HOPE a Museion per esplorare spazi possibili di speranza tra scienza e finzione

Si ha bisogno del cannocchiale più potente, quello della coscienza utopica levigata.
Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung
Appena si arriva davanti a Museion e lo si osserva da sotto in su l’occhio si perde a vagare sulle sue superfici trasparenti, sulle sue forme sporgenti e rientranti, sulla sua massa aliena rispetto all’intorno: sembra davvero un’astronave atterrata chissà da dove, con le sue forme futuristiche, un’architettura extraterrestre che fa prefigurare al suo interno la presenza di portali verso altre dimensioni. 15 anni fa quando è stato inaugurato questo palazzo veniva descritto proprio così: come un UFO atterrato nel centro di Bolzano. Con la mostra “HOPE”, appena inaugurata il 29 settembre scorso, è come se dopo tutti questi anni Museion volesse davvero incarnare quella descrizione a fondo, accogliendo in ogni suo spazio una mostra collettiva internazionale in cui artiste e artisti di differenti generazioni con le loro opere transdisciplinari scavano spazi di speranza tra scienza e finzione.
È il terzo capitolo di una trilogia di mostre dedicate alle TECHNO HUMANITIES, un’ode alle scienze umane che nel legame con i musei, come luoghi di pratica, si attivano nella costruzione del mondo, dando vita a interstizi di possibilità che si fanno spazio nel reale, e proprio lì in quelle crepe aperte nella quotidianità generano portali o buchi temporali che permettono a visitatori e visitatrici di viaggiare nel tempo, diventare alieni e da quella prospettiva osservare la terra. Una mostra quindi, curata da Bart van der Heide e Leonie Radine in collaborazione con il musicista, teorico e scrittore DeForrest Brown, Jr., che attiva a ogni angolo una diversa capsula del tempo, un portale, un accesso laterale al mondo, al suo passato e al suo presente, con un’ottica sempre spinta verso il futuro per immaginare alternative e dar loro voce e corpo. È la speranza il filo che lega insieme le opere, come una trama sottile, che alcune volte sbuca più manifestatamente, altre volte rimane un po’ nascosta sottotraccia, insieme alla meraviglia, come fari per penetrare l’oscurità e non perdersi, un invito a saltare in continuazione tra quotidianità e immaginazione, finzione e possibilità, fantascienza e tecnologia, economia ed ecologia, senza farsi tante domande, o meglio lasciandole aperte, e lasciandosi ispirare, trascinare dalle visioni più o meno personali di artisti e artiste e immergersi così tra virtuale e reale. Solo in questo spazio “weird” (strano) e “xeno” (nel senso di fantascientifico) è infatti possibile, secondo i curatori, “riattivare in noi la speranza come pratica critica nell’immaginare passati e futuri alternativi”.
Ed ecco che già sulla facciata è attivato il primo portale: sono le due stelle di Petrit Halilaj e provengono da un progetto artistico avviato a Pristina nel 2022 per la Biennale d’arte Manifesta 14. Sul tetto e sulla facciata del Grand Hotel del capoluogo kosovaro inaugurato nel 1978 oggi segnato dalla storia, l’artista ha sostituito le stelle andate perdute con un insieme di nuove e oltre a queste ha integrato e disposto in un diverso ordine anche le lettere luminose dell’albergo per far leggere il titolo di un tema della dodicenne Pristina Njomza Vitia del 2014: “Quando tramonta il sole, coloriamo il cielo”. Ecco il primo tunnel spazio-tempo che attraverso le stelle e queste parole poetiche ci mette nello sguardo il primo lampo di speranza. Subito dopo, proprio davanti all’infopoint e alla cassa del museo la monumentale insegna luminosa “Open” di Riccardo Previdi che ricalcando ironicamente i meccanismi pubblicitari e le modalità con cui la società se ne appropria e li reitera si pone qui come segnale di apertura e superamento delle barriere, siano esse mentali, geografiche o politiche. Per costruire insieme speranza bisogna aprirsi, aprirsi all’altro, al diverso da noi, senza apertura non c’è speranza e senza speranza non c’è apertura, in un circolo vizioso senza fine. Visitatrici e visitatori per entrare in mostra sono costretti a passarci sotto e poi sono invitati a usare l’ascensore per accedere a un percorso espositivo che proprio dal quarto piano ha inizio. Nemmeno l’ascensore è uno spazio neutro, ma anche qui vi aspetta un portale che vi farà viaggiare attraverso lo spazio e il tempo per farvi atterrare poi nei diversi mondi di “HOPE”. Sarete immersi nell’installazione sonora “Aui Oi”, che nel dialetto sudtirolese significa “su e giù”: un progetto di Ulrike Bernard e Caroline Profanter, concepito per la funivia di Renon di Bolzano, riadattato per questo spazio, con registrazioni vocali di annunci anonimi, rumori meccanici e musica elettronica.
Al quarto piano si arriva in un “osservatorio” dove, attraverso diverse capsule temporali artistiche, si aprono nuove prospettive che intrecciano cosmologie artistiche individuali e collettive, cercando di superare una visione antropocentrica del mondo. Troverete video, sculture, costumi, dipinti e disegni che creeranno un’atmosfera fantascientifica. Esemplificativi di un’estetica post-umana i lavori di Micheal Fliri che rimandano alla fantascienza e alle radiografie ingannando il nostro occhio e il nostro pensiero. Le immagini generate, in un continuo passaggio tra negativo e positivo, sono tracce di corpi che sembrano fluttuare ed emergere alla realtà da una dimensione all’altra. Derivano da un lavoro manuale su calchi in vetro di diverse parti del corpo che riempite in seguito di liquidi e attraversate da luci danno vita alle immagini finali.
A proposito di effetto di straniamento lo “Space Junk” di Sonia Leimer che riproduce in modo fittizio un rottame spaziale e nasce consapevolmente dal discostamento e dalla deformazione dell’originale, puntando l’attenzione su tutto quello che succede tra lo spazio e la terra che pur essendo sempre più immateriale dà vita a urgenze legate agli aspetti ecologici dello sviluppo tecnologico. E se con questa artista si parla di spazzatura spaziale allora le valigie di Andrei Koschmieder come lapidi della mobilità globale creano uno scenario che fa pensare a un paesaggio apocalittico in rovina che prefigura però proprio la rovina come spazio di possibilità per ribaltare il nostro sguardo e ricrearci da capo. Così come “Sun e Moon Giant Pénétrables” di Nicola L.: a partire dal 1964 l’artista ha sviluppato una serie di tele che possono essere indossate come una seconda pelle. Per quanto giocose queste opere rilfettono sui confini corporei sensibili tra il sé e il mondo e puntano in questo a ristabilirne di nuovi. Le tele qui esposte con aperture per testa, braccia e gambe permettono al corpo umano di calarsi nel ruolo di corpi celesti e di osservare la terra da lassù, da una prospettiva più ampia e lontana: come cambierebbero le nostre percezioni e le nostre decisioni? Sarebbero le stesse?
Al terzo piano spazio ad “Arcade” con il duplice significato che rimanda da una parte al mondo del gaming come definizione di sala giochi e dall’altro al mito dell’Arcadia, come paesaggio montano poetico lontano dalla civiltà. Gli artisti e le artiste che espongono al terzo piano infatti utilizzano talvolta nuovi strumenti di costruzione del mondo nell’era dell’intelligenza artificiale e della realtà virtuale. Con le loro installazioni, che ricordano i videogiochi, creano spazi immersivi tra il virtuale e il reale, la memoria e l’oblio. Ogni sala è un salto in un mondo altro in cui i confini effettivamente si disfano, il tempo e lo spazio si dilata e si viene risucchiati. L’intelligenza artificiale infatti, così come l’apprendimento automatico o le sfere generate dai computer, sempre più reali e plastici, ci mettono di fronte a sfide sempre nuove nell’interfaccia fra essere umano e tecnologia. È possibile trovare in tutto questo materiale creativo per immaginare e creare mondi più egualitari e giusti, al di là delle dinamiche capitalistiche? Con “Nepenthe Zone” (da nepenthés, la prodigiosa bevanda dell’oblio della mitologia greca) Lawrence Lek implementa progressivamente, dal 2021, un mondo virtuale del gaming, trasformandolo in una sorta di portale d’accesso a un’isola misteriosa e solitaria che promette la guarigione e la liberazione da tutti i mali. Siamo condotti attraverso le rovine digitali dell’Antico Palazzo d’Estate di Beijing, distrutto nel 1860 durante la guerra dell’oppio, e dentro la versione fittizia di architetture espositive reali a Lubiana, Londra e Seoul. L’artista indaga qui quel territorio sottile tra memoria e oblio, ricordi personali e collettivi, e dà vita a spazi collettivi di libertà e di dimenticanza.
Al secondo piano ancora spazio per la musica techno, quasi a creare un collegamento circolare con la prima delle mostre della trilogia citata in apertura: spazio quindi all’archivio del mito afrofuturista Drexciya. È su questo piano che prendono forma le approfondite ricerche che DeForrest Brown, Jr., co-curatore della mostra, che ha indagato e studiato approfonditamente la storia della techno per il suo libro Assembling a Black Counter Culture (2022). Qui, in dialogo con i dipinti digitali di AbuQadim Haqq, sono esposti anche numerosi album techno provenienti dalla scena musicale di Detroit lungo mappe e linee del tempo e parallelamente viene sviluppata una storia sonora con il suo album Techxodus (2023), i suoi mix The Myth of Drexciya (2023) e Stereomodernism (2020). Spazio è dato anche alla collezione di dischi di Dj Veloziped / Walter Garber di Bolzano. Tutti questi elementi insieme hanno permesso di rendere tangibile e in qualche modo abitabile, attraverso la linea del tempo disegnata per terra e alle pareti, questa forma artistica di scrittura della storia e di costruzione del mondo, finora altrimenti trascurata.
A Passage, il piano terra del museo, che con il suo nome funziona alla perfezione in questa mostra che di passaggi e tunnel spazio-temporali è piena, troverete opere della Collezione di Museion riattivate attraverso nuovi progetti che creano così un ponte tra la storia passata e il futuro del museo come istituzione che colleziona l’arte. Allo stesso tempo, si apre uno spazio per l’ascolto e la discussione sulle domande centrali poste dalla mostra “HOPE”: da dove veniamo e dove vogliamo andare? Linda Jasmin Mayer che da anni lavora principalmente con il video e si interroga sui temi dell’alienazione sociale e dell’interazione tra umano e natura sembra proseguire queste domande con la sua “Dove fermarsi?”. L’installazione video che così si intitola è nata da un lungo processo di gestazione, ricerca e produzione. Protagoniste sono sette figure diverse e altrettanti diversi paesaggi da loro abitati. Ogni figura è una combinazione tra umano e una specie volatile precisa, ricostruita nelle sue fattezze dallo scenografo Andrea Ferri. Ogni uccello porta con sé una domanda a cui cerca di rispondere nella relazione con il paesaggio che abita, cerca un nuovo senso di appartenenza, un legame da cui ricominciare, forse una speranza a cui aggrapparsi?
Queste solo alcune delle moltissime opere incluse nel percorso espositivo, che vedono esporre artisti e artiste nuove nella scena bolzanina insieme a vecchie conoscenze, eccoli ed eccole qui tutte: Almare, Sophia Al-Maria, Ei Arakawa, Trisha Baga, Neïl Beloufa, Black Quantum Futurism, Tony Cokes, Irene Fenara, Michael Fliri, Petrit Halilaj, Matthew Angelo Harrison, AbuQadim Haqq, Andrei Koschmieder, Maggie Lee, Lawrence Lek, Nicola L., Linda Jasmin Mayer, Beatrice Marchi, Bojan Šarčević, Marina Sula, Suzanne Treister, Ilaria Vinci, LuYang, e opere dalla Collezione Museion di Allora & Calzadilla, Shūsaku Arakawa, Ulrike Bernard & Caroline Profanter, Shu Lea Cheang, Tacita Dean, Sonia Leimer, Ana Lupaş e Riccardo Previdi.
È inoltre parte del progetto espositivo un’antologia di testi critici e un ampio programma di mediazione ed eventi che coinvolge attivamente il pubblico nella negoziazione di “spazi di speranza”. Connessa a “Hope” anche la mostra METABOLICA (Moby Dick) dell’artista Thomas Feuerstein, supportata da NOI Techpark, presso cui si svolge.
Credits: (1) AbuQadim Haqq, Museion Wormhole, 2023. Courtesy / © the artist, (2) Portait of Bart van der Heide, Leonie Radine andDeForrest Brown, Jr., Luca Guadagnini, (3, 4, 5, 8) Installation view by Luca Guadagnini, (6) Michael Fliri, Fluid Foot, 2022. Courtesy the artist and Galleria Raffaella Cortese, Milan, (7) Lawrence Lek, Still from Nepenthe Zone, 2022. Courtesy the artist, (9) Linda Jasmin Mayer, Dove fermarsi?, video still; (10) Suzanne Treister, SURVIVOR (F)/Museum of Cosmic Ecstasy, 2019. Courtesy the artist and Annely Juda Fine Art