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August 13, 2024
Fotografare le Alpi: l’antropizzazione dietro la lente ironica di Mattia Micheli
Silvia M. C. Senette
La silente maestosità delle Alpi, le cime tese a sfiorare il cielo, i segreti della terra che risuonano nelle valli: panorami incantevoli che, da sempre, ispirano fotografi di ogni dove. Solo rari scatti, però, rivelano un universo di visioni inedite. Nella serie “Fotografare le Alpi” franzmagazine incontra fotografi che, con sguardo unico, obliquo, hanno saputo trasformare le montagne dell’arco alpino in poesie visive: ogni immagine cattura un frammento di eternità, è un’opera d’arte che trascende il paesaggio per rivelare l’anima profonda delle Alpi. Attraverso queste interviste, un viaggio oltre il visibile, esploriamo l’intima connessione tra fotografia e natura, scoprendo storie fatte di luci e ombre, silenzi e suggestioni che solo l’obiettivo di un vero maestro può catturare.
Artista visivo e fotografo documentarista, il 35enne perugino Mattia Micheli è ideatore del progetto “Yes To All” che racchiude, in un libro patinato di grande fascino, le foto realizzate con il collega Nicolò Panzeri. La sua sensibilità artistica e una profondità di analisi della realtà sono state affinate in residenze accademiche, programmi di scambio studentesco a Belfast, workshop e affiancamenti ad artisti di fama internazionale. Fondatore della piattaforma per documentaristi “Archivio Stigma”, l’artista umbro opera nell’ambito della fotografia contemporanea muovendosi tra festival e mostre collettive e personali, in Italia e all’estero. Dal 2018 ha mirato il fuoco del suo obiettivo sull’antropizzazione delle Alpi.
Mattia, come nasce questo progetto fotografico?
“Yes To All” significa “sì a tutti” e riflette la democratizzazione della montagna. Essendo umbro, i Sibillini sono le mie vette; ma anch’io sono stato parte di quel flusso che talvolta abusa delle Alpi. Anche per questo ho iniziato questo lavoro a cui tengo molto e la cui fase di scatto mi ha impegnato per oltre tre anni e mezzo. L’editing e la pubblicazione del libro hanno richiesto un ulteriore anno e mezzo, in un progetto è arricchito dai testi di Enrico Camanni, alpinista e grande scrittore. “Yes To All” è stato pubblicato a settembre da Emergenze, la casa editrice di Edicola 518; è un progetto di ricerca che ha ottenuto visibilità perfino in Giappone e ha partecipato a festival e mostre all’estero. Ho presentato il libro in tutta Italia e le 750 copie stampate sono quasi esaurite.
Come si declina il tuo progetto alpino?
Le mie foto non sono un reportage, non è cronaca, ma sposano lo “slow journalism”. Trattano temi sociali rilevanti con un linguaggio non descrittivo: è fotografia contemporanea a volte più leggibile e diretta, altre più al limite con l’arte. Il libro contiene 53 immagini, ma il progetto ne comprende molte di più. Il filo conduttore è il “misunderstanding”, elemento portante di tutto il lavoro.
Quali le due immagini più “estreme”, i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Mi piace l’idea che a parlare di antropizzazione non sia l’uomo, quindi scelgo le uniche due immagini con animali vivi. La prima vede un San Bernardo nel museo Barryland, scelto come “uomo marketing” e circondato da peluche mascotte in vendita che lo rappresentano come stereotipo montano. Questo scatto contiene in sé un intero mondo e ingloba un immaginario comune che lascia trasparire l’abisso tra la tradizione e il contemporaneo. L’altra è l’immagine di uno stambecco sulla diga del Cingino: confonde con il suo habitat naturale una struttura antropica dove va a leccare i nutrienti, il salnitro presente nelle rocce con cui è costruita la diga. Questi due scatti complessi incarnano gli estremi del mio lavoro evidenziando il misunderstanding.
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Il fatto che si basa sulle anomalie. Mi piace un’immagine che non si concede completamente a un’interpretazione univoca, che conserva un mistero. Quella domanda irrisolta è ciò che sensibilizza il pubblico. Il mio stile si fonda più sulla scelta del soggetto che su colori o formati. Fotografo ciò che neanche io comprendo appieno al primo sguardo, creando immagini con più livelli di lettura.
Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Sentivo l’urgenza di raccontare il cambiamento climatico, la mercificazione della cultura e della terra. Ho viaggiato in molte parti del mondo e non ho trovato un luogo al riparo dall’avanzata “capitalistica”, dallo “Small World” di Martin Parr. Ho scelto di fotografare le Alpi perché sono un simbolo universale di wilderness europea, forse l’ultima roccaforte della natura incontaminata, e volevo parlare di fenomeni globali attraverso un luogo che tutti conoscono. Una delle mie ispirazioni è stato Yann Gross, fotografo svizzero che ha lavorato in Amazzonia proponendo la giungla come immaginario universale. Ho pensato di fare lo stesso con le Alpi: chi, nel mondo, non conosce il Monte Bianco?
Riconosci un’evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Fotografo da molto prima di farne una professione, ma da ragazzo non avevo un progetto definito o ambizioni artistiche. Erano immagini spontanee di viaggi, di sciate con gli amici. Quei primi scatti non li definirei turistici, ma piuttosto tentativi di catturare una realtà che non comprendevo appieno; c’è un’intera carriera tra quelle prime immagini e la sensibilità di oggi, con una visione autoriale, una ricerca precisa. Trovo comunque interessante che il mio lavoro si concentri sul turismo di massa in cui mi riconosco: non mi sento poi così differente da quegli umani che costituiscono il flusso, il pericolo principale per la conservazione delle Alpi.
Con quale approccio hai scelto di immortalare l’arco alpino?
Nel libro ci sono molte immagini metafotografiche: foto di persone che scattano fotografie. Un esempio è l’immagine di un ghiacciaio francese, sopra Chamonix, visibile da una pagina “bucata” del libro che incornicia una cartolina idilliaca; girando la sagoma si rivela l’immagine completa, con il paesaggio affollato da migliaia di turisti. Le Alpi sono antropizzate da secoli e anche i miei primi scatti, fatti a 17 anni, non erano certo cartoline asettiche di cime da sogno innevate.
Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Da frequentatore assiduo delle Alpi, ho scoperto che è impossibile sintetizzarle in un’unica visione: ci saranno sempre incomprensioni tra chi le bazzica da turista e chi ci è nato e ha un suo codice, etico e genetico, di approccio alle vette. Ho scoperto l’infinita possibilità di esplorare un territorio che non si può racchiudere in una definizione. E mi ha sorpreso quanto le Alpi siano in realtà sconosciute: al di là dei luoghi iconici da social, c’è un intero mondo nascosto fatto di versanti abbandonati e villaggi spopolati.
Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Vivissimo. Recentemente ho fatto un trekking notturno scendendo da una vetta di 1.400 metri: non una grande scalata, ma comunque un momento di meditazione. Non ho più uno spirito di conquista o l’ardore della performance. Vivo la montagna come ricerca di uno spazio di silenzio, per pettinare un po’ i pensieri.
Quale consideri il tuo scatto migliore?
È una foto scattata nel 2018 sulle Ande cilene, nel deserto di Atacama. Ritrae un pick-up capovolto in mezzo alle montagne, abbandonato dopo un incidente in curva in un paesaggio lunare. Accanto, un segnale stradale avverte del pericolo, mentre dei lama osservano la scena creando un’atmosfera surreale. Questo scatto incarna le ambivalenze che mi interessano visivamente e mi è particolarmente caro perché è il primo che ho realizzato pochi minuti dopo aver rischiato la vita. È la presa di distanza da quell’evento traumatico: un modo per osservare la realtà attorno a me come fosse solo un’immagine congelata e dirmi “ora è tutto finito, va tutto bene”.
Senti il desiderio di catturare un’immagine ancora mai scattata?
Sono grafomane, scrivo e disegno costantemente e tengo un taccuino-archivio di tutte le foto migliori che non sono ancora riuscito a fare. Tra queste, una che non ho scattato in tempo per la lentezza della mia macchina a pellicola: un signore osservava degli strumenti musicali su un palco ai piedi di un ghiacciaio ma, nel tentativo di sbirciare oltre una rete di protezione, era scivolato e si era annodato nella rete. Una scena ironica in cui mi riconosco: rappresenta la mia curiosità che a volte mi porta a bloccarmi goffamente in situazioni buffe. Mi piace fotografare situazioni ironiche e autoironiche perché, alla fine, ogni immagine parla anche del fotografo.
Foto credits: Mattia Micheli
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