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September 1, 2023
“L’incredibile, dettato” di Giovanna Bonenti e Fabio De Meo al Duomo di Trento
Francesca Fattinger
Quel che l’arte deve fare per noi è di fermare ciò che è sfuggente, di illuminare ciò che è incomprensibile, di dare forma alle cose impalpabili e di eternare le cose che non durano.
Le anime degli artisti siano come acque correnti nella dolcezza selvaggia delle cose non numerate e non conosciute, consce solamente degli argini viventi di cui esse rinfrescano i fiori e li riflettono proseguendo il loro cammino.
John Ruskin
Mi ritrovo ultimamente spesso a chiedermi quale debba essere il senso dell’arte contemporanea nella nostra epoca, perché ne abbiamo ancora bisogno? Che senso ha? E non sto parlando dell’arte protagonista di un sistema e di un mercato che se la ingurgita e divora, ma quella che risveglia le coscienze, che ci rende appuntito lo sguardo e il pensiero, quella che molto spesso non può rientrare nelle regole insensate di un mercato che ruota attorno a se stesso in modo spesso inconsulto. Sto parlando di un’arte che sta ai margini, ma non perché è periferica, anzi, come scrive Ruskin, perchè quei “(m)argini viventi” li accarezza attraverso le anime degli artisti e delle artiste, attraverso le loro idee dissidenti e ribelli, che come acqua corrente si insinuano nella “dolcezza selvaggia delle cose”, un’acqua che scorre e zampilla incessantemente, e che contiene dentro di sé tutto, che ha memoria e che con la sua memoria ci nutre, ci salva. Le mani degli artisti e delle artiste come quegli schizzi del fiume in piena che è la vita, frementi di mettersi al mondo, di darsi un’origine e una forma, di rigenerarsi in continuazione nelle loro opere, per fermare, illuminare ed eternare.
E allora sì che l’arte per me ha un senso nella nostra contemporaneità ed è un’arte che ha in sé qualcosa di “divino”, che non ha a che fare con nessuna religione in particolare o con tutte messe insieme, che le trascende e le abbraccia, raggiungendo così una spiritualità globale. Ve ne parlo perché mi è successo di incontrarlo questo tipo di arte, è stato un incontro semplice, come tutte le cose illuminanti della vita, ed è avvenuto nell’Aula San Giovanni del Duomo di Trento. Bello che si parli di spiritualità in una delle case della spiritualità, bello anche che l’arte di oggi incontri quella del passato e bello che sia posta in una delle cripte più antiche della chiesa, che si debba scendere per incontrarla. È in questo spazio che è ospitata fino al 10 settembre la mostra “L’incredibile, dettato” di Giovanna Bonenti e Fabio De Meo, che nel suo titolo tutto condensa e tutto trattiene.
Vedo che la natura mi ha detto qualcosa, mi ha rivolto la parola e che io l’ho trascritta in stenografia. Nella mia stenografia ci sono forse parole che non si possono decifrare, forse ci sono errori o vuoti; ma in essa c’è qualcosa di quanto mi ha detto quel bosco o quella spiaggia o quella figura, e non si tratta del linguaggio addomesticato o convenzionale derivato dalla maniera che è oggetto di studio o da un metodo piuttosto che dalla natura stessa.
Vincent Van Gogh
È come se questa citazione, che introduce il testo che accoglie i visitatori e le visitatrici alla mostra, ripresa dalle “Lettere a Theo sulla pittura” di Van Gogh, fosse tutta concentrata in quella virgola in mezzo al titolo: virgola come ponte, come specchio, ma anche come spazio, senza cui il dialogo e il collegamento non potrebbe avvenire: l’incredibile che viene dettato, ma a chi? Il progetto dei due artisti comprende innanzitutto una serie di disegni su tela realizzati a quattro mani: sono studi dal vero di piante, foglie, fiori, erbe comuni, associati a immagini di dettagli architettonici della facciata della Basilica di San Marco a Venezia, loro luogo di residenza. I disegni che risultano sovrapposti e intrecciati sulle tele sono le riproduzioni dei disegni dei loro studenti e studentesse. Durante lo scorso anno scolastico hanno infatti proposto agli allievi un esercizio che è anche una pratica: tracciare segni sui taccuini di fronte agli oggetti, senza guardare la superficie del foglio ma concentrando lo sguardo solamente sul soggetto. Ne risultano superfici scalfite da segni che si accarezzano l’un l’altro, segni comunicati dall’occhio alla mano, dettati da qualcosa che però li trascende entrambi. E così i ragazzi sono diventati macchine, “stenografi” nel senso di Van Gogh, meccanismi che riproducono un “incredibile” che li oltrepassa e al contempo attraversandoli li abbraccia.
È una giornata piovosa oggi, dopo molto tempo sembra di respirare di nuovo e anche io mi sono messa alla prova: immergendomi con la mia percezione in questa pratica, ho aperto la finestra, ho respirato il profumo della pioggia e ho cominciato ad accarezzare con lo sguardo dettagli mai davvero guardati e a farmi dettare, a diventare stenografa anche io. Cosa succederebbe ora se il mio disegno si sovrapponesse a quello di qualcun altro? Nel lavoro di Giovanna Bonenti e Fabio De Meo, il passaggio successivo è stato infatti prendere quei disegni e sovrapporli ai dettagli architettonici della facciata della Basilica di San Marco a Venezia, realizzati con la stessa pratica. Cosa accade allora se naturale e umano si mescolano? Il verde della natura e il blu dell’architettura, un tutt’uno a “sfondare qualsiasi ambizione prospettica o illusionismo ottico”, nella ricerca di una nuova spiritualità – che gli artisti pensano sia insita nelle cose stesse, sia la loro verità. È solo attraverso il nostro sentire scevro da pre-concetti e pre-insegnamenti che possiamo raggiungere quella verità e trasformarla così in immagine. Le tele diventano così come le pareti di una grotta primitiva, come quella di Lascaux o di Altamira, in cui si ritiene che ragazzi adolescenti facessero i loro riti di iniziazione dando vita a pratiche collettivi e rituali.
Le pareti diventano superfici su cui scalfire visioni e sfondi; su cui imprimere storie prelevate da un mondo altro/un mondo oltre, che la parete, come membrana sottilissima, tiene al di là ma che anche connette, tessuto caldo e palpitante di segni e simboli, frutto intimo di quella viva connessione. Non quindi un autore riconosciuto ma più autorialità che insieme ne fanno una sola, di cui sono semplicemente un tramite, un attento scriba: la natura che attraverso il loro ascolto attento si fa immagine. Ecco perché gli artisti hanno deciso di mescolare i loro disegni a quelli dei ragazzi: “per rinunciare a un determinato statuto autoriale a favore di una esecuzione corale, che rimandi alle modalità dell’arte preistorica”. Questo ciclo di grandi tele che, oltre all’immagine di pareti primitive, vogliono far pensare anche alle pagine di un manoscritto che, dalla copertina (la prima tela appena entrati) fino all’ultima tela-pagina, si possano quindi scorrere con gli occhi: “una sorta di codice miniato, un dettato fedele al sentimento delle cose, in cui riconosciamo noi stessi come parte di questo giardino parlante, da trascrivere attraverso uno sguardo “fanciullo”, in modo incerto, tremolante, insicuro ma sempre mantenendo un rapporto immediato col mondo.”
Sulla parete opposta si trovano infine dei disegni degli artisti, realizzati con la stessa tecnica ma in bianco e nero e dei dettagli della facciata del Duomo in cui sono ospitati. Mentre sulla parete di fondo sono istallati altri due lavori: una tela di Fabio De Meo che, riproducendo un disegno di un suo alunno, lo reinterpreta con i colori facendolo suo e una maiolica di Giovanna Bonenti. Queste due opere sono l’una accanto all’altra come a personificare i due artisti che proprio nel cuore dell’esposizione si presentano per poi perdersi tra le linee del dettato e riversarsi nuovamente nei nostri occhi.
La mostra sarà visitabile fino al 10 settembre nell’Aula San Giovanni del Duomo di Trento.
Credits: (1,2,3,4,5,6) Fabio De Meo e Giovanna Bonenti
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