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April 1, 2024
L’Allegoria della felicità pubblica: In mostra alla Galleria Civica di Trento
Francesca Fattinger
L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante.
Cesare Pavese
Mi sono domandata tante volte nella mia vita cosa sia per me la felicità, “facci caso quando sei felice” mi ha detto un amico qualche mese fa, citando le parole di un discorso che lo scrittore Kurt Vonnegut pronunciò a fine anno agli studenti americani. E così, da quando mi ha infilato queste parole tra i pensieri, loro ricompaiono costantemente davanti a me, e adesso mi impegno quotidianamente a farci caso: riconoscere la felicità è una questione di allenamento. Ho capito ogni giorno di più che la felicità per me è fatta di nodi, di intrecci, di fiocchi, è fatta di fili colorati e di tessuti diversissimi tra loro che insieme creano una tessitura a volte sgangherata, a volte lineare, ma che accarezza e abbraccia tutto: la felicità è sentirmi parte di quella trama, sentirmi quel filo che in mezzo a tutti e con tutti rende possibile la tessitura.
La mostra “Allegoria della felicità pubblica”, curata da Giulia Coletti e Gabriele Lorenzoni, che è stata inaugurata ieri alla Galleria Civica di Trento e che sarà visitabile fino al 30 giugno 2024, vuole essere un invito a porsi la domanda “che cos’è la felicità pubblica?” e a costruire una propria personale risposta, o forse una personale versione della stessa domanda, mettendosi faccia a faccia con le opere dei 31 artisti e artiste contemporanee che, attraverso una compenetrazione di epoche, soggetti, matrici culturali, attorno a questo tema o in modo tangente ad esso hanno lavorato. Sono capolavori delle Collezioni del Mart, di cui alcuni raramente esposti, opere site-specific e importanti prestiti provenienti da gallerie partner, collezioni pubbliche e private.
La mostra stessa è una messa in pratica di quello che può essere un processo di costruzione della felicità pubblica: può l’arte offrire modelli culturali in grado di mettere al centro una concezione allargata, collettiva e plurale del concetto di felicità? E se la risposta è davvero affermativa, lo è anche perché l’arte non si limita a se stessa in un monologo a tratti tautologico, ma si intreccia con altri e altre: per questo sottolinea Gabriele Lorenzoni, “la mostra”, organizzata dal Mart in occasione di Trento Capitale Europea del Volontariato 2024, “si compone poi di un ampio palinsesto di eventi outdoor, fra cui talk, interventi di arte pubblica e laboratori, che hanno l’ambizione di attivare la città di Trento e di rendere tangibile e concreto il rapporto sociale che può sviluppare l’arte fra la cittadinanza, le associazioni e le persone interessate.”
E se la felicità pubblica passasse per la cura?
La riflessione sulla felicità in Occidente ci fa fare mille capriole e dall’antica Grecia ci fa piombare nel saggio “On Revolution” del 1963 di Hannah Arendt in cui la storica e filosofa tedesca “riflette sulla felicità pubblica come un’emozione unica che si sperimenta agendo insieme in uno spazio condiviso”: un’esperienza che si può raggiungere “quando le persone agiscono di concerto e comunicano l’una con l’altra, contribuendo alle dinamiche sociali del contesto in cui si trovano”. Insomma una “felicità creata per e con gli altri”, come osserva la curatrice Giulia Coletti. Programmaticamente fin dall’esterno della Galleria Civica, grazie all’opera l’”Orto delle letizie” di Hannes Egger, per cui visitatori e visitatrici sono invitate a prendersi cura di piante selezionate dall’artista tra quelle che procurano benessere e felicità, prende corpo questa dinamica collettiva racchiusa all’interno del concetto di felicità pubblica, una dinamica appunto di cura, ascolto, benessere sociale che solo tramite la partecipazione attiva e la pratica quotidiana di resistenza si realizza.
E se la felicità pubblica passasse per il gioco e per il rischio?
La mostra mutua il suo titolo da quello di una serie di opere del collettivo Zapruder che lavora sul confine tra arti figurative, performative e cinematografiche. “Anubis Is Not a Dog”, parte della serie “Allegoria della felicità pubblica”, è un’installazione video a tre canali incentrata sulle coreografie praticate nell’ambito della disciplina della “Dog Dance”: cane a addestratore simbioticamente legati da codici educativi e comportamentali che vedono nel gioco il veicolo principale, ma se ci fosse il rischio che il gioco si trasformasse in controllo e sottomissione? Un rischio che è realtà se lo si trasla nelle immagini stereotipate delle figure femminili che alimentano il mondo dei mass media. In “Imprevedibile gioco del destino” Lucia Marcucci accosta l’immagine di una mano maschile che punta una pistola su una donna asiatica a cui è affiancata una donna italiana, entrambe accompagnate dalla frase “con voi per la pace e la libertà”: parole e immagini vanno in cortocircuito per affermare che l’autodeterminazione femminile può essere l’unica possibilità di affrancamento dalla condizione di soggiogamento in cui si trova, qualsiasi sia la sua condizione sociale o la sua nazionalità.
E se la felicità pubblica passasse per l’empatia e per l’assurdo?
Sempre al piano terra ci sono due opere, l’una di fronte all’altra, apparentemente molto diverse, ma che instaurano un singolare dialogo tra loro e con visitatori e visitatrici. Sembra di essere di fronte a uno spazio in cui è appena avvenuto un laboratorio con dei bambini e delle bambine, si sentono aleggiare nella stanza ancora le grida, gli scherzi, gli schiamazzi, si sente ancora l’aria vibrare per la loro voglia di muoversi, fare, cambiare le regole e non smettere mai di giocare. “Room for Restoring Empathy” di Eva Kotátková è un’installazione nata da numerosi incontri e laboratori con un gruppo di bambini che hanno condiviso con l’artista indumenti personali che sono stati trasformati insieme per diventare una specie di “seconda pelle” per esprimere loro stessi: le loro paure, i loro desideri e i loro sogni. Sono vestiti che sanno parlare, che hanno occhi, bocche, braccia e che insieme diventano parte di un organismo collettivo. Davanti a questa installazione l’ironica e assurda operazione di John Baldessari che in “Teaching a Plant the Alphabet” impartisce una lezione sull’alfabeto inglese a una pianta di banano in un vaso: l’artista mette così in questione le teorie sul linguaggio, ma anche sull’insegnamento, dando spazio all’assurdo come chiave di decostruzione delle regole sociali in cui siamo spesso incastrati.
E se la felicità pubblica passasse per l’inutilità e per la decostruzione?
Il discorso sulla decostruzione continua e in un discorso curatoriale, in cui le opere scelte riflettono proprio sulla condivisione di codici comportamentali ed educativi attraverso il gioco, non può non essere presente un’opera di Bruno Munari che nel 1986 scriveva: “giocare è una cosa seria! I bambini di oggi sono gli adulti di domani, aiutiamoli a crescere liberi da stereotipi, aiutiamoli a sviluppare tutti i sensi, aiutiamoli a diventare più sensibili. Un bambino creativo è un bambino felice!” E la creatività si sviluppa proprio inventando strade alternative, magari pure apparentemente inutili, per farci aprire gli occhi e uscire dall’accettazione passiva di dinamiche che non fanno altro che privarci della nostra felicità. Ecco allora che le “macchine inutili” di Munari servono proprio a questo e la “caffettiera-sveglia” esposta in mostra vuole proprio ironizzare sulle pratiche di auto-ottimizzazione della persona di successo, che non deve perdere tempo, ma cavalcarlo, sfruttarlo e ottimizzarlo senza sosta.
E se la felicità pubblica passasse per la musica, il delirio, l’utopia e i parties?
Scendendo al piano interrato il percorso prosegue e si amplia attraverso opere checelebrano forme di autodeterminazione realizzate attraverso pratiche collettive e corali di catarsi e liberazione come il teatro, la festa, la danza, lo sport, ma anche la musica, il ricamo, la scrittura calligrafica ed epistolare. Dal silenzio del piano terra un gradino dopo l’altro la musica si fa sempre più evidente: “Everybody’s Free. To Feel Good” invade la sala ed è impossibile non sentire il corpo animarsi al suo ritmo. Il singolo della cantante zimbabwese Rozalla uscito nel 1991 arrivò in cima alle classifiche ed è così che lei divenne la “regina del rave”. Dan Halter prende questo successo mondiale e lo usa come colonna sonora di un collage video in cui si alternano filmati di proteste antiapartheid in Sud Africa, in cui veicoli vengono ribaltati e incendiati e cecchini prendono di mira gruppi di manifestanti, con video di rave in Europa in cui si vedono persone che ballano: da una parte ci si interroga su come nei mass media operi una decontestualizzazione continua delle immagini, dall’altra sul valore del ballo come forma di affrancamento dal corpo autoritario.
E se la felicità pubblica passasse per la collaborazione e per i sogni di volo?
Non posso non concludere citando due opere che chiudono il percorso in mostra e che dopo installazioni che si interrogano sul legame tra arti visive e musica, ma anche tra parola, poesia e silenzi ci riportano ad alcune delle riflessioni iniziali. La prima ci riconduce alla metafora iniziale dei fili e delle tessiture: “Avere fame di vento” di Alighiero Boetti mostra un lato molto importante del lavoro dell’artista che si compone di una natura fortemente collaborativa. Dal 1971 al 1994 l’artista collabora con un gruppo di ricamatrici afghane per la realizzazione di una serie di arazzi. In questo caso siamo di fronte a una scacchiera di 625 caselle in cui l’italiano si alterna alla lingua farsi: una poesia cromatica in cui si celebra la commistione culturale e l’affrancamento femminile, ma anche una poesia da leggere e rileggere, ancora più bello se lo si fa insieme alla ricerca delle frasi che la compongono, dei suoi “centri di pensiero”, del suo “certo e incerto”, dei suoi “tocchi e rintocchi” e di tanto tanto altro.
È infine l’opera di Gino De Dominicis “Tentativo di volo” che chiude ironicamente la mostra, aprendola a uno spazio utopico, ma anche a un potenziale scambio intergenerazionale. In questo video, che è la documentazione di una sua performance immortalata da Gerry Schum, l’artista ripete pazientemente e continuamente dei gesti con le braccia tentando di spiccare il volo: un’azione che non porta a nulla ma che, si domanda l’artista, forse in migliaia di anni, dopo migliaia di tentativi, di generazione in generazione, potrebbe portare la specie umana a imparare davvero a volare.
Queste sono state le domande-sorgenti che hanno guidato il mio personale percorso attraverso le opere in mostra. Sono sicura che se ritornassi a visitarla cambierebbero e si rinnoverebbero in continuazione, perché la felicità pubblica, che personalmente ritengo simbioticamente legata a quella privata, così come propone la mostra, è un impegno da rinnovare ogni giorno, da cominciare e ricominciare ogni istante, come ci suggerisce Cesare Pavese nella citazione in apertura. Per trasformare tutte le azioni di solidarietà collettive in strumenti di emancipazione, esse vanno condivise e reiterate nello spazio pubblico con coraggio e con cura, anche se ci sentiamo controcorrente anzi soprattutto in quel caso.
Credits: Alighiero Boetti, Avere fame di vento, 1988-1989, Mart, Deposito collezione privata (1); Ketty La Rocca, Trazione anteriore, 1965, Mart, Archivio Tullia Denza (2); ZAPRUDER filmmakersgroup, Allegoria della felicità pubblica / Anubi is not a Dog, 2021, Mart – realizzata grazie al sostegno di Italian Council (2020), Direzione Generale Creatività contemporanea del Ministero per i beni e le attività culturali (3); Eva Kotàtkovà, Room for restoring empathy, 2019, Courtesy l’artista e Meyer Riegger, Berlin/Karlsruhe/Basel (4); Dan Halter, Untitled (The Zimbabwean Queen of Rave), 2005, Courtesy l’artista (5); Anna Esposito, Prima e dopo il concerto, 1982, Mart, donazione Mirella Bentivoglio (6); Gino De Dominicis, Tentativo di volo, 1970, Mart, Collezione Gian Enzo Sperone (7)
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