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May 29, 2024
Amadeus Ferienschule 1996. Ovvero, la non intervista di YOMER a Davide Morlacchi
Matteo YOMER Jamunno
Piove da così tanti giorni che mi sono scordato come ci si sente quando si è asciutti. “Che drammatico che sei”, mi dico da solo e penso a tra un mese, quando le temperature saranno invivibili e tutta questa acqua e freddo di maggio diverranno solo un lontano ricordo di abbondanza.
Fatto sta però che quando sei costretto a girare per Bolzano in bici, la pioggia rompe il cazzo. Rompe il cazzo anche se sei in macchina, dato che tutti prendono la macchina in una città non concepita per l’utilizzo delle macchine. Ci vorrebbero delle liane. O dei carri trainati da buoi. O qualunque altro mezzo di trasporto, persino un tram, tutto fuorché le macchine. Invece abbondano le quattroruote, tante quante le gocce che cadono dal cielo.
Nel 1996 avevo tredici anni, dodici per la precisione dato che era estate. Ricordo benissimo quell’estate perché fu il momento in cui imparai una lezione importantissima. Ahimè non fu la grammatica tedesca, dato che ero a Salisburgo nella rinomata Amadeus Ferienschule. Parcheggiato in quella città così distante da mia madre che in cuor suo sperava mi sarebbe servito per imparare la lingua. Cara mamma, neanche dopo undici anni di vita a Vienna mi sento sicuro. Uso le mani, le espressioni facciali, mi si capisce, ma faccio ancora gli stessi errori e oramai sono troppo vecchio per imparare qualcosa di nuovo quindi mi accontento di questo. Di farmi capire. Se voglio sembrare intelligente parlo un’altra lingua che è meglio per tutti.
Dicevo, ero pronto a tuffarmi nel mare brufoloso della pubertà ma ancora molto distante dal bordo vasca, ero un bambino che si vestiva con gli scarti di abiti raccolti nel mercato delle pezze usate di Resina (si trova a Ercolano, vicino Napoli). I baffi non erano ancora comparsi per fortuna e ancora un’altra cosa non era sbocciata. No, non l’interesse verso l’altro sesso. Quello ahimè fece la sua comparsa già all’asilo accidenti. Parlo del senso dell’umorismo. Sapevo di poter essere divertente ma non avevo ancora compreso il potere della risata. Fu quella la lezione del 1996.
Quell’estate Salisburgo traboccava del prodotto che l’avrebbe resa una potenza mondiale: la Red Bull. Ricordo che ero con un gruppo di ragazzetti miei coetanei fuori da un supermercato e se ne parlava come della più potente droga legale mai creata. Raccoglievamo gli scellini per potercela permettere. Il piano era di comprarne una lattina e dividerci la dose e stare svegli per giornate intere in preda allo sballo. Che manica di sfigati. Ci beccò una ragazza più grande di noi, vide la lattina, la indicò, ci disse che se gliel’avessimo consegnata non avrebbe detto nulla ai nostri genitori. Noi ovviamente obbedimmo. Bere una Red Bull era il massimo atto di ribellione che il mio cervello poteva concepire all’epoca. Più o meno è ancora così, se oggi penso a berne una temo le conseguenze che sono: insonnia, mal di pancia e sapore insopportabile nel palato. Solo un anarchico spregiudicato può farlo.
Noi eravamo dei pischelli costretti a studiare una lingua ostica nella sua forma più pura, l’Hochdeutsch. Non era quello che sentivamo tra le strade della nostra città, il Dialekt. Lo facevamo con dedizione però, dato che per noi trasgredire voleva dire comprare una lattina di bevanda schifosa. Eravamo tutto tranne che punk.
Nel gruppo di ragazzi più grandi si distingueva un diciassettenne paffuto, vestito da perfetto skater, che sembrava così adulto. Stava simpatico a tutti, parlava con tutti, interagiva e conosceva e intratteneva e veniva preso in giro e prendeva in giro e non potevi non notarlo o avere a che fare con lui. Si chiamava Davide Morlacchi, ancora non soprannominato Ciccio, quello temo arrivò dopo quando iniziarono a sfotterlo a scuola.
Davide era sempre al centro dell’attenzione e tutti volevamo passare del tempo assieme a lui. Non so cosa avvenne ma credo che Davide notò il potenziale comico racchiuso in quel mucchietto di ossa e insicurezze dalla cadenza napoletana che ero all’epoca e mi prese in simpatia. Mi rivolse la parola, eleggendomi a uno status di maggiore importanza rispetto agli altri pischelli. Fece ancora una cosa più importante, mi battezzò con quello che divenne poi il mio soprannome per un secolo, etichetta che sono riuscito a togliermi trasferendomi a Vienna. Aveva intercettato qualcuno che in confidenza mi si era rivolto chiamandomi “Yomo” e il suono gli piacque a tal punto che glielo sentivo urlare ogni volta che mi notava. Gli urli di Davide non li capivamo ancora. Ogni tanto erano squarci nel silenzio dei pomeriggi dei parchi salisburghesi, ci vollero non so quanti anni per comprenderne l’origine.
Poco alla volta, urlo dopo urlo, iniziai a capire come volevo diventare da adolescente. Guardavo lo stile curato nel vestire e comprendevo che si poteva essere skater, almeno fuori, senza dover per forza salire su una tavola, quello mi terrorizzava, e se cadevo e mi facevo male? Potevo essere simpatico ma restavo goffo e scoordinato.
Studiavo Davide fino quasi ad emularlo, abbassando i pantaloni sotto al culo, guadagnando i favori della folla mentre facevo battute grossolane. La sua influenza fu quello che mi servì per uscire dal guscio e diventare un vero istrione che trae energie dall’attenzione del pubblico.
Sono passati ventotto anni da quell’estate e un sacco di cose sono cambiate. Arrivo al Tiffany dove Davide mi sta aspettando per la nostra intervista, la mia prima intervista, nonostante io abbia specificato ad Anna Quinz che mica sono capace di fare interviste, a me piace raccontare storie.
Davide è ancora uno skater, almeno da fuori, con le marche giuste e i particolari giusti e tantissima barba e tatuaggi e un occhio nero spaccato di sangue e tracce di rossetto sulla bocca sveglia da poco. Si guarda attorno circospetto, è nervoso perché tra qualche ora ci sarà la presentazione del suo primo libro. Neanche sono seduto e mi chiede se ho una sigaretta. “Non ho mai fumato” gli rispondo. “Bravo! Bravo, bravo. Hai fatto bene. Ma me ne serve una.” Dice guardandosi attorno con il 50% della capacità visiva. Si alza e fa tappa tra i vari tavolini occupati alla ricerca della tanto agognata boccata di nicotina. Torna vincitore e possiamo parlare.
Gli tremano le mani mentre afferra il bicchiere di birra. È nervoso, non riesce a nasconderlo e se c’è una cosa che tutti sappiamo in città è che Davide non riesce a nascondere come sta. Emerge sempre, in lampi di parole.
Mi avevano sempre detto di leggere quello che scriveva su Facebook, che faceva un sacco ridere ma io mi sono tolto da quel social nel 2009 e mi sono perso le sue perle. Per fortuna ha deciso di raccoglierle e di farne un libro (“Un Lupo Mannaro con la Tourette“, Gander Books, 2024 ndr), prima autoprodotto e poi con tanto di casa editrice che non solo ti porta al salone del libro, ma stampa pure un banner con il tuo faccione e ti spalma su ogni giornale locale.
Gli chiedo come se la sta vivendo tutta questa fama. “Male, male. Male! A me non piace stare al centro dell’attenzione”. Ma come? Ma se mi hai insegnato tu quanto è bello essere riconosciuto da tutti. Poi capisco. Capisco quanto per Davide deve essere stata una condanna, essere notato sempre. Quanto la sua condizione, la sua sindrome, lo abbia messo al centro dell’attenzione suo malgrado togliendogli la pace, l‘anonimato. Quanto l’ignoranza poi abbia persino indotto le persone, i coetanei e concittadini, a deriderlo, a indicarlo. Ecco perché Davide è cambiato e non è più il ragazzo dell’estate del 1996. Ordina la terza birra, gli chiedo cosa lo spinge a scrivere, quando riesce a scrivere, a cosa pensa quando lo fa.
Mi dice che è il suo modo di restituire qualcosa. “Sempre dalla parte dei più deboli”. Quando gli hanno fatto notare di essere bravo, di far ridere con i suoi brevi racconti assurdi, ha trovato la sua dimensione. Puoi scrivere un post dove prendi in giro i turisti, lo riempi di aneddoti e battute, lo diffondi a una cerchia di persone attente e scrivendo metti in ordine i pensieri. Addomestichi la Tourette. Trasformi il lupo mannaro che esplode per una luna piena imprevedibile in un cucciolo di labrador che tutti aspettano di leggere. Davide si è ritagliato il suo spazio in questo modo, un po’ lontano dai riflettori, godendo della luce riflessa. Il suo corpo porta i segni delle battaglie che ha combattuto contro il suo stesso mostro interiore, con i suoi tic e tremolii. Parliamo di ansia, di scrittura, di tatuaggi, gli dico che mi ha influenzato anche in quello, specialmente quando più di vent’anni fa si tatuò Hello Kitty sulla gamba, rompendo gli schemi della mascolinità tossica decenni prima di quando ha iniziato ad andare di moda. “Ah ma quello, quello l’ho copiato dal cantante di una band hardcore, aspetta, dopo ti dico il nome” e il nome non me l’ha più detto.
Si calma quando arriva l’autrice del rossetto sulle sue labbra. Susie ha non solo un pacchetto di sigarette ma un sorriso luminoso capace di attenuare i cicli lunari del mannaro. Giusto il tempo di arrivare, lasciargli qualche cicca, bere un macchiato, rubargli l’accendino e sparisce all’orizzonte. Ci saremmo rivisti tutti alla presentazione.
- Ma parlerai dopo? Leggerai qualcosa?
- No, no. No. Non ce la faccio. Sono troppo nervoso.
- E quindi che fai?
- Lascio parlare gli altri, già è tanto se riesco a stare là in mezzo senza svenire.
- E sei felice di questo traguardo?
- A me interessa poco. A me piace far ridere. Io voglio solo quello, ridere e allontanare la tristezza agli altri. Io sono sempre dalla parte dei più deboli.
Lo ripete ancora altre volte, sempre dalla parte dei più deboli, come un mantra, una campagna elettorale. Come fece con me nel 1996.
Ci salutiamo promettendoci di scambiare i reciproci figli cartacei. Prima di allontanarmi chiede “Yomo, hai dieci euro?” Io guardo nel portafoglio e mento “Eh, ne ho solo cinque” (ne avevo quindici) e glieli allungo. Così so che ci dovremo rivedere per forza. Perché io sono povero in canna e quei soldi fanno la differenza.
La Nuova Libreria Cappelli sta battendo il record di persone a una presentazione, il record che avevo fatto IO in precedenza! Vorrei essere invidioso ma non ci riesco. Non riesco nemmeno ad entrare c’è davvero troppa gente e mi sale la mia di ansia, quella che pensa che il piano rialzato crollerà spiaccicando tutti. Così ascolto da fuori e annuso l’amore che una città prova verso questo gomitolo di imperfezioni morbide che è Davide. È il suo momento di gloria e lo sta assaporando insieme a tutte le conseguenze. È questa la condanna dei sensibili, non ci si ferma a una sola sensazione, sei costretto a provarle tutte e dimenarti per scappare dalle loro grinfie.
Davide sta firmando autografi ma mi nota nascosto in disparte e urla:
- Yomo! Yomo, non sei entrato. Non sei entrato!
- Eh lo so, c’era troppa gente.
- Minchia ma hai tanta ansia come me allora.
Gli sorrido e capisco cosa ci legò nell’estate del 1996. Abbiamo tutti e due dei mostri interiori che ci consumano. Davide il suo lo ha identificato prima in una sindrome, poi con una forma holliwoodiana molto più accattivante. Il suo lupo mannaro che fa ridere e innamorare. Il mio è diverso. Ci ho pensato spesso ultimamente a che forma abbia. È una larva umanoide gigantesca strabordante che mi aspetta in camera da letto quando fa buio. La carnagione è bianco violacea, è privo di palpebre e gli occhi sono gialli e sanguigni. Non ha labbra, solo denti lunghi e affilati. I capelli in testa sono sparuti, lunghi e unti, sembrano rivoli di catrame. Non dice niente, mi aspetta e respira affannosamente tutta la notte, tenendomi sveglio. Se gli chiedo di spiegarmi la sua presenza non risponde, mi fissa e respira. E io resto insonne a domandarmi cosa ho fatto di male. Ecco, non è proprio cool come un lupo mannaro! Dubito che ci si potrebbe fare un film sopra, magari con Michael J. Fox o il suo relativo di quest’epoca che penso sia Timothée Chalamet?
E voi, avete un mostro interiore che riuscite a definire?
Siete in grado di vederlo? Ci avete mai parlato?
Siete in grado di controllarlo o lo avete accettato?
Vedere tutta quella gente stretta attorno a Davide, il calore che ha ricevuto, mi ha fatto capire quanto una risata sia necessaria. Davide ha fatto questo, ha insegnato non solo a me, ma a tutta una città quanto sia importante ridere.
Tutti noi dobbiamo qualcosa a Davide e Davide, a sua volta, deve qualcosa anche a tutti noi. Ho chiesto in giro. Tipo a me deve cinque euro che gli chiederò di restituirmi quando torno, ma solo per avere un pretesto per andare a bere un caffè e sedermi al tavolo con quel ragazzo paffuto dell’estate del 1996 che mi prese sotto la sua ala e mi mostrò come ammaestrare il mostro che porto dentro.
Foto YOMER
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