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November 2, 2022
La ragazza con la telecamera.
Intervista a Katia Bernardi
Maria Quinz
“Il cinema racchiude in sé molte arti: così come ha caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica”. Akira Kurosawa
“Il film, quando non è un documentario, è un sogno”. Ingmar Bergman
Le arti si respirano in casa fin da molto piccoli, spesso senza rendersene conto: improntano gli interessi e lo stile dei vita di genitori e figli, animano le discussioni in famiglia e veicolano le traiettorie di vita delle persone che ne fanno parte, compresi i più piccoli, che assorbono una molteplicità di stimoli e ispirazioni e sviluppano sensibilità, anche quando non sanno ancora esprimersi a parole, impilano cubi colorati apparentemente a caso o tratteggiano linee e punti, secondo particolari sequenze cromatiche.
Così è stato anche per la regista trentina Katia Bernardi - come mi racconta. Suo padre era un pittore e giornalista e a casa sua si respirava la passione per l’arte, l’editoria, il teatro, quindi è stata una scelta naturale per lei, una volta diplomata, iscriversi al DAMS di Bologna, dove si è laureata in storia del cinema nel 1998. Gli anni di studio a Bologna sono stati fondamentali per lei, come fondamentale è stato l’incontro con il professore Antonio Costa, grande critico e scrittore di cinema, con cui si è laureata e che le ha trasmesso la passione per il cinema: un’arte completa capace di far confluire in sé moltissime altre discipline, dalla scrittura al teatro, dall’arte alla filosofia. Tale passione per Katia assumerà nel tempo, la forma di una professione – quella di regista, documentarista, insegnate di regia - ma rimarrà anche la sua principale valvola di sfogo e divertimento: Katia mi dice infatti di essere una cinefila convinta, oggi, esattamente come vent’anni fa e che guardare un film è per lei, tuttora, un grande piacere e un autentico toccasana.
Katia dopo gli studi al DAMS, come hai mosso i tuoi primi passi nel mondo del cinema e del documentario?
Il caso ha voluto che io abbia fatto la tesi di laurea su un film di Daniele Lucchetti del 1997, che si chiamava i “Piccoli maestri”, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello sulla resistenza; allora mio padre mi regalò per la laurea una prima telecamera – ancora non esisteva il digitale – e io ho iniziato un po’ per caso a girare come video operatrice. Ho realizzato il backstage del film, presentandolo alla tesi e proprio grazie a questo lavoro, ho vinto una telecamera professionale e ho – diciamo – seguito la corrente: Daniele Lucchetti mi ha proposto di andare a fare una formazione con lui a Roma, dove lavorava alla Filmmaster in pubblicità e da lì è partito tutto.
Ti sei ritrovata quindi a Roma – la città del cinema – ancora giovanissima, con una telecamera in mano, come è andata?
Ho fatto una gavetta non facile da lì in avanti, in cui ho imparato moltissimo. Si può dire che ho una formazione “pop”, perché ho fatto tante esperienze tra loro collegate ma diversissime: dopo aver studiato storia del cinema, ho fatto un anno a Roma in pubblicità, poi sono passata a Milano dove ho lavorato per la Colorado – la casa di produzione di Gabriele Salvatores – sempre in pubblicità e poi ho avuto l’occasione di fare la mia prima regia per Canal+, questa volta, per la televisione.
Ho scritto i testi e ho fatto la regia di un programma televisivo che si chiamava “Action” sui backstage dei film. Se ripenso a me, allora, mi rivedo giovanissima e inesperta, non conoscevo per nulla questo mondo, come oggi – ma sicuramente erano anni dove c’era fermento e non mancavano le opportunità. Allora non sapevo bene come muovermi, quindi ho fatto un po’ di pubblicità e un po’ di televisione finché, grazie ad Antonio Lampis, che aveva visto dei miei lavori e che mi ha chiamato a partecipare a una gara d’appalto per un video sul tema “La cultura allunga la vita”, sono tornata, dopo dieci anni fuori casa, di nuovo in Trentino e ho curato, grazie a lui, la regia di una prima serie televisiva sull’arte, si chiamava “Storia dell’arte” con Piero Siena, lo storico ex direttore del Museion di Bolzano.
Una volta rientrata in Trentino Alto Adige, lontano dal fermento di Roma e Milano, come è proseguito il tuo percorso professionale?
Mi sono fermata in Trentino Alto Adige una decina di anni e ho iniziato a lavorare, in particolare, alla promozione culturale dell’Assessorato alla Cultura di Bolzano. Ho fatto diversi lavori per loro e posso dire che proprio in questo periodo ho scoperto il documentario. Non nasco quindi come documentarista pura, perché ho avuto prima una formazione di tipo televisivo-pubblicitario e di storica del cinema: la scoperta del documentario, che tuttora porto avanti, è quindi arrivata dopo, ma sicuramente tutta la mia esperienza pregressa è stata preziosa.
Tra tutte queste strade e linguaggi visivi e narrativi intrapresi negli anni, qual’è la traiettoria in cui ritieni – con l’esperienza dell’oggi – di identificarti maggiormente?
Sicuramente, aldilà del linguaggio scelto – anche perché i generi oggi sono sempre più contaminati l’uno con l’altro – posso forse individuare, piuttosto, una mia strada personale in determinati filoni narrativi, in temi a me cari che mi piace approfondire particolarmente: tra questi c’è sicuramente un filone legato all’arte contemporanea e qui posso citare – tra i miei lavori – le tre serie realizzate con Letizia Ragaglia, Piero Siena e Denis Isaia, sulla Storia dell’arte; un documentario su Arte Sella e un un documentario sul Mart di Rovereto. Poi sicuramente amo raccontare il mio territorio, sia le eccellenze che lo contraddistinguono, come anche le storie delle piccole comunità – nonostante io non abbia delle radici familiari così profonde - tuttavia mi intrigano molto le storie di cultura locale con vissuti affascinanti da riportare a galla.
Anche la figura della donna è al centro di molti tuoi progetti…
Assolutamente sì. Nei primi anni ‘90 quando giravo con la mia telecamera, ero un po’ una “rarità”, adesso ci sono molte più donne che lavorano in questo settore e io amo sostenere e raccontare le donne in ogni loro ambito d’espressione, anche perché sono cresciuta in una famiglia permeata da una visione e un pensiero politico-culturale dove si riteneva basilare lottare per la parità di genere.
Quindi questo è un tema che ho accolto sempre con particolare interesse, anche nei lavori su commissione. Ho realizzato un documentario sulle badanti russe e ucraine che venivano a lavorare in Italia a inizio anni 2000 e recentemente, anche il mio ultimo documentario aveva al centro una figura femminile: la scrittrice Susanna Tamaro. Poi ci sono state campagne sociali contro la violenza sulle donne e altri documentari sempre “dalla parte delle donne”. Per esempio sono stata sostenuta dalle Film Commission di Trento e Bolzano, per un progetto commissionato dal canale Real Time di Discovery Channel che si chiamava “Sogni in grande”: in questo caso erano le bambine ad essere protagoniste, nella fascia d’età delle elementari. Il tema era un po’ questo: come stanno cambiando i sogni delle bambine, cosa sognano di fare da grandi. Sono venute fuori cose interessanti, di sicuro le bambine oggi sono più consapevoli, sentono meno la differenza di genere rispetto al passato.
C’è poi un altro tuo film importante “tutto femminile” – di cui vorrei chiederti di parlarci – che è “Funne – Le ragazze che sognavano il mare”…
Sì, questo rimane forse il film in cui io mi identifico di più, tuttora, che unisce vari elementi a me cari e che è sicuramente una storia al femminile, una storia di sorellanza”. Racconta di alcune donne anziane della Val di Non, in Trentino, che ho scoperto che non avevano mai visto il mare. Questo fatto mi aveva colpito molto e ho fatto un grosso lavoro di scrittura nel cercare di raccontare questo gruppo di vecchiette del “Circolo Pensionate – Il Rododendro” – che si sono date da fare per trovare i soldi per andare insieme al mare per la prima volta. Per realizzare un film come questo ci sono voluti un paio d’anni tra ricerca fondi e sviluppo, non è stato facile. Con “Funne” ho scoperto la commedia – e mi piacerebbe coltivare anche in futuro questo genere in cui oggi, forse, mi riconosco di più ed è in linea con il mio approccio alla vita. Mi piacciono le storie edificanti, storie di persone normali, anche un po’ sfortunate a volte, che però lottando, faticando, cercano di realizzare un sogno, raccontate con un registro ironico, lieve. Con quella leggerezza che ti fa strappare il sorriso anche quando si parla di macro-temi. Mi piace partire dalle piccole storie per andare a parlare di un po’ di tutto, come in questo film: qui si parla di vita, d’amore, di morte, di solitudine, di amicizia ecc. Ed è forse il mio film che è andato meglio: abbiamo avuto moltissime proiezioni, in Italia e all’estero, si è interessata la BBC, la televisione coreana lo ha trasmesso, ha girato i festival… Ci siamo chiesti perché tutto questo interesse mediatico; è stato un successo inaspettato, perché probabilmente c’è stato un meccanismo di identificazione: è emerso un senso di umanità condivisa e di verità.
Nel creare i personaggi – nel prefiggerti di andare a fondo nelle storie – come lavori?
In effetti il lavoro che mi piace di più è proprio quello sui personaggi, lavorare con persone vere. Quindi cerco di creare un’intesa e un’intimità particolare con loro per entrare in profondità nelle storie. Questo è stato anche il lungo lavoro che ho fatto in più di due anni, con Susanna Tamaro per il documentario su di lei: “Inedita”. Susanna è una donna dalla personalità ricchissima e complessa, che aveva anche scoperto di recente – da tre anni – di soffrire della sindrome di Asperger – e il film tratta anche di questo. Nel film parlo poco di lei come scrittrice, racconto di lei piuttosto come essere umano. Lei si è proprio affidata a me in maniera molto generosa per cui nel nostro rapporto, tra autore e protagonista si è creata una particolare fiducia, uno scambio, un darsi di entrambe le persone. Solo così si può raccontare una storia “vera” che rimandi delle vibrazioni vere allo spettatore.
Sono felice perché questo film è arrivato dopo che lei ha visto “Funne”, in occasione di una candidatura a un premio; lei mi ha scritto dicendomi che desiderava incontrarmi, perché inizialmente voleva che facessi un film tratto da un suo libro. Infatti abbiamo scritto insieme una sceneggiatura e siamo ancora in ballo su questo progetto. Trovo bello che ci sia stato un riconoscimento nel lavoro tra noi due, lei mi ha capita attraverso il lavoro che faccio, le storie che racconto; poi quando ci siamo incontrate, le ho detto che dovevamo fare un film su di lei prima di qualsiasi altra cosa!
Quale altro filone/tema segui oltre a quelli già citati?
Tra i diversi filoni che ho seguito negli anni c’è sicuramente anche quello del lavoro. Inizialmente ho portato avanti una serie di documentari di matrice più storico-sociale, uno sulla resistenza, per esempio, poi ho realizzato un documentario che si chiama “Sloi – la fabbrica degli invisibili” del 2009, che racconta una delle pagine più nere della storia trentina, quella di una fabbrica costruita durante la guerra che produceva una sostanza, il piombo tetraetile, impiegato per fare la benzina, che ha intossicato e ucciso tantissimi operai.
In questo tipo di progetti amo tantissimo lavorare negli archivi, fare ricerche fotografiche e di documenti. Tra i vari progetti di questo filone, mi hanno commissionato anche un documentario sulla costruzioni delle centrali idroelettriche e in quel caso, c’era già del notevole materiale a cui attingere – film di grandi registi come Olmi e Risi – e io sono partita dai loro film per ricostruire la storia; ho addirittura ritrovato gli operai che 50 anni prima Olmi aveva immortalato e li ho riportati nei luoghi dove hanno costruito le centrali. Anche in lavori documentari come questi il personaggio è al centro della mia narrazione: è un lavoro intenso dove il regista diventa quasi uno psicologo.
Anche il tuo progetto più recente, la serie televisiva “Falegnami ad alta quota” mette al centro il tema del lavoro…
Sì, sto girando una serie televisiva per DMAX su dei falegnami – siamo alla seconda stagione – dove racconto una storia di imprenditoria familiare, in versione action – quindi il lavoro è piuttosto “avventuroso” per me – implica viaggi in elicottero, dormire in cantieri, girare ad alta quota: è un’esperienza tosta! Il lavoro è partito così, due anni fa: mi serviva un asse di legno per il mio studio e mi sono rivolta a dei falegnami vicino a dove vivo e ho scoperto che sono leader nel settore della costruzione di rifugi ad alta quota sulle Dolomiti. Quindi ho scritto la serie, DMAX ha deciso di investire sul progetto e siamo partiti. La prima stagione in sei puntate è andata in onda l’anno scorso e ora sto girando la seconda stagione che spero andrà in onda l’anno prossimo. Il genere è action, ma non manca il mio sguardo “femminile” su un mondo principalmente maschile, con un tocco di ironia e leggerezza che via via ho scoperto appartenermi sempre di più.
Katia hai qualche sogno nel cassetto, prossimo o futuro?
Adesso vorrei arrivare alla finzione; vorrei realizzare un film. Ho una serie di progetti, ma tutti in sospeso per ora. Continuo a scrivere perché l’amore più grande per me, rimane quello della scrittura. C’è una cosa bella a proposito di “Funne”, che però non ti ho detto: un paio di anni fa sono stata contattata da una casa di produzione inglese che lo aveva visto e voleva farne una versione cinematografica ambientata in Inghilterra. Così ho scritto la mia prima sceneggiatura di finzione; un adattamento, perché la storia è trasposta in Inghilterra e le anziane signore le mando al mare in riviera romagnola! Io sono cresciuta al Bagno Paradiso di Cesenatico e quindi non potevo che ambientare il film proprio lì. Adesso stanno cercando il regista inglese per farlo: questo è sicuramente un mio sogno che potrebbe avverarsi, spero presto.
Credits: (1) foto tratta da “Funne” (2) Katia Bernardi (3,4) foto sul set di “Funne” (5) Katia Bernardi con Susanna Tamaro (6) Foto sul set di “Falegnami ad alta quota” (7) Katia Bernardi alla presentazione di “Inedita” a Roma.
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