borca di Cadore, nell’ex Villaggio turistico dell’Eni voluto da Enrico Mattei, a 1.000 metri di altitudine: gli spazi bellunesi di un progetto che interessa anche il Friuli. “La residenza è stata un’esperienza di condivisione: ho raccolto scatti e pareri su cosa significa vivere la montagna dal punto di vista costruttivo. Dolomiti Contemporanee rigenera siti problematici, fermi nel tempo, per attivarli attraverso residenze e ricerche. È stimolante vivere e lavorare con questo approccio – confessa Teresa -; la montagna sembra immensa e statica, ma non lo è”. Questo concetto è alla base di “Infrastruttura Paesaggio”, il progetto che da un anno documenta infrastrutture e cantieri alpini coinvolgendo altri fotografi. “Un lavoro immane – ammette -. Intendo il paesaggio come definito da Edoardo Gellner: “l’ambiente naturale a cui si è sovrapposta l’opera dell’uomo”. Mi interessa l’aspetto del cantiere e il lavoro degli artisti che vi gravitano attorno, diventando essi stessi cantiere”.
Teresa, come nasce questo progetto fotografico?
Dalla residenza e dal bisogno di dare una visione dinamica di una montagna abitata, che non è solo la baitina da stereotipo. Qui le persone vivono, le infrastrutture servono e i cantieri in ambiente ci sono da sempre. Il progetto nasce da esplorazioni fatte con Gianluca D’Incà Levis, ideatore e curatore di Dolomiti Contemporanee, e Stefano Collarin per cercare nuovi siti e continuare a esplorare il territorio.
Come si declina il tuo progetto alpino?
Scatto ogni giorno seguendo due filoni. Da un lato, “Infrastruttura Paesaggio” mappa cantieri, strutture, ex dighe, ex impianti elettrici, ex colonie, ex rifugi: la particella dismissiva torna sempre in questi luoghi a cui occorre dare una nuova destinazione. I cantieri attivi ora sono i grandi squarci nel paesaggio che tra pochi anni porteranno un cambiamento che coinvolgerà il modo di abitare, di fruire e di spostarsi in questi luoghi. Dall’altro, documento il lavoro di noi artisti e ricercatori in residenza: ritratti intimi, momenti di pausa e concentrazione. Non è un’attività asettica, ma vive della condivisione e dell’interazione.
Quali sono le due immagini più “estreme”, i due poli opposti che racchiudono il tuo progetto?
Una foto interessante è quella del Ponte Cadore, a Calalzo, che sovrasta Perarolo e la sua vecchia strada panoramica: l’immagine ritrae questa grande infrastruttura dai colori forti, arancio e blu elettrico, stagliata sul bosco e sulla montagna, un pattern di abeti e pini. Rappresenta bene la prima parte del progetto, quella dei grandi cantieri senza la presenza fisica dell’uomo. Poi ci sono i ritratti degli artisti: scelgo una foto di Nicola Facchini, colto in pieno inverno mentre dipinge nell’aula magna di Borca di Cadore, un locale fermo dal ’92: dal 2011 è un cantiere sperimentale e non è riscaldato. Appena prima di quello scatto mi aveva detto: “Ho messo fuori un secchio perché, quando l’acqua si ghiaccia, forse è il momento di rientrare in residenza”. Nel suo sguardo si coglie il divertimento.
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Per architettura e cantieri, l’assenza della presenza umana nei miei scatti nonostante siano siti dinamici, in fase di cambiamento. Nei ritratti, invece, trovo che emerga l’intimità, la profondità dei legami, di una conoscenza che si sviluppa vivendo e lavorando insieme.
Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Il mio immaginario della montagna è oggi legato alla dinamica di rigenerazione e recupero. Creare spazi in un ambiente fragile, attraverso la ricerca e senza limiti temporali, è preziosissimo e diventa la tua vita, il tuo obiettivo. Vivere qui ti fa capire il vero significato del turismo e dell’abitare in piccoli centri come Casso, che ha 17 abitanti. Una residenza e una mostra d’arte contemporanea sembrano totalmente fuori contesto, ma sono un motore che serve, che dà vita a questi luoghi: la gente di qui si interessa, vuole capire, si crea un dialogo che va ben oltre la fotografia contemplativa del fenomeno.
Riconosci un’evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Nella frequenza. Scatto molto di più rispetto a quando vivevo a Milano: mi sembra di non avere mai abbastanza tempo, si muove tutto velocemente. E nello stile, più dialogico e approfondito: ogni foto diventa un’occasione per comprendere meglio il contesto, la storia del paesaggio e dell’infrastruttura, e ogni ritratto per conoscere gli artisti e il loro lavoro.
Con quale approccio hai scelto di immortalare l’arco alpino?
Di ricerca, con un approccio critico: mi interessa contribuire con il mio lavoro a una documentazione completa della situazione per poi, magari, pensare a un nuovo progetto di denuncia. “Infrastruttura Paesaggio” si aprirà ad altri artisti per avere nuovi sguardi, in un approccio multidisciplinare.
Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Ho affinato il metodo: più lavori con persone sensibili, più migliori. Ogni cantiere ha caratteristiche peculiari e chi ci lavora spesso è disponibile a raccontarle. Due settimane fa allo stadio del ghiaccio di Cortina ho scoperto dai tecnici una miriade di cose: ad esempio che tutte le infrastrutture legate alle Olimpiadi, per quanto riguarda l’impianto luci, devono rispettare lo standard televisivo. Non ci devono essere ombre proiettate. Hanno acceso lo stadio solo per me ed è stato bellissimo, sembrava di essere in una white room, in un film. Questo rende chiaro il contesto e ti permette di immaginare cosa succederà.
Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Stimolante: viverci con persone nate tra le Dolomiti è un modo per abitare un luogo in maniera non superficiale. Qui tutto è un laboratorio, un cantiere. Non temo la montagna e trovo importante non avere una visione contemplativa o statica. Rispetto sì. A volte è complesso vivere in quota, specie in paesini sovraffollati o deserti a seconda della stagione, ma è necessario vivere queste dinamiche per raccontare correttamente questi luoghi.
Quale consideri il tuo scatto migliore?
Una foto fatta in Nevegal: in cima al colle sorge un rifugio al quale sono state applicate centinaia di antenne e sembra una base spaziale, un paesaggio lunare, quando in realtà sei sopra Belluno. Aprire uno spaccato visivo su mondi quasi alieni in contesti naturali mi piace molto. Oggi è uno dei miei scatti migliori per quello che racconta, più che per la qualità tecnica.
Senti il desiderio di catturare un’immagine ancora mai scattata?
Ogni giorno: dovrei sempre avere la macchina fotografica con me. Questa mattina scendevo in auto da Borca di Cadore verso Casso e, in un cantiere che sto monitorando, la ditta ha affisso un cartello che si staglia contro il Monte Rite ma che ha stampate le Tre Cime di Lavaredo. Una contraddizione estetica fortemente ironica che avrei tanto voluto immortalare, ma guidavo e c’era troppo traffico per fermarmi. Scatti “persi” di questo tipo ne ho un’infinità.
Foto credits: Teresa De Toni
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