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May 2, 2024

Il ristorante “Da Silvio” a San Michele: mangiare in un’opera d’arte

Francesca Fattinger

L’arte è libertà e ricerca. Libertà dagli schemi. Ricerca in mondi inesplorati. In arte tutto è stato fatto. In arte tutto è ancora da fare.
Riccardo Schweizer

È davvero possibile mangiare in un’opera d’arte? Al ristorante “Da Silvio” a San Michele all’Adige non solo questo è possibile, ma è molto più di così, perché oltre a essere immersi in un’opera d’arte totale, in cui nessun dettaglio è lasciato al caso, varcando la soglia si entra in un mondo magico, fatto di colori, di ritmi, di sinestesie scoppiettanti, si entra in una favola luminosa e gioiosa in cui la parola d’ordine, che sembrano cantare all’unisono arredi, luci e oggetti, è “convivialità”. Una “convivialità” studiata nel minimo dettaglio, che si intreccia alla storia di una famiglia, la famiglia Manna, e all’estro creativo di un artista poliedrico, Riccardo Schweizer che, nato a Mezzano di Primiero nel 1925, ha portato con sé la Francia e gli stimoli raccolti prima a Vallauris e poi in Costa Azzurra, e tutte le influenze artistiche incontrate precedentemente, da Picasso, a Chagall, Léger, Braque e non solo, facendole confluire nello scrigno di tesori in cui si è trasformato il ristorante “Da Silvio”, inaugurato in questa sua nuova veste, nel 1978.

Denny Mosconi - Base Comunicazione1

Dalle pareti trasuda la sua storia, un passato mai fermo che continua con passione ed energia e che fa intrecciare tradizione e innovazione, alla ricerca continua di un equilibrio che sappia dar voce a entrambi i protagonisti di questa storia. Per conoscerla al meglio ho incontrato Veronica Manna, mi sono calata nei suoi occhi scintillanti e nelle sue parole piene di cura e professionalità, e in questo bagno di colore e passione sono riuscita a sentire nella sua voce intrecciate anche le storie dei fratelli Manna, dei suoi zii, che hanno dato vita al ristorante, ma anche di suo padre e degli altri suoi fratelli e di tutte le persone che hanno messo il loro cuore, perché il ristorante “Da Silvio” continui a essere un punto di riferimento per chi vuole ritagliarsi una parentesi di bellezza estetica, culturale e culinaria.

 

“Il ristorante “Da Silvio” è un po’ come un geode, da fuori sembra un sasso normale, ma se guardi al suo interno è ricoperto di tanti bellissimi cristalli”, con queste parole Veronica mi racconta la bellezza racchiusa nell’edificio e comincia a delinearne davanti ai miei occhi la storia: “il ristorante come edificio è circa della metà degli anni ’60 e la mia famiglia, la famiglia Manna, arriva al ristorante nel 1972”. Dopo aver fatto esperienza nella gestione di un altro piccolo ristorante, i suoi zii decidono, quando il padre di Veronica era ancora piccolissimo e andava appena alle elementari, di prendere in gestione il ristorante “Da Silvio” e di trasferirsi da Levico, dove il nonno originario di Aversa aveva fatto il servizio militare e aveva conosciuto la sua futura moglie, e andare quindi a vivere a San Michele all’Adige con tutta la famiglia, dando vita a quella che è sempre stata una gestione familiare. 

foto chiara pirro ristorante da silvio

Appena entrati nella gestione, dato che il locale aveva bisogno di lavori di ristrutturazione, si è cominciato a pensare a come intervenire. Le riflessioni sono cominciate dal luogo in cui il ristorante si trova: “siamo in una zona di confine, tra le splendide montagne che fanno da cornice alla Piana Rotaliana, a cinque chilometri sotto il confine dell’Alto Adige e quindi la prima questione era se adottare uno stile più vicino a una stube altoatesina o trentina”. La vera svolta arriva quando il primogenito dei fratelli Manna, Piergiorgio, parla con l’allora Presidente della Provincia Bruno Kessler, frequentatore del locale, che gli dice di avere il contatto di un artista che fa proprio al caso loro. È così che la storia della famiglia Manna si intreccia con quella di Riccardo Schweizer e i lavori vengono affidati a lui: “un bell’esempio di come la mia famiglia sia stata sempre un po’ sopra le righe, perché in quel momento un po’ di pazzia, si sono fidati e hanno affidato i lavori di ristrutturazione del locale invece che a un architetto a un pittore”. 

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Ed è proprio da questa intuizione “un po’ pazza” che è nata la magia di un locale totalmente sui generis, un’opera d’arte immersiva, totale e sinestetica. Siamo tra il 1976 e il 1977 quando parte l’idea di commissionare i lavori e Schweizer prepara i progetti nel giro di un paio di anni per poi montare tutto alla velocità della luce, in tre mesi, il papà di Veronica le racconta che non ha mai visto degli operai lavorare così velocemente, e inaugurare il locale nel luglio del 1978. L’incarico affidato al pittore trentino, in una relazione che ricorda quelle rinascimentali tra artisti e committenti, consisteva in un progetto che andasse a rivoluzionare sia gli arredi sia le decorazioni del locale ed è stata per Schweizer una splendida occasione per fondere pittura, architettura e design. Come più volte ribadito, l’artista “in un’efficace sintesi estetico-ambientale” ha progettato davvero ogni particolare: dalle pareti ai pannelli decorativi, sia all’interno che all’esterno del locale, dai tavoli ai sistemi di illuminazione, fino addirittura alla griglia per la cottura e ad alcuni servizi di piatti e di bicchieri”. Bisogna ricordare poi che nel 2008 questa eccezionalità è stata riconosciuta anche con l’apposizione del vincolo di tutela diretta dalla Soprintendenza dei Beni Culturali della Provincia di Trento per il suo eccezionale interesse artistico. 

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Un ristorante che è un’opera d’arte per tutti e di tutti, che lavora giorno per giorno per rimanere sempre legato alle sue origini: “è nato come un luogo ricercato, che coniuga nella sua cucina tradizione e innovazione, ma che vuole sempre essere idealmente alla portata di tutti”. Tra i suoi piatti ce ne è uno che mi incuriosisce particolarmente, me lo faccio raccontare da Veronica, anche perché è stato ideato dallo stesso pittore e si chiama appunto “Piatto Schweizer”. “In questo piatto, brevettato dall’artista trentino, traspare pienamente la filosofia della proposta gastronomica del ristorante che vede nella convivialità la sua massima espressione”.

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Infatti questo piatto consiste in una pietra ad accumulo di calore, collocata all’interno di un vassoio di ceramica, usata direttamente a tavola per la preparazione e cottura dei cibi: dalla carne alle verdure fino ai formaggi, tutto cotto a tavola dai commensali, una bella occasione per rompere il ghiaccio e cucinare insieme, grazie alla sua autonomia di calore di più di un’ora. Oppure un altro piatto tipico è la tartare di manzo o ancora i “maccheroncini Silvio”, una pasta fatta in casa con la ricetta inventata dallo zio Marcello, una pasta saporita a base di ragù di carne, una riduzione di pomodoro, pancetta e sedano, leggermente piccante.

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Piatti che mettono insieme ingredienti naturali, semplici e tradizionali con sapore, innovazione, genuinità e leggerezza così come fa l’arredo e il design tutto intorno. Tra le tante opere d’arte, che circondano i commensali in ogni sala, mi faccio guidare da Veronica, che fa lo stesso con chiunque arrivi al ristorante con la curiosità di saperne di più, nel raccontarmi alcuni degli aspetti dell’architettura che più ama. “Ci sono degli aspetti in generale – mi racconta – che apprezzo particolarmente e sono: da una parte il gioco di volumi che Schweizer è riuscito a creare, che dà ritmo alle pareti e all’architettura tutta, e dall’altra il suo saper giocare continuamente con la materia in un senso tattile. Ci sono pareti tutte rivestite di legno che danno un senso di calore e poi ad esempio il corridoio rivestito dalla moquette marrone che invece dà quello di morbidezza, o ancora i quadrati ricoperti di foglia d’oro e poi un materiale che crea l’effetto del sughero, ancora un ritmo alternato di diverse sensorialità e tattilità”.

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Un elemento di arredo che Veronica ama particolarmente e che, come in tutte le opere di Schweizer, ha sia una funzione estetica sia una pratica, è il controsoffitto in cui sono stati montati dei “quadrettoni”, come li chiamano loro, cioè plexiglass quadrati leggermente opachi, su cui sono stati collocati fiori secchi, circondati da quattro tendine rettangolari colorate: un giardino pensile che funziona come cornice estetica colorata e ritmata, ma anche come mezzo per rendere la sala “anecoica”, cioè per ridurre l’eco al massimo, insonorizzando lo spazio per permettere ai commensali di chiacchierare indisturbati anche nel caso di sala piena. Nell’idea di Schweizer, come ha spesso dichiarato, il ristorante è un luogo frequentato da coppie, e va progettato perché sia possibile nel miglior modo possibile la relazione: lo stesso ragionamento si nasconde dietro al design dei tavoli in cui sono state scavate delle trincee, cioè dei corridoi angolari lunghi che si abbassano nel tavolo e si incastrano per abbassare il livello delle bottiglie e permettere alle persone di guardarsi negli occhi.  

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Perché è forse tutto lì, negli occhi in cui si mescolano colori, ritmi, che tutto trattengono ed espandono, come se tutto il ristorante fosse fatto per dare una cornice morbida accogliente colorata e gioiosa agli occhi di chi faccia a faccia mangia e negli occhi dell’altro o dell’altra vede riflessa quella stessa gioia colorata e polifonica che Schweizer e la famiglia Manna hanno saputo e sanno curare in ogni piccolo dettaglio, in un ristorante in cui ci sente in un museo ma anche a casa, in un ristorante in cui stare bene, arricchire mente e corpo e voler tornare e tornare per scoprirsi e ritrovarsi.

Credits: (1,2,4-9) Denny Mosconi – Base Comunicazione; (3,5,10) Chiara Pirro.

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