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September 19, 2022
Handy Hands: racconti di vita
tra gesto e parola
Maria Quinz
Le mani sanno raccontare spesso più delle parole. Qualcuno – non a caso – ha detto che se si vuole conoscere la vita di qualcuno, bisogna guardare le sue mani: la loro geografia e il loro agire, il loro andirivieni e il loro sostare. Le mani sono il primo tramite di una molteplicità di gesti, spesso inosservati, ma fondamentali che improntano le nostre esistenze: come una stretta di mano, che introduce a nuove conoscenze e una mano tesa che chiede aiuto; come una carezza che esprime affetto o la mano di un bimbo che stringe quella della madre, cercando sicurezza e conforto. Le mani e i loro gesti – per chi le sa osservare – raccontano storie più di quanto ci si immagini: parlano da sole di esperienze e sogni, di abilità e aspirazioni, di passato e di futuro.
La manualità, come strumento di narrazione del sé, è anche al centro del progetto Handy Hands, dove diventa punto di partenza per la valorizzazione di vissuti personali e retroterra culturali. Cos’è Handy Hands? È un progetto ideato dal duo Claudia Polizzi e Stefano Riba – grafica lei e project manager nel settore della cultura lui, oltre che coppia nella vita – responsabili dell’organizzazione e della comunicazione visiva, con il sostegno dell’Ufficio Bilinguismo e Lingue Straniere della Ripartizione Cultura Italiana – Provincia Autonoma di Bolzano e realizzato da Voltaire – European Education Centre dal 2021. Tra i collaboratori si contano l’esperto in scrittura autobiografica Alessandro Pedrotti, i fotografi e videomaker Giulia Faccin e Andreas Trenker e Coop19 per la comunicazione e i social.
Handy Hands dal 2018 coinvolge differenti gruppi di persone con background migratorio in una serie di incontri nell’arco di alcuni mesi, mirati alla socializzazione e all’apprendimento linguistico, tramite la pratica del racconto autobiografico come strumento di arricchimento e di valorizzazione personale. Come è scritto nel sito – che funge da archivio alle storie raccolte – a partire dal nome, il progetto Handy Hands, mette in campo una ‘polifonia’ di significati e chiavi di lettura. In inglese significa “mani pratiche”, abili nel fare qualcosa, ma anche “mani a portata di mano”, vicine nel caso servisse un aiuto. In tedesco das Handy è il cellulare, che oggi, è quasi un prolungamento della mano. Non è però l’ibridazione tra tecnologia e uomo a interessare gli ideatori, quanto piuttosto, al contrario, il fatto che le mani siano state i primi e fondamentali strumenti di comunicazione e lavoro. Al centro del progetto ci sono quindi le competenze manuali delle persone con background migratorio che spesso non sono, con dispiacere di chi le possiede, applicate nelle occupazioni attuali. Rimangono, quindi, nascoste, latenti. Tuttavia queste competenze sono molto importanti, rientrano, infatti, nella definizione che la Convenzione UNESCO ha dato, nel 2003, del patrimonio culturale immateriale, cioè “le conoscenze, le tradizioni, il folclore, i costumi, le credenze e le lingue sono parte integrante del patrimonio culturale di un luogo”. Il progetto si propone di riportare a galla tali abilità, rivelare queste doti rimaste invisibili e contribuire a creare una società più inclusiva e aperta.
Attualmente, fino al 3 ottobre lo spazio ‘Aperto 2’ di TreviLab ospita la raccolta di storie, immagini e oggetti di due anni di incontri di Handy Hands. L’esposizione presenta fotografie, video, parole, oggetti, che compongono le 17 storie dei/delle partecipanti al progetto tra il 2020 e il 2022, provenienti da 11 paesi diversi. Di questo e altro ne parliamo con gli ideatori di Handy Hands, Claudia Polizzi e Stefano Riba.
Stefano e Claudia, com’è nato Handy Hands?
Claudia: Il progetto è nato nel 2018, come progetto “casalingo” dopo che l’Ufficio Bilinguismo di Bolzano ci aveva contattati per avviare una collaborazione. Erano rimasti colpiti dalla nostra attività di quegli anni, avevamo infatti iniziato a organizzare una serie di piccole mostre a casa nostra, prima che arrivassero i figli. Disponevamo di due grandi stanze dove, piuttosto spontaneamente, ospitavamo i lavori di alcuni artisti nello spazio domestico, aprendo le porte di casa a tutti quelli che volevano venire a visitarla. L’idea era piaciuta molto all’Ufficio Bilinguismo che ci ha proposto di trasporre questa dimensione domestica in una collaborazione con loro, mirata all’apprendimento linguistico dell’italiano. Ci hanno chiesto quindi di proporgli un progetto che avesse sede proprio nel nostro appartamento e che permettesse di ricreare per i partecipanti la stessa dimensione socializzante, familiare e piacevole che aveva caratterizzato le nostre esposizioni in casa.
Come siete arrivati alla centralità del gesto manuale di Handy Hands?
Claudia: Siamo partiti con l’idea di mettere il gesto della mano come elemento unificatore, perché rappresenta sicuramente una prima modalità di comunicazione per chi non padroneggia la lingua. Nella prima edizione – che non aveva l’ambizione di essere un progetto pubblico – sono state coinvolte sei persone con background migratorio e un mediatore culturale, che ci ha aiutato anche nella ricerca dei partecipanti. Si sono svolti quattro incontri estremamente stimolanti e abbiamo prodotto un video. Nel video lo sfondo è completamente oscurato, il volto e il corpo delle persone che hanno partecipato, “mettendoci le mani”, non sono riconoscibili: la gestualità delle mani è quindi protagonista. Ci piaceva l’idea di dare uniformità alle persone, in modo che non si potesse distinguerle, mettendo al centro l’espressività e la forza del gesto.
Il video è una sorta di manifesto…
Stefano: Esattamente. L’output iniziale della primissima serie di incontri è stato il video. Quando lo abbiamo realizzato non sapevamo che strada avrebbe preso il progetto, se avremmo proseguito solo con il lavoro di storytelling e la creazione di narrazioni visive. Ci piaceva l’idea di andare oltre questo e la centralità delle mani in questo video è stata fondante: ci ha indirizzato verso i nuovi sviluppi del progetto, spingendoci a coinvolgere persone non soltanto con un background migratorio ma che avessero anche sviluppato delle personali capacità manuali e artigianali.
Come si è evoluto poi il progetto?
Claudia: L’anno successivo ci hanno chiesto il video per la campagna di sensibilizzazione durante la Giornata internazionale dei Migrante, il 18 dicembre. Quel giorno il video è stato proiettato un po’ ovunque a Bolzano in tantissimi schermi cittadini, al Film Club, negli autobus, nei musei, ecc..
Poi via via il progetto è stato rifinanziato e ampliato e abbiamo trovato altri sei/sette partecipanti per la seconda edizione. Con il diffondersi del Covid non abbiamo più potuto proseguire con gli incontri in casa, andando online e la natura del progetto ha subito una serie di cambiamenti. Il Covid ha pesato non poco nelle vite di molte persone che hanno preso parte al progetto: loro, come tanti altri che riuscivano a vivere con piccoli lavoretti, hanno visto interrompersi queste attività e hanno dovuto trovare soluzioni alternative, cambiando anche città, in alcuni casi. Attività precarie ma che rispondevano alle loro passioni – come il cucito, la creazione di gioielli, il teatro di strada – sono state inevitabilmente interrotte. Molti di loro hanno dovuto reinventarsi, alcuni hanno iniziato a lavorare in imprese di sanificazione che in quel periodo offrivano delle opportunità di lavoro.
Riuscite quindi a seguire nel tempo queste persone?
Stefano: Dove è possibile, sì. Anche perché è forte il desiderio di andare oltre al semplice progetto di storytelling. Ci sono tantissimi progetti di storytelling importanti, che però da un lato parlano a un pubblico già interessato e sensibile, dall’altro lasciano poco a chi dona queste storie. Fin dall’inizio ci siamo attivati nell’aiutare queste persone, magari a trovare dei piccoli lavori in forma privata e volontaria, anche se questo non era un uno degli scopi primari del progetto. Posso dire qui che in questa direzione abbiamo attivato, grazie all’Ufficio Bilinguismo, un canale con il centro di mediazione lavoro della Provincia che inserirà Handy Hands tra i possibili percorsi che le persone con un background migratorio e spiccate abilità manuali e che vogliono trovare lavoro, potranno fare come strumento di empowerment linguistico e non solo. L’intento è quello di valorizzare le loro capacità e guidarli nella consapevolezza delle loro potenzialità, non solo in ambito lavorativo ma anche culturale e magari auto imprenditoriale. Succede troppo spesso che le persone che arrivano da fuori abbiano una serie di capacità che poi non vengono applicate. E spesso questo genera delle perdite: perdita della memoria, perdita di saperi, generando sentimenti di rimpianto verso ciò che si è perso abbandonando il proprio paese.
Il sito è una parte importante del vostro progetto…
Claudia: Il sito l’abbiamo concepito come uno strumento funzionale e utile a mostrare le capacità di queste persone. Si presenta un po’ come un archivio di facile fruizione: un portale dove via via si andranno ad aggiungere sempre nuove storie, con i volti e i racconti dei nuovi partecipanti. Nell’ultima edizione abbiamo avviato anche una collaborazione con l’Associazione Voltaire e gli incontri si sono svolti presso la loro sede. Si è aggiunta la collaborazione di Alessandro Pedrotti che ha lavorato insieme a Stefano sul racconto autobiografico, come strumento di empowerment e di conoscenza di sé. Da questi incontri sono venute fuori delle interviste, dei racconti un po’ più estesi rispetto ai precedenti, che stiamo per pubblicare proprio ora sul sito e che ci saranno anche nella prossima edizione.
Quando partirà il prossimo ciclo di incontri?
Stefano: Iniziamo ad ottobre con il nuovo ciclo di incontri che si chiuderà a dicembre. Colgo l’occasione per segnalare qui che stiamo cercando nuovi partecipanti, sempre con un background migratorio. Oggi coinvolgiamo solo persone con un permesso regolare di soggiorno e che siano quindi già in Italia da qualche tempo. Vi aspettiamo!
Credits: (1) Claudia Polizzi in un ritratto di Claudia Corrent; (2) Claudia Polizzi e Stefano Riba, (3–4) Elvis, Kamrun, Rachida e Mamadou fotografati da Andreas Trenker e Giulia Faccin.
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