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August 22, 2024

Fotografare le Alpi: Leonhard Angerer, un artista sulle tracce del tempo

Silvia M. C. Senette

La silente maestosità delle Alpi, le cime tese a sfiorare il cielo, i segreti della terra che risuonano nelle valli: panorami incantevoli che, da sempre, ispirano fotografi di ogni dove. Solo rari scatti, però, rivelano un universo di visioni inedite. Nella serie Fotografare le Alpi” franzmagazine incontra fotografi che, con sguardo unico, obliquo, hanno saputo trasformare le montagne dellarco alpino in poesie visive: ogni immagine cattura un frammento di eternità, è unopera darte che trascende il paesaggio per rivelare lanima profonda delle Alpi. Attraverso queste interviste, un viaggio oltre il visibile, esploriamo lintima connessione tra fotografia e natura, scoprendo storie fatte di luci e ombre, silenzi e suggestioni che solo lobiettivo di un vero maestro può catturare.

Leonhard Angerer, fotografo e artista, è nato a Terlano nel 1953 e vive a Bressanone. A 70 anni, affronta ogni giorno la sua corsa quotidiana in montagna: “In estate vado da Valcroce, ai piedi della Plose, fino al Monte Gabler, a 2.580 metri di altitudine: 15 chilometri andata e ritorno. In inverno raggiungo ogni giorno il mio rifugio del cuore, a 2.450 metri, con 800 metri di dislivello. Sportivo? Direi abitudinario”.Sölden im  September 2019DSC_6216

Ed è l’abitudine a scandire i ritmi, lenti e costanti, della passione per la fotografia: un’arte nata in famiglia, grazie al padre direttore tecnico della Durst, oggi multinazionale leader nelle stampatrici industriali. “All’epoca non si stampava ma si ingrandiva – spiega Angerer -. Papà costruiva macchine fotografiche e portava a casa pellicole, liquidi, tutto quello che componeva la magia di una camera oscura”. Inizia tutto così, a 12 anni. “La fotografia è sempre stata una passione, mai una professione. Da universitario, a Padova, portavo la fotocamera alle manifestazioni studentesche: documentarle era il mio modo di esprimere vicinanza alle idee del movimento”. Poi, negli anni ’80 e ’90, la montagna diventa il suo focus centrale. “Le Alpi ricorrono spesso nei miei sogni, da sempre: dopo essere finito sotto una valanga, poi, slavine e disastri in quota mi inseguono di notte”.Stubai 2020DSC_2720 Kopie

Leonhard, come nasce questo progetto fotografico?
Il progetto, che all’inizio si chiamava “Bellavista”, è nato nel 1986 e prosegue tuttora, dopo circa trent’anni fa: si concentra sul surriscaldamento globale e il suo impatto sui ghiacciai. All’epoca si iniziava appena a parlare di cambiamento climatico, ma io lo vedevo con i miei occhi, ogni giorno, in quota. Volevo essere testimone delle trasformazioni in atto e allo stesso tempo essere consapevole di quello che mi faceva soffrire e guardarlo in faccia: lo trovavo inverosimile, eppure stava accadendo. Da un lato c’era l’interesse per la questione ambientale, dall’altro il desiderio di documentarla dal punto di vista artistico.Stubai 2020DSC_2451 Kopie 2Kitzsteinhorn 2019DSC Kopie

Come si declina il tuo progetto alpino?
Ogni anno torno sui ghiacciai, spesso negli stessi posti, specialmente sulla Marmolada, uno dei luoghi che fotografo di più. Ma anche al Senales, nella Valle dello Stubai e nella Pitztal. Non mi interessa immortalare sempre il medesimo scorcio: cerco l’approccio umano. D’estate amo fotografare le persone, come si muovono, come si vestono. Sulla Marmolada, ad esempio, ho scattato agli alpinisti all’opera per posare i teli sintetici a protezione del ghiacciaio. Non cerco di mostrare semplicemente il ritiro del ghiacciaio, anno dopo anno, dalla stessa prospettiva: per quello basterebbe installare una webcam. Trovo meno scontato, più interessante dal punto di vista artistico e più concettuale esplorare, nel mio progetto, il rapporto tra uomo e paesaggio.

Quali le due immagini più “estreme”, i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
La prima è una foto della Marmolada con la gente seduta o stese su delle sdraio rosse: l’ho scattata nel 2005 e poi fu pubblicata dalla “Zeit” a corredo di un articolo sul cambiamento climatico. L’altra è del 2022, sempre sulla Marmolada, due settimane prima del drammatico crollo del seracco che ha causato undici vittime: nella foto si vede un uomo che ci corre sopra. Già si capiva che il ghiacciaio stava cambiando, una catastrofe annunciata. È un’immagine iconica, una testimonianza tragica del cambiamento. C’è infine una terza immagine, molto triste: mostra la Marmolada, di fronte a me, inaccessibile, chiusa dopo il disastro.Leonhard Angerer

Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Non sono certo di avere uno stile riconoscibile. Lo sono gli elementi che ritraggo, come la natura, la montagna, spesso il bianco dominante, una rottura tra il paesaggio naturale e gli interventi dell’uomo, il contrasto tra la bellezza della natura e l’impronta antropica. Hanno definito le mie foto “fucking beauty”: belle ma con un lato oscuro. Ora vanno molto le tonalità sbiadite: a me non piacciono, amo il colore. E mi piace realizzare foto dall’approccio critico verso lo sfruttamento del paesaggio e verso l’overtourism, le mie tematiche. Mi chiedo spesso se l’impegno politico-ambientale mi renda meno artista.leonhard angerer.3

Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Negli anni ’80 le montagne erano di moda: Messner scalava gli Ottomila, Eisendle arrampicava… ricordo quando andammo sulla Vetta d’Italia con Alexander Langer per cambiarle simbolicamente nome in “Vetta d’Europa”. Mi sono appassionato alle Alpi perché le ho sempre avute sotto gli occhi e mi offrono stimoli quotidiani immensi. Vivo circondato dalla montagna e la “consumo” in modo quasi ossessivo: ho trasformato la devozione e l’amore per le Alpi in una passione che dura nonostante la fatica fisica, i pericoli e le difficoltà.Jungfraujoch 2011

Riconosci unevoluzione nei tuoi scatti alpini?
C’è stata una rivoluzione tecnica nel passaggio da analogico a digitale, ma non sono un feticista dello strumento: potrei fotografare anche con una scatola di cartone. Però mi piacciono le Hasselblad e ne ho un paio. Fotografo spesso gli stessi luoghi, forse nello stesso modo, con lo stesso modo di pensare e in progetti a lungo termine; come quello sugli scavi del tunnel del Brennero, iniziato nel 2007. Mi chiedo se, forse, non sia proprio il mio metodo a rendermi riconoscibile.

Con quale approccio hai scelto di immortalare larco alpino?
Direi critico-artistico e cerco di essere contemporaneo, ma non so se ci riesco. Non penso mai a come vorrei che le mie foto fossero percepite e non domando cosa ne pensino gli altri. A breve, nella mostra collettiva “Heimat” organizzata dal Südtiroler Künstlerbund, esporrò tre immagini sulla montagna: non ho neppure chiesto perché abbiano scelto proprio quelle.leonhard angerer.4

Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Scopro ancora, ogni giorno, quanto le Alpi siano ormai sovraffollate. Venticinque anni fa c’era pochissima gente; oggi la montagna è diventata una palestra e ha trasformato anche me in uno sportivo: corro in scarpe da ginnastica dove un tempo salivo a fatica con gli scarponi. Lo stupore maggiore, però, è associato allo scioglimento dei ghiacciai: sul Senales sono spariti 200 metri di fronte glaciale perenne e non è una fase o un cambiamento reversibile: questo ghiaccio eterno non tornerà mai più.

Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Quotidiano. Il movimento è vitale per il corpo e l’anima: parto ogni mattina all’alba e alle 7.30 sono seduto in cima a guardare le vette. La montagna mi dà pace, ma può essere anche sofferenza: è insidiosa, infinitamente più potente di noi. Ne sono consapevole e calcolo sempre i rischi. La foto del seracco crollato sulla Marmolada è un monito, per me:  due settimane prima, in una gita scialpinistica, sono passato proprio là e si capiva che era troppo caldo, si sentivano i ruscelli sotto il manto nevoso. Il pericolo si avverte e io non sono spericolato, calcolo il rischio e controllo sempre il meteo.Stilfserjoch 2019DSC_6837 Kopie

Quale consideri il tuo scatto migliore?
Tra le foto che preferisco c’è quella di un blackout in pista, con le persone costrette a risalire a piedi, e un’altra di una volpe che cammina accanto a un escursionista, due mondi diversi che si incontrano. Ma non ho scatti preferiti e non cerco la foto straordinaria: nella fotografia artistica, lo scatto perfetto non esiste. C’è in pubblicità, nel lavoro del naturalista. Il mio approccio è diverso. Ci sono immagini iconiche, ma la fotografia è un linguaggio mutevole. Per un progetto sul turismo di massa vado ogni anno sul Seceda, a Carezza, a Braies, a Funes e documento l’atteggiamento dei turisti: la gente coglie l’attimo, fa selfie, si fa ritrarre in posa… io non do giudizi, ma registro l’evoluzione della fotografia che è di sicuro diventata più democratica, ha reso più trasparenti la politica e l’economia mettendo in luce cose che un tempo nessuno vedeva o sapeva, però stufa anche. L’unico metodo per contrastare questa massificazione dell’immagine è concepire la fotografia come arte, cercando un linguaggio diverso e scattando immagini diverse. È difficile, ma è importante. Marmolada 2023

Senti il desiderio di catturare unimmagine ancora mai scattata?
Ispirato da “La felicità del lupo” di Paolo Cognetti, mi piacerebbe fotografare il Monte Rosa. E il Monte Bianco: non ci sono mai andato. Poi ci sono le “foto mancate”, come quando scopri che la macchina analogica è senza rullino, dopo dieci ore che scatti, o che la digitale non ha la sim inserita. Quarant’anni fa, in Grecia con mia moglie, finii le pellicole e andai in crisi; dopo ore di ricerca, trovai un rullino a Karpathos e scattai paesaggi e ritratti di donne locali in abiti tradizionali. Quest’anno mia figlia è stata a Karpathos e, per pura coincidenza, ha incontrato la stessa donna che avevo fotografato quattro decenni fa: indossava ancora la stessa blusa. La fotografia ha creato un ponte generazionale, uno squarcio nello spazio e nel tempo che dà nuovo significato a quello scatto. 

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Foto credits: Leonhard Angerer

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